Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2021-02-18, n. 202101468
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Pubblicato il 18/02/2021
N. 01468/2021REG.PROV.COLL.
N. 01732/2014 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 1732 del 2014, proposto da
R C, rappresentata e difesa dall'avvocato M G, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Paolo Emilio n. 57;
contro
Comune di Ardea non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Prima Quater) n. 10713/2012, resa tra le parti;
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore il Cons. Francesco De Luca nell'udienza pubblica del giorno 26 novembre 2020 svoltasi ai sensi dell’art. 4, comma 1, Decreto Legge n. 28 del 30 aprile 2020 e dell'art. 25 Decreto Legge n. 137 del 28 ottobre 2020 attraverso l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams”;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio la Sig.ra Contarino appella la sentenza n. 10713 del 2012 con cui il T Lazio, Roma ha rigettato i ricorsi iscritti in primo grado al n.r.g. 550/08 e al n.r.g. 3719/08, aventi ad oggetto l’annullamento dell’ordinanza del Comune di Ardea n. 378 del 5.10.2007 di sospensione dei lavori realizzati in Ardea, loc. Lottizzazione Puccini, Via dei Casali di S. Lorenzo n. 12Bis, nonché di demolizione e ripristino dello stato precedente dei luoghi, con acquisizione dei beni e delle aree al patrimonio comunale in caso di inottemperanza.
In particolare, secondo quanto dedotto dall’odierna appellante, l’ordinanza comunale avrebbe dovuto ritenersi illegittima, in quanto:
- era stata assunta senza tenere conto della domanda di condono presentata in data 18.8.2004 al Comune di Ardea e comunque risultava formulata genericamente, non permettendo di accertare la parte del bene da demolire;
- recava un’erronea indicazione dei dati catastali, operando un riferimento alla particella n. 42236 anziché a quella corretta avente numero 4223;
- aveva individuato una superficie eccessiva (fino a 2130 mq) da acquisire in caso di inottemperanza in violazione di legge ed eccesso di potere;
- assumeva erroneamente che i beni si trovassero in una zona gravata da usi civici, quando, invece, i beni sarebbero stati oggetto di una procedura di liquidazione.
2. Con la sentenza gravata il T Lazio ha parzialmente accolto il ricorso di prime cure, annullando il provvedimento comunale nella sola parte in cui si riferiva ad una superficie (pari a mq 56,00) oggetto dell’istanza di condono presentata il 18.8.2004.
In particolare, secondo quanto statuito dal T:
- il dante causa dell’odierna ricorrente aveva presentato in data 18/08/04 al Comune di Ardea un’istanza di condono edilizio avente ad oggetto la complessiva superficie di mq. 56 (di cui 40,0 mq. ad uso residenziale), come ivi specificamente indicato;da quanto emergeva dal verbale di sequestro del 27/07/07, dalla nota del Comune di Ardea prot. n. 26895/2008 del 09/06/08 e dallo stesso provvedimento impugnato la superficie oggetto di condono risultava congruamente individuabile rispetto alla porzione di manufatto abusivamente ampliata;ragion per cui doveva ritenersi infondata la prospettata genericità dalla gravata ordinanza demolitoria;
- l’ordinanza di demolizione, tuttavia, doveva ritenersi illegittima nella parte in cui concerneva la superficie oggetto della domanda di condono, essendo principio consolidato della giurisprudenza quello secondo cui, in base al disposto dell’art. 38 l. n. 47/85 (applicabile anche al condono previsto dal d. l. n. 326/03 in virtù del richiamo operato dall’art. 32 del predetto testo normativo), l’amministrazione deve astenersi, in ragione dei principi di buon andamento ed imparzialità dell’azione amministrativa, dal sanzionare gli abusi oggetto di domanda di condono prima di essersi pronunciata con provvedimento espresso in ordine al procedimento scaturito dalla domanda di sanatoria stressa;
- l’atto impugnato doveva, dunque, essere annullato nella sola parte in cui ordinava la demolizione della superficie di 56,00 mq. oggetto della domanda di condono presentata il 18/08/04, ferma restando la legittimità della prescrizione demolitoria per le ulteriori opere contestate (ampliamento di 84,00 mq., manufatto di 3,00 mq. e piano di calpestio di mq. 70,00);
