TAR Salerno, sez. I, sentenza 2014-01-13, n. 201400086

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Salerno, sez. I, sentenza 2014-01-13, n. 201400086
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Salerno
Numero : 201400086
Data del deposito : 13 gennaio 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00371/2011 REG.RIC.

N. 00086/2014 REG.PROV.COLL.

N. 00371/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

sezione staccata di Salerno (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 371 del 2011, proposto da:
A M, rappresentato e difeso dall’ avv. L V, con domicilio eletto in Salerno, alla via Dogana Vecchia, n. 40;

contro

Comune di Eboli, in persona del Sindaco in carica pro tempore , rappresentato e difeso dagli avv. E I e N B, con domicilio eletto in Salerno, alla via Carmine, n. 92 c/o Avv. F. Rosa;

per il risarcimento

del danno conseguente all'illegittimo diniego opposto dal Comune di Eboli sull'istanza tesa al conseguimento della concessione edilizia in variante di cui al provvedimento n. 16129/1992


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Eboli in Persona del Sindaco P.T.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 24 ottobre 2013 il dott. Giovanni Grasso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.- Con ricorso notificato in data 10 febbraio 2011 e depositato il 3 marzo successivo, A M formalizzava domanda di risarcimento, in forma specifica ovvero per equivalente pecuniario, dei danni derivanti dal prospettico ritardo e/o dalla impossibilità di completamento del fabbricato alla località Ceffato di Eboli, da imputare al comportamento del Comune di Eboli, presso il quale da molti anni le relative richieste di approvazione di pratiche edilizie erano state autorizzate parzialmente, sospese o illegittimamente respinte (come sancito, da ultimo, dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 4779/2010).

A sostegno del gravame ha depositato copiosa documentazione ed elaborato peritale di parte.

2.- L’Amministrazione intimata si è costituita in giudizio, instando per la reiezione del gravame.

Espletati incombenti istruttori, alla pubblica udienza del 24 ottobre 2013 la causa è stata riservata per la decisione.

DIRITTO

1.- In data 7/9/78 il Comune di Eboli rilasciava ai germani M Generoso, Mario, Angelo e Teresa la concessione edilizia per la realizzazione di un fabbricato civile alla via Spirito Santo, come da progetto redatto dall'ing. Donato Del Guercio ma sensibilmente ridimensionato dal Comune, quanto alla volumetria assentita, in sede di rilascio della concessione edilizia.

In data 14/3/79 il Comune rilasciava ai medesimi germani M una concessione in variante con la precisazione che erano escluse le opere cancellate in rosso sui grafici di progetto vistati. Dalla pratica edilizia presentata si rileva che i germani M richiedevano la concessione edilizia per la realizzazione di un fabbricato con riferimento ad una superficie del lotto edificabile di 2.489 mq ed all'indice di costruzione della zona B residenziale di 4 mc/mq;
nel computo del lotto edificabile il tecnico non includeva una striscia di terreno pure di proprietà M che si dipartiva dalla strada statale con l'aggiunta della quale la superficie complessiva del lotto disponibile risultava di circa 2.650 mq.

Per l’effetto, il Comune di Eboli, nel rilasciare la concessione edilizia, limitava sensibilmente la volumetria assentita, in quanto riteneva che la superficie del lotto da utilizzare fosse di 2.126 mq e l'indice di fabbricabilità fondiaria di 3 mc/mq;
la minore superficie del lotto veniva giustificata con il fatto che una parte dell'appezzamento di terreno risultava interessata da una procedura di esproprio per la realizzazione della locale Pretura.

A seguito della richiesta del ricorrente, divenuto esclusivo proprietario del suolo in base all'atto per notaio Mottola rep.100345 del 9/9/78, il Comune concedeva la voltura delle suddette concessioni edilizie.

In data 1/8/91, con istanza acquisita al prot.16129, il M presentava una richiesta di concessione edilizia in variante che teneva conto del fatto che la superficie del lotto, dopo gli espropri eseguiti dal Comune, era risultata inequivocabilmente pari a 2.605,05 mq, come accertato dai propri tecnici.

