Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-04-05, n. 202202534

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-04-05, n. 202202534
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202202534
Data del deposito : 5 aprile 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 05/04/2022

N. 02534/2022REG.PROV.COLL.

N. 09103/2017 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9103 del 2017, proposto da
M M, C D G e R D, rappresentati e difesi dagli avvocati P L e L S, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;

contro

Ente Strumentale alla Croce Rossa Italiana, Cri - Croce Rossa Italiana, in persona dei legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio fisico in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Terza, n. 5037/2017, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ente Strumentale alla Croce Rossa Italiana e di Cri - Croce Rossa Italiana;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2022 il Cons. Fabrizio D'Alessandri e uditi per le parti gli avvocati Luisa Taldone, in sostituzione degli avvocati P L e L S, e l’avvocato dello Stato Vittorio Cesaroni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Gli appellanti impugnano la sentenza n. 5037 del 28 aprile 2017, emessa dalla Sezione Terza del Tar Lazio Roma.

Essi, in qualità di ufficiali già appartenenti al Corpo Militare della Croce Rossa Italiana, avevano chiesto al Tar Lazio l’annullamento dei provvedimenti individuali notificati nel maggio 2016, con i quali l’amministrazione aveva richiesto loro la restituzione di somme erogate nell’anno 2003 a seguito della stipulazione di atti di transazione che impegnavano i dipendenti e l’ente, le cui determine a contrattare venivano annullate dallo stesso ente in autotutela nell’anno 2008;
unitamente erano impugnati gli atti prodromici e, in particolare, l’ordinanza commissariale n. 336/08 con la quale l’ente, a seguito delle risultanze di una visita ispettiva amministrativo-contabile disposta del Ministero dell’Economia e delle Finanze mediante i Servizi ispettivi di finanza pubblica, aveva annullato le OO.CC. n.1382, n.1383, n.1384 del 2003, recanti corresponsione adeguamenti stipendiali, previa sottoscrizione di appositi atti di transazione.

Le ordinanze commissariali annullate erano state emanate a seguito della precedente ordinanza commissariale 17 marzo 2003 n. 470, con la quale il Vice Commissario della CRI decideva “di dare esecuzione, in via straordinaria, alla promozione del personale di assistenza in servizio continuativo giudicato idoneo al grado superiore e non promosso relative al Q.A. 1994 – 1995”.

Gli interessati avevano contestualmente richiesto anche la condanna della Croce Rossa Italiana alla restituzione delle somme indebitamente recuperate in forza dei provvedimenti impugnati.

L’annullamento dell’ordinanza 30 giugno 2008 n. 336 era, peraltro, già stato chiesto con separato giudizio dinanzi al T.A.R. Lazio (R.G. n. 4573/2016), che lo aveva rigettato con la sentenza 30 novembre 2015 n. 13484, appellata al Consiglio di Stato (R.G. n. 4573/2016) con ricorso ancora pendente al momento della proposizione del presente appello.

L’adito T.A.R. con la sentenza impugnata ha rigettato il ricorso e gli appellanti hanno gravato la sentenza formulando le seguenti rubricate censure:

I. Error in iudicando . Violazione e falsa applicazione degli artt. 1965 ss. e 2113 cod. civ. sussistenza della res dubia . impossibilità di travolgere atti di autonomia privata. violazione del principio di diritto “ pacta sunt servanda ”.

Sono stati censurati i capi “IX” e “X” della citata sentenza, che così recitano:

IX. – E’ infondato anche il secondo mezzo, in quanto in disparte il fatto che le note impugnate non assumono i caratteri del provvedimento (cfr. Cons. Stato, III, n.2902 del 2014) e che trattasi di recupero necessitato (cfr. di nuovo Cons. Stato, IV, n.5010 del 2015), giova in ogni caso rilevare che le stesse sono state precedute dalla predetta O.P. n. 336 del 2008 e dalle cennate lettere di messa in mora del luglio 2007.

X. – Neppure il terzo, il quarto ed il sesto motivo possono essere accolti.

Ed invero, l’ordinanza presidenziale n.336 del 2008 - con la quale venivano annullate le OO.CC. n.1382, n.1383, n.1384 del 2003 di autorizzazione alle transazioni - risulta pienamente efficace e anzi i relativi gravami decisi sono stati respinti (cfr. in ultimo TAR Lazio, III quater, n.13484 del 2015 e Cons. Stato, II, par. n.2301 del 2016).