- non sussisteva alcuna erronea indicazione dei dati catastali (nel provvedimento veniva indicata la particella n. 42236 invece di quella, corretta, avente numero 4223), essendosi in presenza di un mero errore materiale ininfluente ai fini dell’individuazione delle opere (tanto che la ricorrente era stata agevolmente in grado di svolgere le sue censure) e dei luoghi e, come tale, irrilevante ai fini della valutazione della legittimità dell’atto impugnato;
- non sussisteva alcuna violazione di legge ed eccesso di potere circa l’eccessività della superficie (fino a 2130 mq.) indicata nell’atto impugnato come oggetto di possibile acquisizione, tenuto conto che la stessa ricorrente prospettava che l’area di sedime e la particella di sua proprietà avevano superficie complessiva pari a 500 mq. e, quindi, notevolmente inferiore a quella legittimamente acquisibile e determinabile in misura pari al decuplo (e cioè 1570 mq.) dell’abuso, quest’ultimo pari a 157 mq. (risultante dalla somma di mq. 84 per l’ampliamento, 3 mq. per il manufatto e mq. 70 per il piano di calpestio);
- la localizzazione dei beni in zona gravata da uso civico oggetto di procedura di liquidazione risultava ininfluente ai fini della valutazione della legittimità della sanzione demolitoria, da ritenersi congruamente motivata in riferimento all’incontestata carenza di titolo edilizio per le opere sopra indicate e non coperte dall’istanza di condono.
- doveva essere dichiarata l’irricevibilità del ricorso per motivi aggiunti, presentato nel giudizio n. 550/08 R.G., e del ricorso n. 3719/08 R.G. in quanto i relativi atti introduttivi (spediti per la notifica a mezzo posta rispettivamente in date 31/10/08 e 28/03/08) avevano ad oggetto il provvedimento già gravato con il ricorso principale presentato nel proc. n. 550/08 R.G. e conosciuto dall’interessata in data 30/10/07, come dalla stessa espressamente ivi dedotto e, pertanto, risultavano proposti in violazione del termine decadenziale d’impugnazione.
3. La ricorrente in primo grado ha appellato la sentenza pronunciata dal T, censurandone l’erroneità con l’articolazione di tre motivi di impugnazione.
4. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 26 novembre 2020.
DIRITTO
1. Con il primo motivo di appello viene censurata l’erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui non ha ravvisato l’afferenza dei provvedimenti comunali per cui è causa ad un manufatto per il quale risultava presentata regolare domanda di concessione edilizia in sanatoria, come tale non suscettibile di demolizione.
In particolare, secondo la prospettazione dell’appellante, la propria dante causa aveva edificato un immobile composto di 3 vani catastali di circa mq 59 con corte di pertinenza esclusiva, censita al N.C.E.U. al foglio 55, particella 4223 già 398 ex 2456, categoria A/7, classe 1;trattandosi di immobile edificato in assenza di concessione edilizia, risultava presentata al Comune di Ardea domanda di concessione edilizia in sanatoria n. 1009 del 18.8.2004, con pagamento dei relativi importi a titolo di oblazione e di oneri concessori. Il procedimento di condono risultava ancora pendente.
Il T avrebbe errato nel limitare la dichiarazione di illegittimità alla sola parte concernente la superficie oggetto della domanda di condono, non congruamente individuata rispetto alla porzione di manufatto abusivamente ampliata. L’esecuzione dell’ordine di demolizione comporterebbe, inoltre, una variazione tale da potere incidere anche sulla situazione preesistente, potendo comportare anche l’eliminazione di un manufatto legittimamente in essere.
Peraltro, non sussisterebbe alcun interesse della collettività all’esecuzione del provvedimento di demolizione e di acquisizione, tenuto conto che la consistenza volumetrica dell’abitazione sarebbe esigua e destinata ad abitazione della ricorrente e comunque si farebbe questione di immobile insistente in zona completamente edificata ed urbanizzata.
Il motivo di appello è infondato.
In primo luogo, si rileva che l’asserita impossibilità di distinguere, nell’ambito di un manufatto oggetto di procedimenti di condono non ancora definito, le opere per cui è stata presentata domanda di condono e le opere in ampliamento sine titulo eseguite, diversamente da quanto dedotto dall’appellante, non impedirebbe l’applicazione della sanzione demolitoria, bensì potrebbe anche giustificare la demolizione dell’intero immobile.