Il Comune, con provvedimento n.16129/91 del 1/10/92, comunicava tuttavia che la concessione edilizia richiesta non poteva essere rilasciata, in quanto la superficie disponibile del lotto era stata determinata dall'UTC in 2.126 mq con attestazione del 16/3/79 e posta a base anche di sentenze dell'Autorità giudiziaria per cui non poteva essere modificata sulla base di relazioni tecniche di parte.

Tale provvedimento veniva impugnato dal sig. M innanzi a questo Tribunale con ricorso n. 359/1993, formulando anche una istanza cautelare che veniva respinta con ordinanza resa inter partes alla camera di consiglio del 10/3/93.

Nelle more, peraltro, con nuova istanza del 17/2/93, il ricorrente chiedeva al Comune l'esecuzione di un sopralluogo in contraddittorio per accertare la superficie di sua proprietà e quindi riesaminare la richiesta di concessione edilizia presentata 1'1/8/91.

L'UTC, con nota del 19/10/93 prot.8961, rilevava che la superficie dell'area ricompressa tra la recinzione della Pretura e la strada di collegamento tra via Spirito Santo e via SS 19, era di 2.650,20 mq, cui andava peraltro detratta la superficie di 358,20 mq facente parte di quella parte espropriata dal Comune e non utilizzata ed oggetto di contenzioso, e la superficie di 168 mq rappresentata da una strada esistente di accesso alla proprietà Fierro: con tali detrazioni 1'UTC ribadiva, quindi, che la superficie del lotto M era di 2.124 mq (2.650,20 - 358,20 -168).

A seguito della concessione edilizia rilasciata dal Comune nell’anno 1998, si aveva un parziale sblocco della situazione, in quanto veniva consentito al ricorrente di completare gli accessi ai due vani scala e quindi gli appartamenti, rimanendo ancora escluso dal completamento il solo primo livello per il mancato riconoscimento della maggiore volumetria realizzabile.

Nelle more, con ordinanza del 26/1/00, questo Tribunale disponeva un accertamento in ordine alla misura della residua disponibilità del lotto, nominando all'uopo il dirigente della sezione di Salerno del Provveditorato OO.PP o suo delegato;
in data 10/1/01 il dott. C, tecnico designato, depositava la propria relazione.

2.- Con sentenza n. 2329/02, il Tribunale rigettava il ricorso, avendo rilevato che dalla relazione tecnica del dott. C e dalla documentazione alla stessa allegata risultava che la superficie del lotto fosse pari a 2.650,20 mq,, incluse però la superficie di 168 mq impegnata dalla strada di accesso alla proprietà Fierro e la superficie di 358,20 mq espropriata al ricorrente per la costruzione della Pretura e retrocessa in favore dello stesso solo in data 15/9/97 (e, quindi, in epoca posteriore alla adozione del contestato diniego).

Avverso la sentenza del TAR proponeva appello il sig. M: appello che, sentenza n.4779/2010, il Consiglio di Stato accoglieva, rilevando la evidente approssimazione e contraddittorietà tanto del diniego comunale fondato su presupposti erronei quanto dell'istruttoria eseguita, il tutto sulla base della attestazione prot. 3347 del 26/1/06 a firma del Dirigente dell'area Sviluppo del territorio del Comune di Eboli, dalla quale risultava: a ) che “ le porzioni di suolo edificatorio, costituenti parte della part. 66 del fog. di mappa n.13 […] non [erano] state mai asservite per la volumetria dei fabbricati Fierro e Bello, per cui la loro capacità edificatoria non [era] consumata ”; b ) che “ lo stesso [avrebbe dovuto dirsi] per la striscia di terreno avente una superficie di mq 44,40 […] e [ scil : per] la striscia di terreno della superficie di mq 342 mai occupata per la realizzazione della Pretura ed esterna alla recinzione del predetto edificio ”, di tal che doveva precisarsi che “ tali porzioni di terreno non [facevano] parte del lotto Fierro e Bello e della Pretura, ma [erano] di proprietà e nella disponibilità dei sig. M, e concorr [evano] alla formazione del lotto edificabile adiacente da essi posseduto ”, ritenendosi, in conclusione che “ il lotto edificabile dei sig M, corrispondente a parte della part. 66 del foglio di mappa n.13, occupava ed occupa tuttora una superficie di mq 2.650,20 ".