La attuale validità ed efficacia della citata ordinanza n. 336 del 2008, atto autoritativo di annullamento delle OO.CC. n.1382, n.1383, n.1384 del 2003 che autorizzavano le transazioni medesime (cfr. ancora sul punto TAR Lazio, III quater, n.13484 del 2015, Cons. Stato, II, par. n.2301 del 2016 e ancora TAR Toscana, I, nn. 1614, 1615, 1616, 1617, 1618 del 2015), priva di fondatezza la censura di carenza di potere di intervenire unilateralmente sulle transazioni stesse.

Risultano condivisibili le argomentazioni contenute nel parere del Consiglio di Stato, sez. II, n. 2301/2016 nonché nelle sentenze del TAR Toscana, sez. I, nn. 1614, 1615, 1616, 1617, 1618 del 1° dicembre 2015.

Nelle predette pronunce, sono state respinte le censure rivolte contro l’ordinanza presidenziale n. 336/2008 ed è stato chiarito che tali transazioni erano da considerare invalide (recte: nulle) in quanto concluse in violazione degli artt. 1965 e 1966 c.c. (per assenza di “res dubia” e perché avente ad oggetto diritti indisponibili in ragione di quanto previsto dall’art. 2113, comma primo, c.c. secondo cui “Le rinunzie e le transazioni che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'articolo 409 del codice di procedura civile, non sono valide”) e, pertanto, il vizio genetico di cui erano affetti consentiva all’autorità che ha adottato l’OP n. 336/2008 di limitarsi a prendere atto di tale circostanza (TAR Lazio, sez. III, n. 4267 del 6 aprile 2017)”.

Gli appellanti hanno dedotto in sintesi che l’annullamento in autotutela (effettuato con la O.C. 336/08) delle delibere a contrarre (OO.CC. 1382, 1383 e 1384 del 2003) non legittimerebbe la ripetizione delle somme erogate in forza degli atti di transazione stipulati dal Commissario Straordinario della Croce Rossa Italiana in forza delle stesse citate delibere a contrarre, in quanto la revoca o l’annullamento in autotutela della delibera a contrarre non comportano il venir meno degli effetti del contratto.

Laddove l’amministrazione agisca secondo modelli consensuali, propri del diritto civile, rinunciando ad agire di imperio, assoggetta la sorte del contratto stipulato a quelle stesse norme che disciplinano l’attività negoziale tra privati;
dalla stipula dei singoli contratti individuali di transazione è sorto un diritto soggettivo in capo ai privati contraenti, individuabile nel diritto a ricevere le somme indicate nel contratto di transazione, in cambio della rinuncia alla lite giudiziaria intrapresa (ovvero, in cambio della rinuncia a proporre azione giudiziaria per tale pretesa): diritto di credito soddisfatto dal pagamento avvenuto nello stesso anno 2003, in due tranches , da parte di Croce Rossa, a seguito della rinuncia dei dipendenti ai giudizi proposti.

Pertanto l’ente non avrebbe potuto far venir meno gli effetti dei contratti di transazione, stipulati su un piano paritario e secondo le norme del codice civile con i propri dipendenti, facendo ricorso alla potestà di annullamento in autotutela della delibera a contrarre;
a conforto della loro tesi gli appellanti citano le pronunce n. 5277/17 e n. 5278/17 della Sesta Sezione del Consiglio di Stato.

II – Error in iudicando . falsa applicazione dell’art. 2946 cod. civ. omesso riconoscimento della prescrizione del diritto al recupero.

Gli appellanti criticano il capo VIII della sentenza impugnata, secondo cui “ Il diritto al recupero dell’indebito non può considerarsi estinto per prescrizione, sicchè va respinto il primo motivo. Come recentemente affermato dalla Sezione (sentenza n. 4488 del 12 aprile 2017), infatti, in caso di ripetizione di somme indebitamente percepite, valgono gli ordinari termini decennali di prescrizione, ex art.2946 c.c. (cfr. Cons. Stato, IV, n. 5010 del 2015 oltre alla giurisprudenza ivi citata) e che pertanto, posto che i ricorrenti sono stati raggiunti dai rispettivi atti di messa in mora del luglio 2007, e che le somme erano state da essi percepite, rispettivamente, ad agosto 2003 (Dionisi e Di Gangi) ed a novembre 2003 (Martorelli), la fattispecie estintiva non è maturata”.