Come precisato da questo Consiglio, “in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori (sia pure riconducibili, nella loro oggettività, alle categorie della manutenzione straordinaria del restauro e/o del risanamento conservativo, della ristrutturazione, della realizzazione di opere costituenti pertinenze urbanistiche), ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale alla quale ineriscono strutturalmente, sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, con conseguente obbligo del Comune di ordinarne la demolizione. Ciò non significa negare in assoluto la possibilità di intervenire su immobili rispetto ai quali pende istanza di condono, ma solo affermare che, a pena di assoggettamento alla medesima sanzione prevista per l'immobile abusivo cui ineriscono, ciò deve avvenire nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell'art. 35, l. n. 47 del 1985, ancora applicabile per effetto dei rinvii operati dalla successiva legislazione condonistica” (Consiglio di Stato, sez. II, 5 dicembre 2019, n. 8314);procedure di legge di cui all’art. 35 L. n. 47 del 1985 che nel caso di specie non risultano essere state rispettate.
Ove non fosse possibile distinguere le opere in ampliamento da quelle oggetto della domanda di condono, emergerebbe, dunque, una nuova costruzione suscettibile di considerazione unitaria, diversa da quella per cui risultava chiesta la sanatoria.
Per l’effetto, l’intera costruzione sarebbe suscettibile di demolizione, in quanto, da un lato, non assentita da alcun titolo edilizio, dall’altro, non riconducibile, all’esito dell’intervento edilizio eseguito, alla domanda di condono, come tale non potendo beneficiare della sospensione dei procedimenti sanzionatori in attesa della definizione del presupposto procedimento di condono, non riferibile più ad opere esattamente individuabili.
Nel caso si specie, tuttavia, alla stregua di un esame coordinato della documentazione in atti, è possibile distinguere le opere oggetto del procedimento di sanatoria da quelle edificate in ampliamento.
Secondo quanto rilevato dallo stesso appellante, il proprio dante causa ha presentato una domanda di sanatoria limitatamente ad un manufatto di mq 59.
L’immobile oggetto di sanatoria risulta descritto:
- nella nota n 655/04 del 17.8.2004 del Corpo Polizia Municipale del Comune di Ardea acquisita in prime cure, recante un accertamento amministrativo in ordine all’edificazione, in assenza di permesso di costruire e/o di autorizzazione edilizia comunale, di un manufatto situato al piano terra di mq 54 circa, attaccato al muro di cinta, con realizzazione, a ridosso dello stesso, di un ulteriore manufatto in muratura di mq 2,16 circa coperto con solaio e cemento armato;
- nella domanda di condono del 18.8.2004 presentata dal dante causa dell’odierno appellante con annesse dichiarazioni e fotografie;in specie, dalla dichiarazione stato dei lavori del tecnico incaricato dalla proprietaria emerge la descrizione di una struttura con copertura di circa 8,00 x 5,50 metri con superficie lorda di mq 44,00, oltre a due locali ripostiglio di mq 1,50 e mq 8,00;
- nell’atto di compravendita del 6.3.2007, con cui l’odierna appellante ha acquistato un villino, al piano terra composto da tre vani catastali di circa mq 59, con corte di pertinenza esclusiva, censita al NCEU al foglio 55, particella 4223 già 3098 ex 2456, per la quale risultava presentata domanda di concessione edilizia in sanatoria in data 18.8.2004.
Anche l’ordinanza di demolizione impugnata in prime cure, nel richiamare la comunicazione n. 630/07 del 30.8.2007 del Corpo di Polizia Municipale e, dunque, nel riferirsi ad un manufatto in muratura composto da un piano terra di mq 140 circa, distingue una porzione di immobile di circa 54 mq con altezza variabile da 2,50 a 2,90 mt e una porzione di immobile di 86 mq circa con altezza di 2,90 metri;sanzionando, altresì, l’edificazione di un ulteriore manufatto di mq 3,00, alto 2,16 mt, e di un piano di calpestio in battuto di cemento alto cm 15 circa con superficie di mq 70 circa.