3.- In esito alla pronuncia del giudice di seconde cure, la riattivazione, in prospettiva conformativa, del procedimento preordinato al riesame della istanza di rilascio del titolo abilitativo a suo tempo formulata si concludeva con la nota prot. 26400 in data 4 luglio 2012, a firma del responsabile del settore urbanistica, non fatta oggetto di impugnativa e/o di contestazione, con la quale si accertava la attuale non assentibilità dell’intervento, per contrasto con le disposizioni di cui all’art. 11, parte I, delle norme di attuazione del vigente piano regolatore, avuto segnatamente riguardo alla preclusa realizzabilità in loco di nuove unità immobiliari ed al mancato rispetto della programmatica destinazione d’uso.

Tali ultimi rilievi – la cui esattezza il Tribunale non è chiamato a verificare per il già rilevato difetto di impugnazione e contestazione – appaiono per sé preclusivi dell’auspicato riconoscimento di tutela in forma specifica (e/o di condanna all’esatto adempimento), dovendo, per tal via, procedersi alla disamina della residuale domanda di ristoro del danno lamentato per equivalente pecuniario.

4.- All’uopo la difesa dell’Amministrazione comunale è incentrata sul preliminare rilievo per cui, alla luce della giurisprudenza elaborata in subiecta materia , l'accertata illegittimità dei provvedimenti adottati dalla pubblica amministrazione non potrebbe integrare di per sé gli estremi di una condotta colposa, cui ricollegare automaticamente l'obbligo risarcitorio, dovendo a tal .fine prendersi in considerazione il comportamento complessivo degli organi che sono intervenuti nel procedimento, il quadro delle norme rilevanti ai fini dell'adozione della statuizione finale, la presenza di possibili incertezze interpretative in relazione al contenuto prescrittivo delle disposizioni medesime, onde apprezzare se l'organo procederne sia incorso in violazioni delle comuni regole di buona amministrazione, di correttezza, di imparzialità e buon andamento.

In sostanza, la responsabilità per colpa potrebbe essere affermata solo quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare ictu oculi la negligenza e l'imperizia dell'organo amministrativo nell'assunzione del provvedimento viziato, dovendo, per contro, essere negata quando l'indagine conduca al riconoscimento di un errore scusabile, per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l'incertezza del quadro normativa di riferimento o per la complessità della situazione di fatto.

Nella fattispecie, in particolare, sarebbe evidente la non ricorrenza dell'elemento soggettivo della colpa della P.A., posto che la motivazione che aveva determinato il diniego sull'istanza di rilascio della concessione edilizia in variante, presentata dal ricorrente, aveva, come si è esposto, fondamento nella " insufficiente disponibilità di superficie del lotto ": motivazione fatta, come tale, stata oggetto di apposito accertamento tecnico, disposto nel corso del giudizio innanzi a questo Tribunale, il quale, sia pure con giudizio disatteso in sede di gravame, aveva sostanzialmente riconosciuto corretta la commisurazione effettuata dal Comune alla data dell'adozione del provvedimento di diniego impugnato (1/10/1992), respingendo il ricorso con sentenza.

Tale circostanza, a dire del Comune , sarebbe per sé tale da escludere la ricorrenza della colpa grave, non potendo prescindersi dal considerare che il comportamento posto in essere dall'amministrazione non avrebbe violato i doveri di imparzialità. correttezza e buona amministrazione, essendo stato per l’appunto, in prima battuta, confermato dall'accertamento tecnico disposto dal giudice e condotto da un organo terzo in contraddittorio tra le parti.

Aggiunge l’Amministrazione che, per giunta, parte delle volumetrie formalmente denegate sarebbero state, di fatto, realizzate dal ricorrente sine titulo e, in parte, fatte oggetto di sanatoria.

In via subordinata, contesta la quantificazione del danno formulata dall’elaborato peritale di parte, segnatamente nella parte in cui muove dalla postulazione di un indice di fabbricabilità pari a 4 mc/mq, a suo dire precluso dalla operatività illo tempore della previsione di piano impositiva della preliminare approvazione, ad iniziativa pubblica o privata, di strumento attuativo.