A loro avviso le comunicazioni del 7 luglio 2008, che l’Ente Strumentale alla Croce Rossa Italiana asserisce di aver loro spedito, non avrebbero avuto alcun valore interruttivo della prescrizione, in quanto sarebbero state prive dei caratteri della diffida ad adempiere, essendo meri inviti a pagare e

le diverse conclusioni del tribunale, il quale ha qualificato le note prodotte dall’amministrazione come “atti di messa in mora”, facendone conseguire gli effetti previsti dall’art. 2943 cod. civ. in punto di interruzione della prescrizione, sarebbero da respingere.

Gli appellanti ribadiscono che si sarebbe trattato di un meri inviti di pagamento, nei quali non era stato assegnato un termine di adempimento e non era stata prospettata alcuna intenzione di far altrimenti valere il proprio diritto nelle competenti sedi e, pertanto, non sarebbero stati idonei a manifestare l'inequivocabile volontà del titolare del credito di azionare la sua pretesa in caso di mancata ottemperanza nel termine assegnato.

Si è costituita in giudizio l’ente intimato resistendo all’appello.

Nelle more del giudizio è stata pubblicata la sentenza del Consiglio di Stato, Sez. IV, 3/1/2018, n. 27, che ha confermato la sentenza del T.A.R. Lazio Roma, Sez. III quater , n. 13484/2015, di rigetto del ricorso per l’annullamento dell’ordinanza 30 giugno 2008 n. 336.

La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica dell’8.2.2022.

DIRITTO

1) 1) In via preliminare il Collegio evidenzia come in sede di udienza pubblica dell’8.2.2022, l’avvocato di parte appellante abbia indicato la necessità di disporre una cosiddetta “sospensione impropria” del giudizio, alla luce dell’intervenuta rimessione alla Corte Costituzionale, con ordinanza della Corte di Cassazione 14.12.2021, n. 40004, della questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 2033 cod. civ..

In particolare, la questione sollevata dall’ordinanza indicata riguarda la legittimità dell'art. 2033 c.c., per contrarietà agli artt. 11 e 117 Cost., in rapporto all'art. 1 del Protocollo 1, addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), nella parte in cui, in caso di indebito retributivo erogato da un ente pubblico e di legittimo affidamento del dipendente pubblico percipiente nella definitività dell'attribuzione, consente un'ingerenza non proporzionata nel diritto dell'individuo al rispetto dei suoi beni.

La richiesta di sospensione deve essere respinta, non ravvisandosi l’incidenza della questione rimessa al Giudice delle leggi con la fattispecie oggetto del presente giudizio per due ordini di ragioni, una processuale e l’altra sostanziale:

a) la ragione processuale è legata ai motivi di appello che riguardano l’intangibilità in sede di autotutela dell’atto di transazione e l’intervenuta prescrizione del diritto, senza che sia stata sollevata in sede di appello alcuna censura inerente all’ingenerato legittimo affidamento e all’ingerenza non proporzionata, ovverosia agli indicati aspetti di possibile incostituzionalità, con conseguente irrilevanza di un’eventuale pronuncia di illegittimità costituzionale ai fini della decisione dell’appello;

b) la ragione sostanziale è collegata alla diversità della concreta fattispecie che ha portato alla rimessione alla Consulta da quella oggetto del presente giudizio e la conseguente insussistenza, nel caso in esame, di alcuna contrarietà con i principi previsti dall'art. 1 del Protocollo 1, addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), come interpretato dalla Corte EDU, riguardanti i sollevati profili del legittimo affidamento e non proporzionalità dell’ingerenza nel diritto dell'individuo al rispetto dei suoi beni.

In effetti la Corte di Cassazione, Sez. lavoro, con la citata ordinanza 14-12-2021, n. 40004, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2033 c.c., per violazione degli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all'art. 1 del Protocollo 1 alla CEDU, con riguardo alla rilevanza impeditiva sull'azione di ripetizione dell'indebito, ex art. 2033 c.c., dell'affidamento del lavoratore che in buona fede abbia ricevuto dal datore di lavoro pubblico retribuzioni non dovute.

La rimessione alla Corte Costituzionale è stata argomentata sulla base del portato della giurisprudenza della Corte EDU e,in particolare della sentenza 11 febbraio 2021, sul ricorso n. 4893/13, C. c. ITALIA, che ha ritenuto violato l'art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione, in relazione a un caso in cui una dipendente INPS, transitata dal Ministero dell'Istruzione per mobilità volontaria, era stata condannata ai sensi dell’art. 2033 c.c. a restituire al datore di lavoro le retribuzioni indebite percepite nel periodo settembre 1998/febbraio 2004 a titolo di assegno ad personam (e nello specifico alla restituzione dell’assegno, per un importo pari alla differenza tra lo stipendio già percepito dall'amministrazione di provenienza e quello previsto nelle sue nuove mansioni, che l'Istituto stesso aveva continuato ad erogarle).