La documentazione in atti, complessivamente vagliata, consente, quindi, di identificare il manufatto per cui è stato chiesto il rilascio della concessione in sanatoria;l’ordine di demolizione (oltre che il verbale di sequestro n. 152/07S del 27.7.2007 del Corpo di Polizia Municipale), nel descrivere l’attuale consistenza del manufatto, permette di individuare, per differenza, rispetto alla descrizione dell’originario manufatto oggetto di richiesta di sanatoria (come emergente dalla nota n, 655/04 cit., dalla domanda di condono e dalle dichiarazioni e rappresentazioni grafiche allegate, oltre che dall’atto di compravendita) le opere di ampliamento sine titulo all’uopo realizzate.
Come correttamente ritenuto dal T, dunque, ravvisata la sufficiente descrizione dell’abuso edilizio, tali ulteriori opere non possono ritenersi assistite da alcun titolo, né per le stesse potrebbe operare l’effetto preclusivo della demolizione prodotto dalla pendenza del procedimento di condono.
Come osservato, “in presenza di manufatti abusivi non sanati né condonati, gli interventi ulteriori ripetono le caratteristiche di illegittimità dell'opera principale" (Consiglio di Stato, sez. VI, 23 luglio 2018, n. 4473) sicché non può ammettersi la prosecuzione dei lavori abusivi a completamento di opere che, fino al momento di eventuali sanatorie, devono ritenersi comunque abusive, salvo che ciò avvenga nel rispetto delle procedure di legge, ovvero segnatamente dell’art. 35, comma 13, della legge n. 47 del 1985;il che non risulta attestato nella specie.
Posto che le opere accedenti ad immobile abusivo partecipano delle stesse caratteristiche di illegittimità dell’opera principale, le opere in ampliamento per cui è causa, accedendo ad immobile oggetto di istanza di condono non definita, devono ritenersi abusive e, come tali, soggette alla sanzione demolitoria.
Il rigetto del primo motivo di appello non potrebbe essere evitato neanche facendo riferimento all’esigua consistenza delle opere o alle caratteristiche della zona in esame, completamente urbanizzata ed edificata.
Difatti, in primo luogo le opere in ampliamento sono connotate da una superficie maggiore rispetto a quelle del manufatto oggetto di domanda di condono;il che esclude l’esiguità dell’illecito edilizio all’uopo commesso.
In secondo luogo, come previsto dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 9 del 2017), l’ordine di demolizione è un atto vincolato ancorato esclusivamente alla sussistenza di opere abusive e non richiede una specifica motivazione circa la ricorrenza del concreto interesse pubblico alla rimozione dell’abuso.
Pertanto, verificata la sussistenza dei manufatti abusivi, l’Amministrazione ha il dovere di disporne la demolizione, essendo la relativa ponderazione tra l’interesse pubblico e quello privato compiuta a monte dal legislatore;con conseguente irrilevanza delle dimensioni asseritamene esigue dell’abuso o della sua localizzazione in una zona urbanizzata ed edificata.
Rilevato che nella specie si faceva questione di un ampliamento sine titulo di un manufatto preesistente oggetto di un procedimento di condono non ancora definito, considerato che le opere in ampliamento sono idonee a determinare un aumento di superficie e di volume urbanisticamente rilevanti, con conseguente emersione di un intervento di nuova costruzione necessitante del previo rilascio del permesso di costruire, una volta ravvisata la mancata del prescritto titolo edilizio, le opere abusive così emergenti dovevano essere soggette alla relativa sanzione demolitoria;come correttamente disposto dal Comune con i provvedimenti impugnati in prime cure.
Né potrebbe diversamente ritenersi in ragione di un asserito pregiudizio alle opere oggetto di domanda di sanatoria, suscettibile di derivare dalla demolizione delle opere in ampliamento.
L'art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001, nel disciplinare gli interventi e le opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire, prevede, al secondo comma, che "quando la demolizione non può avvenire senza pregiudizio della parte eseguita in conformità, il dirigente o il responsabile dell'ufficio applica una sanzione pari al doppio del costo di produzione".
In particolare, la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria deve essere valutata dall'amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione. In quella sede, le parti ben possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato asseritamente derivante dall'esecuzione della demolizione delle opere di ampliamento per cui è causa (Consiglio di Stato sez. VI, 9 luglio 2018, n. 4169).
