Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2018-04-26, n. 201802526

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2018-04-26, n. 201802526
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201802526
Data del deposito : 26 aprile 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 26/04/2018

N. 02526/2018REG.PROV.COLL.

N. 06142/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6142 del 2014, proposto da:
F A, in proprio e quale legale rappresentante della Ditta Apicella di F, A e G &
C S, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato A D L, con domicilio eletto presso lo studio Santina Murano in Roma, via Pelagio I, 10;

contro

Ministero per i beni e le attività Culturali e del Turismo, Soprintendenza per i B.A.P. di Salerno ed Avellino, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentati e difesi per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Comune di Maiori, non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza 23 dicembre 2013 n. 2602 del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sezione Staccata di Salerno, Sezione II.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio:

viste le memorie difensive;

visti tutti gli atti della causa;

relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 aprile 2018 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti l’avvocato A D L e Roberta Guizzi dell'Avvocatura Generale dello Stato.


FATTO e DIRITTO

1.− Il Sindaco del Comune di Maiori, con decreto 14 novembre 2001 n. 545, ha autorizzato, ai sensi dell’art. 151 del d.lgs. n. 490 del 1999 ed ai fini di cui all’art. 31 e ss. della legge 47 del 1985, la realizzazione di quattro manufatti consistenti in strutture in ferro, a servizio della propria attività commerciale sita in località S. Francesco di Maiori.

Il Soprintendente per i Beni Ambientali, Architettonici, Artitici e Storici di Salerno e Avellino ha annullato il suddetto decreto.

2.− Il Sig. F A, con ricorso notificato al Ministero per i beni e le attività Culturali ed al Comune di Maiori, ha impugnato detto provvedimento di annullamento avanti al Tribunale amministrativo regionale per la Campania, che, con sentenza 23 dicembre 2013 n. 2602, ha respinto il ricorso.

3.− Il ricorrente di primo grado ha proposto appello.

4.− La causa è stata decisa in esito all’udienza pubblica del 19 aprile 2018.

5.− L’appello non è fondato.

6.− Con il primo motivo l’appellante assume l’erroneità della sentenza nella parte in cui non ha rilevato che la Soprintendenza avrebbe effettuato un non consentito esame di merito.

Il motivo non è fondato.

In relazione alla disciplina dell’autorizzazione paesaggistica, la legge 29 giugno 1939, n. 1497 (Protezione delle bellezze naturali) prevedeva che i proprietari, possessori o detentori, a qualsiasi titolo, di immobili vincolati, ai sensi delle previsioni contenute nella stessa legge, avrebbero dovuto ottenere una apposita autorizzazione dalle autorità competenti per i lavori che intendessero eseguire. L’art. 16 del regio decreto 3 giugno 1940, n. 1357 (Regolamento per l’applicazione della legge 29 giugno 1939, n. 1497, sulla protezione delle bellezze naturali) disponeva che la predetta autorizzazione « vale per un periodo di cinque anni, trascorso il quale, l’esecuzione dei progettati lavori deve essere sottoposta a nuova autorizzazione ». Il potere di annullamento ministeriale era in origine disciplinato dall’art. 82 d.p.r. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382).

Il decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell’articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352), ha abrogato la legge n. 1497 del 1939, ribadendo, all’art. 151 la necessità, in presenza di immobili vincolati, del rilascio dell’autorizzazione ad effettuare lavori, con potere ministeriale di annullare la predetta autorizzazione.

L’intera materia è oggi regolata dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

In relazione al condono edilizio, la disciplina rilevante è contenuta negli artt. 31 e seguenti della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia. Sanzioni amministrative e penali). In particolare, l’art. 32 della predetta legge dispone che «il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria per opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo», quale è quello in esame, «è subordinato al parere favorevole delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo stesso».

La giurisprudenza di questo Consiglio ha affermato che il predetto parere ha natura e funzioni identiche all’autorizzazione paesaggistica ex art. 7 della legge 29 giugno 1939 n. 1497, per essere entrambi gli atti il presupposto legittimante la trasformazione urbanistico edilizia della zona protetta, sicché resta fermo il potere ministeriale di annullamento del parere favorevole alla sanatoria di un manufatto realizzato in zona vincolata, in quanto strumento affidato dall’ordinamento allo Stato, come estrema difesa del paesaggio, valore costituzionale primario (Cons. Stato, VI, 15 marzo 2007, n. 1255;
tale equiparazione opera anche per le autorizzazioni paesaggistiche disciplinate dagli artt. 151 e 159 del d.lgs. n. 490 del 1999 e per il parere previsto dall’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004).

Chiarito ciò, deve rilevarsi che l’atto di autorizzazione dell’ente locale, espressione dell’esercizio di valutazioni tecniche, deve contenere una adeguata motivazione, indicando i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria (art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990).