La Corte EDU ha ritenuto rientrare nel campo di applicazione della norma convenzionale il "legittimo affidamento" della ricorrente a poter conservare le retribuzioni percepite, acquisito in forza della spontaneità del pagamento, della sua provenienza da un ente qualificato, della sua durata, dell'assenza di una riserva di ripetizione, della buona fede nel percepire le retribuzioni, del tempo trascorso fino alla prima riserva manifestata dall'INPS nel febbraio 2004.

La Corte EDU, pur ravvisando la legalità dell'ingerenza (trattandosi di misura prevista dalla legge) e la legittimità del suo scopo (in quanto è nell'interesse pubblico che i beni ricevuti in assenza di titolo debbano essere restituiti allo Stato), ha ritenuto carente il requisito della proporzionalità.

La pronuncia di rimessione alla Corte Costituzionale ha evidenziato gli indici valorizzati nella sentenza della Corte di Strasburgo sia in relazione all'esistenza di un legittimo affidamento, sia al venir meno del giusto equilibrio tra le esigenze dell'interesse pubblico generale e il diritto dell'individuo al rispetto dei suoi beni, che non consentirebbero il recupero delle somme percepite. In particolare:

a) il versamento delle retribuzioni di posizione e di risultato era stato effettuato dal Comune negli anni 2001-2003 in maniera spontanea, ovvero in assenza di domanda;

b) il versamento era stato effettuato da un ente pubblico, sulla base di un procedimento amministrativo (previsione in bilancio delle risorse, costituzione del fondo per l'erogazione delle retribuzioni accessorie, contrattazione integrativa, liquidazione delle retribuzioni), assistito da una presunzione di conformità a legge;

c) l'erogazione delle retribuzioni si era fondata sulle disposizioni della contrattazione decentrata, la cui applicazione poteva essere percepita dalla dipendente come fonte del versamento, individuabile anche nel suo importo;

d) il pagamento non era manifestamente privo di titolo (la verifica del superamento del tetto fissato dal contratto nazionale richiedeva un calcolo complesso delle fonti di finanziamento, fisse e variabili, sulla base di dati di cui soltanto l'amministrazione era in possesso), né era basato su semplici errori di calcolo (tali errori erano, semmai, a monte, nella determinazione del fondo e il calcolo era complesso);

e) la durata dei versamenti, pari a tre anni, era tale da far nascere la ragionevole convinzione del loro carattere definitivo e stabile, specie in ragione del rilevante periodo di tempo decorso fino alla richiesta di restituzione, avvenuta soltanto nel maggio 2011, circa otto anni dopo l'ultimo versamento;
i pagamenti, pur riguardando voci della retribuzione accessoria, erano legati all'attività lavorativa ordinaria;

f) il pagamento non era stato effettuato con l'indicazione di una riserva di ripetizione.

L’interessata aveva fatto altresì presente la criticità della sua situazione economica.

La richiamata pronuncia della Corte EDU, inoltre, non è isolata o comunque non consolidata, applicando i principi enunciati da tempo in altre decisioni della stessa Corte e, in particolare, nelle sentenze del 12 dicembre 2019, sul ricorso n. 32141/10, Romeva c. Macedonia del Nord, del 26 aprile 2018, Cakarevic c. Croazia, ricorso n. 48921/2013, del 15 settembre 2009, sul ricorso n. 10373/2005, Moskal c. Polonia.

In sostanza, secondo l’interpretazione della Corte EDU, ai sensi dell'art. 1 del protocollo 1 alla CEDU, non è la semplice buona fede del ricevente a impedire alla pubblica amministrazione di ripetere l'indebito retributivo, ma il "legittimo affidamento" del dipendente alla definitività della attribuzione, fondato sul concorso di plurime circostanze di fatto: pagamento effettuato dalla pubblica amministrazione spontaneamente ovvero su domanda del dipendente in buona fede;
apparenza del titolo del pagamento;
durata nel tempo dei versamenti;
assenza della riserva di ripetizione;
buona fede del ricevente.