In definitiva, la questione posta con il relativo motivo non può venire in rilievo per accertare la validità dell'ordine di demolizione, dovendo reputarsi rimessa alla fase esecutiva.
2. Con il secondo motivo di appello la sentenza di prime cure è censurata nella parte in cui non ha ravvisato l’eccessività della superficie da acquisire al patrimonio comunale in caso di inottemperanza all’ordine di demolizione.
In particolare, non sarebbe stata specificata la particella da acquisire (la 42236 o la 4223) e comunque la particella in esame si comporrebbe del manufatto e dell’area adibita a giardino di circa 500 mq;il provvedimento comunale invece prevede l’acquisizione dell’area di sedime dei manufatti abusivi e dell’area di mq 2130 ad essi circostanti;il che sarebbe impossibile, tenuto conto che l’area di sedime sarebbe pari a circa 120 mq che, sommata all’area circostante oggetto del provvedimento di acquisizione, porterebbe ad una superficie di mq 600, notevolmente inferiore a quella indicata nel provvedimento impugnato.
Il motivo di appello è infondato.
L’ordine di demolizione non specifica l’area da acquisire al patrimonio comunale in caso di mancato ripristino dello stato dei luoghi anteriormente alla commissione dell’abuso edilizio entro il termine all’uopo concesso, limitandosi ad individuare il limite massimo di operatività del relativo effetto acquisitivo.
Significativamente, il Comune ha avvisato che, trascorso il termine assegnato per la demolizione, il bene, l’area e la relativa superficie fondiaria comprensiva dell’area di sedime del fabbricato, “fino alla concorrenza di complessivi mq 2130 circa …, previo accertamento dell’inottemperanza … saranno acquisite di diritto gratuitamente al patrimonio disponibile del Comune”.
Pertanto, la stessa Amministrazione individuava in 2130 mq il limite di operatività dell’effetto acquisitivo, ravvisando, comunque, la necessità di un successivo atto di accertamento dell’inottemperanza;ragion per cui eventuali contestazioni in ordine all’esatta perimetrazione di tale area non possono influire sulla legittimità dell’ordine di demolizione, bensì devono riguardare il distinto atto di acquisizione al patrimonio comunale.
L’art. 31 del decreto legislativo n. 381 del 2001 prevede, infatti, che:
- il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l’esecuzione di taluno degli interventi sopra indicati, «ingiunge al proprietario e al responsabile dell’abuso» la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l’area che viene acquisita di diritto, ai sensi del successivo comma 3 (comma 2);
- se il «responsabile dell’abuso» non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi «nel termine di novanta giorni dall’ingiunzione», il bene e l’area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del Comune;si specifica che l’area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita (comma 3);
- l’accertamento dell’inottemperanza alla ingiunzione a demolire, nel termine di cui al precedente comma 3, «previa notifica all’interessato», costituisce titolo per l’immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente (comma 4);
-«l’opera acquisita è demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell’abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l’esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l’opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell’assetto idrogeologico» (comma 5).
Ne discende che l’eventuale non precisa indicazione nell’ordinanza di demolizione della esatta estensione dell’area da acquisire in caso di inottemperanza non costituisce causa di invalidità di tale ordinanza. Il provvedimento di acquisizione ha, infatti, una sua autonomia ed è adottato successivamente all’inottemperanza spontanea all’ordine di demolizione. Soltanto se tale provvedimento presenta deficienze in ordine all’esatta individuazione dell’area, esso deve ritenersi illegittimo.
In subiecta materia deve, dunque, applicarsi il principio giurisprudenziale per cui “l'omessa o imprecisa indicazione dell'area che verrà acquisita di diritto al patrimonio pubblico non costituisce motivo di illegittimità dell'ordinanza di demolizione... mentre con il contenuto dispositivo di quest'ultima si commina, appunto, la sanzione della demolizione del manufatto abusivo, l'indicazione dell'area costituisce presupposto accertativo ai fini dell'acquisizione, che costituisce distinta misura sanzionatoria" (Cons. St. Sezione IV n. 5593 del 25 novembre 2013)” (Consiglio di Stato, sez. VI, 17 agosto 2020, n. 5057).