Il Consiglio di Stato ha affermato che, nello specifico settore paesaggistico, la motivazione può ritenersi adeguata quando risponde ad un modello che contempli, in modo dettagliato, la descrizione: i ) del manufatto mediante indicazione delle dimensioni, delle forme, dei colori e dei materiali impiegati; ii ) del contesto paesaggistico in cui esso si colloca, anche mediante indicazione di eventuali altri immobili esistenti, della loro posizione e dimensioni;
iii) del rapporto tra manufatto e contesto, anche mediante l’indicazione dell’impatto visivo al fine di stabilire se esso si inserisca in maniera armonica nel paesaggio (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 4 ottobre 2013, n. 4899).

L’amministrazione statale, nella vigenza della disciplina sopra riportata, poteva disporre, in presenza di qualsiasi vizio di legittimità, l’annullamento dell’autorizzazione paesaggistica, con il limite costituito dal divieto di effettuare « un riesame complessivo delle valutazioni compiute dall’ente competente tale da consentire la sovrapposizione o sostituzione di una nuova valutazione di merito a quella compiuta in sede di rilascio dell’autorizzazione » (v. per tutte Cons. Stato, Ad. plen., 14 dicembre 2001, n. 9;
da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, 14 agosto 2012, n. 4562).

Tale limite sussiste, però, soltanto se l’ente che rilascia l’autorizzazione di base abbia adempiuto al suo obbligo di motivare in maniera adeguata in ordine alla compatibilità paesaggistica dell’opera. In caso contrario sussiste un vizio di illegittimità per difetto o insufficienza della motivazione e ben possono gli organi ministeriali annullare il provvedimento adottato per vizio di motivazione e indicare – anche per evidenziare l’eccesso di potere nell’atto esaminato – le ragioni di merito che concludono per la non compatibilità delle opere realizzate con i valori tutelati (tra gli altri, Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2012, n. 173;
Id., 28 dicembre 2011, n. 6885;
Id., 21 settembre 2011, n. 5292).

Nella fattispecie in esame, il Comune, nel provvedimento autorizzatorio si è limitato a rilevare che si tratta « di interventi di lieve entità inerenti a scafallature metalliche a sostegno di materiale edile », aggiungendo « detti profilati siano verniciati in colore verde ».

Da quanto esposto risulta, come correttamente accertato dal primo giudice, che il Comune non ha adeguatamente istruito e motivato la propria autorizzazione alla luce del vincolo e del particolare pregio dell’area in oggetto, nonché della prossimità di luoghi quali la Chiesa di S. Francesco e la grotta dell’Annunziata.

La Soprintendenza, invece, ha descritto n modo puntuale sia le opere realizzate sia il contesto paesaggistico in cui si inseriscono (realizzati nei pressi della chiesa di S. Francesco e della grotta dell’Annunziata), mettendo in rilievo che gli interventi « costituiscono elementi detrattori della qualità ambientale della zona » nonché elementi « di disturbo delle principali vedute di insieme dell’area godibili da più punti di vist a». Tale valutazione, contesto, contrariamente a quanto sostenuto dall’appello e soprattutto in mancanza di elementi certi dedotti in tale senso, non risulta in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica.

In definitiva, la carenza di motivazione dell’atto di autorizzazione comunale rende possibile una rivalutazione anche nel merito da parte della Soprintendenza della compatibilità paesaggistica, che, nella specie, si sottrae alle censure prospettate dall’appellante.

7.− Con un secondo motivo si assume l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui ha rilevato l’illegittimità degli atti impugnati per omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.

Il motivo non è fondato.

L’art. 21-octies, secondo comma, secondo inciso, della legge n. 241 prevede «il provvedimento amministrativo non è comunque annullabile per mancata comunicazione dell’avvio del procedimento qualora l'amministrazione dimostri in giudizio che il contenuto del provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato» (comma 2, secondo inciso).

Questo Consiglio ha già avuto modo di affermare, con orientamento che la Sezione condivide, che il privato deve indicare quali sono gli elementi conoscitivi che avrebbe introdotto nel procedimento ove avesse ricevuto la comunicazione. Solo dopo che la parte ha adempiuto a questo onere l’amministrazione « sarà gravata dal ben più consistente onere di dimostrare che, anche ove quegli elementi fossero stati valutati, il contenuto dispositivo del provvedimento non sarebbe mutato ». La tesi opposta porrebbe a carico dell’amministrazione una probatio diabolica, quale sarebbe quella consistente nel dimostrare che ogni eventuale contributo partecipativo del privato non avrebbe mutato l’esito del procedimento (Cons. Stato, sez. VI, 4 aprile 2015, n. 1060;
Id., VI, 29 luglio 2008, n. 3786;
id., V, 18 aprile 2012, n. 2257).

L’appellante non ha assolto al suddetto onere probatorio. Si tenga conto, inoltre, che la natura dell’accertamento svolto dalla Soprintendenza e il contenuto della statuizione impugnata conduce ad escludere che l'eventuale partecipazione procedimentale avrebbe potuto incidere sul contenuto finale del provvedimento di annullamento adottato.

8.− Con l’ultimo motivo si contesta il richiamo, nell’atto impugnato, dell’art. 145 del d.lgs. n. 490 del 1990 senza però alcuna motivazione.

Il motivo non è fondato, in quanto il richiamo suddetto non ha avuto alcuna rilevanza precettiva ai fini dell’adozione della determinazione concretamente assunta.

9.− La particolare natura della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.

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