5.- Sulle esposte premesse, il Collegio osserva che – definitivamente acclarate l’illegittimità dell’originario diniego e la attuale non assentibilità della istanza in forza della sopravvenuta pianificazione urbanistica – ai fini della disamina della domanda risarcitoria appaia decisivo l’accertamento della colpa dell’Amministrazione, quale criterio normativo di imputazione e traslazione dell’ingiusto pregiudizio subito.

6.- A proposito del (necessario) requisito della colpa della pubblica amministrazione quale (autonomo e distinto) presupposto per la tutelabilità, in via aquiliana, degli interessi legittimi pretensivi compromessi dalla adozione di provvedimenti contra legem , importa, in generale rammentare (cfr., sul punto, TAR Salerno, sez. I, 18 ottobre 2010, n. 11810), come la sentenza n. 500/1999 delle Sezioni unite della Cassazione segni, ai fini che qui interessano, il passaggio dalla culpa in re ipsa (frutto della tradizionale e postulata impossibilità di prefigurare un giudizio di colpa ancorato alla personale negligenza o imperizia del funzionario agente) alla colpa c.d. di apparato , discendente dalla violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona Amministrazione da parte della organizzazione amministrativa (colpa come “disorganizzazione”).

Alla base del significativo revirement c’è, come è noto, una duplice e concorrente esigenza:

a ) da un lato infatti – sotto un profilo schiettamente dogmatico – l’affermazione che l’attività provvedimentale illegittima integrasse di per sé (nella logica della responsabilità in re ipsa ) la colpa dell’apparato pubblico aveva finito (pur nel, più raffinato, ambito di una concezione normativa della colpevolezza essenzialmente ispirata alla logica penalistica della colpa specifica ex art. 43 c.p.) per porre dubbi di compatibilità con il principio della personalità della responsabilità civile (anche alla luce del ribadito carattere eccezionale della responsabilità oggettiva) e per evocare, parallelamente, una sintomatica (ed in certo senso paradossale) disparità di trattamento tra l’Amministrazione pubblica e gli altri soggetti dell’ordinamento, la cui colpa di regola deve essere provata e non è presunta: onde la tesi della culpa in re ipsa finiva per risolversi in una sorta di interpretatio abrogans dell’art. 2043 c.c. o in una sua sostanziale riscrittura, allorquando fossero in gioco i rapporti tra privato e Pubblica Amministrazione;

b ) dall’altro lato – ed in termini assai significativi – proprio la riconosciuta applicabilità dell’art. 2043 anche alla attività provvedimentale della pubblica Amministrazione e la rottura dell’argine della postulata irrisarcibilità degli interessi legittimi imponeva di distinguere chiaramente il profilo della illegittimità (dell’ atto ) da quello della illiceità (della condotta ), al fine di predisporre una necessaria “rete di contenimento” ai giudizi risarcitori.

In sostanza, i tentativi volti a svalutare l’elemento soggettivo nell’illecito aquiliano della Pubblica Amministrazione sono stati smentiti da considerazioni di carattere generale attinenti all’ordinamento positivo, alla stregua delle quali, se si vuole inquadrare la responsabilità dell’Amministrazione nell’ambito dello schema dell’illecito di cui all’art. 2043 c.c. (schema, non a caso, escluso in materia di pubblici appalti, da Cons. Stato, 8 novembre 2012, n. 5686, che ha argomentato la autonomia della responsabilità obiettiva in tale speciale ambito, alla luce di Corte di Giustizia CE, Sez. III - 30 settembre 2010, C-314/09 ed avuto con ogni evidenza riguardo alla funzione non puramente compensativa della tutela ex artt. 122 ss. d. lgs. n. 163/206, nella attuale formulazione), non si può prescindere dall’indagine della imputabilità della condotta, così come avviene per i privati: di guisa che, ad un certo punto, le ragioni di semplificazione probatoria sottese all’orientamento tradizionale (volte a non imporre al privato un onere di allegazione eccessivamente pesante ed ad adeguare l’accertamento dell’elemento psicologico ad una organizzazione complessa) non sono logicamente sembrate più decisive.