Nella specie, inoltre, non potrebbe neppure contestarsi l’erronea indicazione del numero connotante la particella concernente le opere per cui è controversia, tenuto conto che il riferimento alla particella 42236, in luogo di quella corretta n. 4223, è il risultato di un mero errore errore materiale di natura non invalidante, frutto di una svista determinante una discrasia tra manifestazione della volontà esternata nell'atto e volontà sostanziale dell'autorità emanante, obiettivamente rilevabile dall'atto medesimo e riconoscibile come errore palese secondo un criterio di normalità, senza necessità di ricorrere ad un particolare sforzo valutativo e/o interpretativo.
Il che è dimostrato:
- dal riferimento numerico alla particella, risultando il numero riportato nell’ordine di demolizione identico per quattro cifre, anche nella loro sequenza, a quello corretto, presentando una cifra aggiuntiva, per mera svista, in maniera tale da non generare comunque confusione con diverse aree;
- dal riferimento, operato dall’ordine di demolizione, anche alla precedente classificazione della particella in esame, identificata come “già 3098 ex 2456”, tale da non consentire alcun dubbio sull’esatta individuazione dell’area territoriale, tenuto conto che anche nell’ambito dell’atto di compravendita la particella interessata dall’alienazione era riportata anche come particella “già 3098 ex 2456”;
- dalla stessa condotta processuale dell’appellante, che ha esattamente percepito quale sia l’area suscettibile di acquisizione al patrimonio comunale, avendo rilevato che “nel provvedimento viene indicata la particella n. 42236 invece di quella corretta avente numero 4223” (pag. 3), in tale modo dimostrando di non nutrire alcuna incertezza sull’individuazione dell’area per cui è causa.
3. Con il terzo motivo di appello è censurata l’erroneità della sentenza di prime cure nella parte in cui non ha rilevato che l’area in cui ricade l’abuso non sarebbe gravata da uso civico, quando, invece, alla stregua di quanto emergente dall’atto di compravendita in relazione al bene compravenduto, sarebbe stato pagato il corrispettivo di liquidazione, con conseguente esecutività della determina di affrancazione.
Il motivo di appello è infondato.
Il T ha correttamente applicato il principio di diritto per cui, a fronte di un atto plurimotivato, è sufficiente riscontrare la legittimità di una delle autonome ragioni giustificatrici della decisione amministrativa, per condurre al rigetto dell’intero ricorso, tenuto conto che, anche in caso di fondatezza degli ulteriori motivi di doglianza riferiti alle distinte rationes decidendi poste a fondamento del provvedimento amministrativo, questo non potrebbe comunque essere annullato in quanto sorretto da un’autonoma ragione giustificatrice confermata in sede giurisdizionale.
Questo Consiglio, in particolare, ha precisato che “in presenza di un atto c.d. plurimotivato è sufficiente la legittimità di una sola delle giustificazioni per sorreggere l’atto in sede giurisdizionale;in sostanza, in caso di atto amministrativo, fondato su una pluralità di ragioni indipendenti ed autonome le una dalla altre, il rigetto delle censure proposte contro una di tali ragioni rende superfluo l’esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento (Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 2017, n. 2910;sez. V, 12 settembre 2017, n. 4297;sez. V, 21 agosto 2017, n. 4045)” (Cons. Stato, IV, 30 marzo 2018, n. 2019)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 17 settembre 2019, n. 6190).
Pertanto, una volta riscontrata l’esistenza di opere in ampliamento non sorrette da alcun titolo edilizio, per l’effetto, ritenuta legittima tale autonoma ratio decidendi, non occorreva esaminare le censure riferite alla seconda ratio decidendi - relativa alla sussistenza di usi civici in relazione all’area in cui risultava realizzato l’intervento edilizio in contestazione -, la cui ipotetica fondatezza non avrebbe potuto comunque arrecare alcuna utilità concreta in capo al ricorrente, essendo inidonea a determinare l’annullamento del provvedimento impugnato in prime cure, comunque da confermare nel suo contenuto dispositivo perché sorretto da un’autonoma ragione giustificatrice immune dai vizi censurati in giudizio.
5. L’appello, alla stregua delle considerazioni svolte, deve essere rigettato.
La mancata costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata esime il Collegio dalla regolazione delle spese processuali in conseguenza del rigetto dell’impugnazione.