In definitiva, la sentenza n. 500/1999 muove, per un verso, dalla esigenza ( formale ) di adeguare il giudizio di colpevolezza alla (nuova) lettura dell’art. 2043 c.c. (ricostruito quale norma primaria nel contesto di una concezione tecnica e non più etica della responsabilità civile, incentrata sulla ingiustizia del danno più che sulla illiceità del fatto e correlativamente orientata in funzione compensativa piuttosto che sanzionatoria ,con consequenziale dequotazione della centralità della colpa) e, per altro verso, dalla esigenza ( sostanziale ) di evitare quella automatica sovrapposizione tra giudizio di illegittimità e valutazione di illiceità che avrebbe trasformato (una volta rotto l’argine della irrisarcibilità degli interessi legittimi) la responsabilità dell’Amministrazione in vera e propria responsabilità oggettiva.

Tuttavia, la formula della “colpa d’apparato” finisce per essere, in concreto, scarsamente euristica, cogliendo (come non si è mancato di evidenziare soprattutto nelle più attente elaborazioni dottrinarie) l’essenza del problema senza risolverlo.

Essa, infatti, è – per un verso – scontata (ovvio essendo che la colpa oggettiva e specifica riconnessa alla violazione delle regole poste all’azione amministrativa provvedimentale non può confondersi con la colpa soggettiva e generica derivante dalla negligenza, imprudenza o imperizia del funzionario agente), per altro verso ambigua (in quanto ancora la colpa alla violazione di quelle stesse regole di azione in base alle quali si formula il giudizio di illegittimità, disancorandola da una manifestazione di volontà: si può, infatti, osservare che le regole di azione , riferite alla pubblica Amministrazione, concretano, nella prospettiva in esame, ad un tempo regole di condotta e regole di validità , concorrendo nella qualificazione della fattispecie in termini di illegittimità sub specie acti ed illiceità sub specie facti ). Onde – in termini chiaramente paradossali – per un verso potrebbe sembrare troppo agevole al privato dimostrare la colpa allegando la violazione delle regole “di buona amministrazione” (ma sarebbe questa una sostanziale sovrapposizione tra il giudizio di illegittimità e quello di illiceità, che fonda proprio la denegata logica della colpa in re ipsa ), dall’altro la prova della colpa (ove – come sembra allora necessario precisare – distinta dalla prova della illegittimità) finisce per diventare diabolica se non impossibile (una “colpa senza colpevoli”, come si è criticamente ma efficacemente osservato).

Le reazioni di dottrina e giurisprudenza agli evidenziati paradossi si sono mosse in duplice direzione:

a ) da un lato evocando, sul piano teorico ed in prospettiva sostanziale , un “ritorno”, in chiave “aggiornata” alla nozione oggettiva di colpa (come distinta dalla colpa in re ipsa );

b) dall’altro agevolando (sul piano applicativo ed in prospettiva processuale ) la posizione del privato mediante letture interpretative che comportassero una sostanziale inversione dell’onere probatorio (alla luce del sotteso e fondamentale criterio di vicinanza della prova ).

Dal primo punto di vista, si osserva che la tesi della culpa in re ipsa finiva per risolversi in una vera e propria “finzione di colpa” e, in buona sostanza, in una forma di responsabilità oggettiva (“occulta”), in quanto postulava (l’assunto di) una presunzione assoluta di colpa in presenza di illegittimità dell’atto (“se l’atto è illegittimo, l’Amministrazione versa per ciò stesso in colpa”).

Il chiarimento sul punto muove dall’osservazione che la c.d. colpa oggettiva (o specifica: arg. ex art. 43 c.p.) non va confusa con la colpa presunta, ma rappresenta solo la base normativa del giudizio di colpevolezza, inteso quale autonomo criterio di imputazione del danno ingiusto, distinto (ancorché beninteso correlato) rispetto al giudizio di illegittimità, che dà la stura all’apprezzamento del danno in termini di ingiustizia (per cui: se il provvedimento è illegittimo, il danno cagionato deve riguardarsi come ingiusto , siccome lesivo di un interesse protetto e tutelato dall’ordinamento;
ma perché sia anche risarcibile occorre che sia imputabile secondo il canone di colpevolezza, che – per definizione – non può circolarmente riconnettersi alla mera illegittimità, che ne rappresenta solo il presupposto).

Il (proficuo) richiamo alla giurisprudenza comunitaria (basata sulla logica della “violazione grave e manifesta” della norma attributiva al privato della situazione di vantaggio lesivamente compromessa dall’operato dei soggetti pubblici) ha, in tale prospettiva, indotto ad intendere la colpa quale mera “qualificazione” (in termini di gravità) dei vizi del provvedimento. Se si vuole, semplificando: non ogni illegittimità sollecita il risarcimento, ma solo quelle illegittimità “gravi” che fondino un giudizio di effettiva “rimproverabilità” in capo all’Amministrazione (ciò che avviene sulla scorta di indici sintomatici quali: a ) il grado di chiarezza e precisione della norma violata; b ) la presenza o meno di orientamenti giurisprudenziali consolidati; c ) l’ampiezza del potere discrezionale attribuito all’autorità; d ) il carattere intenzionale o meno della violazione; e ) l’eventuale novità della questione).

La tesi della “ gravità della violazione ” (per quanto in certo senso positivamente corroborata dalla recente modifica dell’art. 24 della l. n. 262/2005 operata, in tema di responsabilità delle autorità di vigilanza, dall’art. 4, 2° comma lett. d) del d. lgs. n. 303/2006, che si riferisce , a proposito della responsabilità delle autorità di vigilanza, ad “atti o comportamenti posti in essere con dolo o colpa grave) si è, peraltro, prestata ad alcune valutazioni critiche:

a ) per un verso, si osserva, la postulata equivalenza tra colpa e “violazione grave” esclude la risarcibilità in presenza di vizi formali non gravi , per i quali non può essere pregiudizialmente escluso un atteggiamento colposo dell’Amministrazione (una volta che lo si ancori non già – come la tesi in esame postula – alla misura della difformità dal paradigma legale di riferimento, sibbene al processo generativo dell’atto illegittimo , anche in relazione agli affidamenti privati lesi);
in altri termini, “gravità della violazione” significa “gravità del vizio” del provvedimento, per cui il “vizio non grave”, che pure legittima l’annullamento dell’atto, varrebbe ad escludere pregiudizialmente la risarcibilità dei danni;

b ) nella stessa prospettiva, il requisito di gravità della violazione finisce per porsi in rapporto di proporzione inversa rispetto all’ampiezza del potere discrezionale , poiché più il potere è discrezionale più il giudizio di gravità è disagevole (onde – non certo a caso – sulla scia della tesi in esame si è finito per distinguere il grado della colpa a seconda del tipo di vizio lamentato, per cui in caso di violazione di legge si avrebbe una colpa obiettivizzata , mentre in caso di eccesso di potere l’elemento colposo andrebbe specificamente dimostrato );

c ) per altro verso, laddove la colpa si ancori, nella chiave “quantitativa” postulata dalla impostazione in esame, al grado di divergenza tra regola violata ed azione amministrativa, la “gra-vità della violazione” finisce per coincidere con la “gravità della colpa”, con conseguente limitazione, in assenza di base normativa, della responsabilità della p.a. (in violazione, oltretutto, dei principi di eguaglianza e di pienezza della tutela giurisdizionale: artt. 3 e 24 Cost.);

d ) in direzione affatto opposta, l’inserimento tra gli indici rivelatori della colpa della univocità della normativa di riferimento finisce per aprire spazi notevoli di non colpevolezza e circostanze esimenti a favore della pubblica Amministrazione, per il tramite della canone di scusabilità dell’ error juris ( arg. ex Corte cost. n. 364/1988).

In diversa direzione – sul piano delle regole probatorie – la dottrina e la giurisprudenza hanno inteso svolgere in termini negativi il giudizio sull’elemento soggettivo, rimettendo alla pubblica Amministrazione (nella richiamata logica della vicinanza della prova) l’onere di dimostrare l’eventuale scusabilità dell’errore . In tal senso si rileva che l’illegittimità della determinazione amministrativa rappresenta, appunto, un errore del soggetto pubblico , di guisa che – ai fini della imputabilità delle conseguenze risarcitorie – occorra distinguere se si tratti di errore scusabile o meno (gravando, ovviamente, il relativo onere dimostrativo sulla stessa Amministrazione).

Il tentativo più radicale in questa direzione è, peraltro, compiuto dai teorici della responsabilità da “ contatto sociale qualificato ”, che ripudiano radicalmente il paradigma aquiliano per evocare un criterio di riparto dell’onere probatorio corrispondente a quello codificato, a tutto favore del privato, dall’art. 1218 c.c.. Rispetto al precedente orientamento della culpa in re ipsa , la tesi si risolve, sotto lo specifico angolo di osservazione della colpa, nel postulare una presunzione (non più assoluta, ma solo) relativa di colpa, superabile dalla pubblica Amministrazione con la dimostrazione che, in concreto, l’accertata violazione della regula agendi è derivata da vicende estranee al normale limite di esigibilità della condotta imposta al soggetto pubblico.

Tuttavia – al di à delle note critiche alla teoria del contatto sociale qualificato (che rischia di aprire la strada ad una tutela risarcitoria disancorata non solo dalla colpa, ma anche e prima ancora dallo stesso danno, in quanto sganciato dal necessario riferimento al finale bene della vita e riconnesso, in termini di interesse negativo da lesione di “affidamento procedimentale”, alla mera violazione delle formali regole dell’azione amministrativa;
oltretutto il riferimento al paradigma contrattuale sembra oggi concretamente smentito dalla previsione di cui all’art. 2 bis della l. n. 241/90, come modificata dalla l. n. 69/2009, in tema di danno da ritardo, che si colloca inequivocamente all’interno del paradigma aquiliano) – si è osservato che anche la configurabilità di una (generalizzata) presunzione (ancorché relativa) di colpa in presenza di un atto illegittimo non è plausibile, in mancanza di idonea base positiva: quel che può operare è solo una presunzione semplice ex art. 2727 e 2729 c.c., fondata su regole e massime di esperienza, nella logica dell’ id quod plerumque accidit , secondo un criterio di normale regolarità: ma si tratterebbe, allora, di una presunzione non (come la tesi criticata postula) in abstracto , ma solo in concreto ( praesumptio , infatti, hominis e non legis ), cioè a dire contestualizzata .

È questa, infatti, la tesi sostenuta da altra dottrina e da parte della giurisprudenza, le quali – ripudiando non meno la tesi della “gravità della violazione” che quella della natura contrattuale della responsabilità da contatto – assumono che la colpa andrebbe valutata “ con riferimento al processo generativo del provvedimento illegittimo ” ed alla sua “ attitudine a pregiudicare l’affidamento del privato ”, di tal che – a seguito dell’instaurarsi del rapporto amministrativo procedimentale – le regole che governano il procedimento amministrativo rappresentano la misura oggettiva della diligenza richiesta, in concreto, alla pubblica Amministrazione: onde la violazione di quelle regole, oltre a tradursi nella illegittimità dell’atto, rappresenta (in chiave sintomatica) indice presuntivo della colpa del soggetto pubblico (e la colpevolezza potrà dirsi provata quando la violazione risulti operante in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, laddove dovrà essere negata in presenza di un errore scusabile, per esempio imputabile al concorso di colpa dello stesso privato).

Provando a sintetizzare: ancorché la colpa (beninteso, in senso normativo e non psicologico ) si risolva pur sempre nella violazione delle medesime regole – formalizzate o meno – di ammi-nistrazione, il giudizio di responsabilità si colloca nella prospettiva ( dinamica ) della genesi (procedimentale) del provvedimento (regole che valgono ad apprezzare la condotta amministrativa in termini di “comportamento”, per saggiarne la lesione di affidamenti in capo alle controparti private), laddove diversa è la valutazione ( statica ) in termini di illegittimità: nel primo caso di tratta di culpa in concreto ( sub specie facti ), nel secondo di culpa in astracto ( sub specie acti ).

È in simile prospettiva che, in dottrina e nella più avveduta giurisprudenza, la tematica della colpa dell’Amministrazione ha finito per risolversi nella questione della scusabilità dell’errore commesso nella adozione del provvedimento illegittimo, elaborata mutuando in gran parte gli esiti della elaborazione penalistica in tema di scusabilità dell’ error juris (art. 5 c.p., nella “ricostruzione” di Cost. Cost. n. 364/1988). Con l’importante e triplice rilievo:

a ) che – in quanto l’errore sia propriamente di diritto , e coinvolga perciò (l’interpretazione e la concreta applicazione del)la norma violata, il profilo probatorio risulta in larga parte assorbito dalla quaestio juris (che sollecita l’officioso accertamento giudiziale, secondo il canone del jura novit Curia ): il che finisce per sdrammatizzare significativamente l’onere probatorio a carico del privato, il quale non dovrà fornire una plena probatio circa la (pretesa) inequivocità e la assoluta chiarezza della normativa da applicarsi al caso di specie, ma solo allegarla, spettando al giudice adito di conoscere lo stato dottrinale e giurisprudenziale relativo alla disposizione operante;

b ) che il discorso sarebbe diverso solamente in relazione agli elementi di fatto che concorrano a qualificare la colpa dell’Amministrazione (per esempio inerenti il disatteso apporto partecipativo in sede procedimentale), per i quali – tuttavia – un discorso in termini di error facti potrebbe utilmente essere condotto (nella medesima prospettiva della sua scusabilità in chiave esimente) secondo la sopra evocata logica presuntiva ex art. 2727 e 2729 c.c..

7.- Le riflessioni che precedono orientano nella definizione del caso concreto.

Premesso che il giudizio di colpa (e, per quanto precede, di scusabilità o meno dell’errore commesso) va temporalmente cristallizzato al momento di adozione dell’atto impugnato (mentre è solo la dimensione del danno che, in termini logicamente consequenziali, dovrebbe considerare il lungo tempo trascorso in prerdurante ed ingiusta compromissione delle deluse aspettative edificatorie), non può non osservarsi come (a dispetto dell’incidentale e non decisivo rilievo, valorizzato in seconde cure, della “ evidente approssimazione e contraddittorietà ” non meno del gravato diniego che della sottesa istruttoria) l’accertamento delle effettive possibilità edificatorie dell’area oggetto di controversia sia stata fin dall’inizio tutt’altro che perspicua, non solo con riguardo alla superficie asseritamente asservita, ma soprattutto con riguardo alla superficie residuante dalla realizzazione della locale Pretura (per la quale a tutt’oggi, avuto riguardo alla documentazione in atti, non appare perpicuo come, con la nota del 2006 peraltro giustamente valorizzata in secondo grado, il dirigente comunale abbia potuto attestarne la disponibilità in capo ai ricorrenti, quando risulta di una transazione inter partes finalizzata al ritrasferimento nell’anno 1997: onde l’attestazione andrà verisimilmente acquisita nel senso, peraltro non rilevante ai fini in esame, che solo nel 2006, a diniego già formalizzato ed impugnato, la relativa superficie sarebbe divenuta utilizzabile).

Sta di fatto che l’operato (pur obiettivamente erroneo), del Comune risulta avallato da una sentenza (pur obiettivamente annullata) del Tribunale, a sua fonda fondata su un accertamento tecnico effettuato da un soggetto terzo ed imparziale: la circostanza, si deve convenire, se non cancella l’illegittimità del diniego, appare peraltro, alla luce delle premesse articolate, preclusiva di un giudizio di imputazione per colpa, non potendo riguardarsi quale inescusabile un errore di fatto condiviso ed avallato, sia pure provvisoriamente, da una statuizione giurisdizionale.

A voler diversamente opinare, si finirebbe per risarcire il danno esclusivamente sulla base del mero riscontro della illegittimità del provvedimento lesivo, quale alternativa alla impossibilità della tutela specifica fondata su preclusive sopravvenienze.

8.- Per le esposte ragioni, il ricorso deve essere, in definitiva, respinto.

La complessità della vicenda amministrativa giustifica ampiamente l’integrale compensazione delle spese e competenze di lite tra le parti costituite.

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