Inoltre, la violazione del diritto dell'individuo ricorre solo in caso di esito negativo del test di proporzionalità sotteso alla norma convenzionale;
a sua volta in tale test rilevano ulteriormente: l'esclusiva imputabilità alle autorità pubbliche dell'errore del pagamento, il pagamento delle retribuzioni indebite quale corrispettivo dell'attività lavorativa ordinaria, la situazione economica dell' accipiens al momento della condanna al rimborso (punti 72 e 73 della sentenza dell’11 febbraio 2021, sul ricorso n. 4893/13).

A fronte di questo panorama normativo e giurisprudenziale la Corte di Cassazione ha ritenuto di dover rimettere la questione alla Corte Costituzionale, non essendovi spazio per una interpretazione “correttiva” dell’art. 2033 c.c., che lo riporti nell’alveo dei suddetti principi e non potendosi procedere alla disapplicazione della normativa nazionale contraria ai principi enunciati dalla Corte EDU. A quest’ultimo riguardo la Corte di Cassazione ha rilevato che nel sistema normativo successivo all'entrata in vigore del trattato di Lisbona, la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo non ha modificato la propria posizione nel sistema delle fonti.

Il rinvio operato dall'art. 6, par. 3 del Trattato UE alla convenzione (con la qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come principi generali del diritto dell'Unione) non consente al giudice nazionale nelle materie estranee al diritto dell'Unione Europea e in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest'ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa (Corte Cost. sent. n. 80 del 2011;
Cass. sez. VI 04/12/2013, n. 27102).

La stessa Corte di Giustizia avrebbe, infatti, chiarito (CGUE, sentenza 24 aprile 2012 in causa C 571/10 KAMBERAJ, punti 62 e 63) che l'art. 6, paragrafo 3, TUE non disciplina il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri;
pertanto il rinvio operato dal suddetto articolo alla CEDU non impone al giudice nazionale, in caso di conflitto tra una norma di diritto nazionale e detta convenzione, di applicare direttamente le disposizioni di quest'ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa.

Ciò renderebbe non praticabile l’opzione della disapplicazione ex officio della norma interna contraria da quella convenzionale, come invece è possibile nell'ipotesi di contrasto delle norme interne con il diritto eurounitario.

Il Collegio ben conosce la più volte richiamata pronuncia della Corte EDU e i relativi principi sulla tutela del legittimo affidamento e buona fede impeditivi della ripetizione, per aver la Sezione già preso in considerazione le decisioni della Corte di Strasburgo sul tema e averne fatto, al contrario dell’indicata pronuncia della Cassazione, applicazione diretta, con la sentenza dell’1 luglio 2021, n. 5014, disapplicando la norma legislativa interna, in virtù del principio di primazia del diritto eurounitario.

In quest’ultima pronuncia il Consiglio di Stato ha correttamente evidenziato come, la più volte richiamata sentenza della Corte EDU, 11 febbraio 2021, n. 4893/2013, ha affermato la non ripetibilità dell'emolumento - avente carattere retributivo non occasionale - corrisposto da una pubblica amministrazione in modo costante e duraturo e senza riserve a un lavoratore in buona fede, in quanto si è ingenerato il legittimo affidamento nello stesso sulla spettanza delle somme, sicché la loro ripetizione (benché dovuta ai sensi delle diposizioni nazionali, essendo stato indebitamente corrisposto) comporterebbe la violazione dell'articolo 1 del Protocollo n. 1 addizionale alla Convenzione.

Anche la suindicata pronuncia del Consiglio di Stato n. 5014/2021 ha evidenziato come il lasso di tempo intercorso prima della richiesta restitutoria sia stato considerato dalla Corte EDU rilevante ai fini del c.d. proportionality test richiesto dall'art. 1 del Protocollo, che ammette le ingerenze statuali nel godimento di beni privati solo se le stesse siano previste dalla legge per uno scopo legittimo e siano "necessarie in una società democratica".

La Corte di Strasburgo ha riconosciuto la legalità dell'ingerenza, essendo la ripetizione "prevista dalla legge", nonché la legittimità dello scopo;
ha tuttavia censurato l'applicazione sotto il profilo della non proporzionalità, ritenendo che la scelta fatta abbia turbato l'equilibrio che deve sussistere tra le esigenze dell'interesse pubblico generale, da un lato, e quelle della protezione del diritto dell'individuo al rispetto della sua proprietà, dall'altro.

La medesima pronuncia della Corte EDU valorizza una serie di elementi, quali l'esclusiva responsabilità dell'errore in capo all'ente pubblico erogatore delle somme, la durata dei pagamenti nel tempo, la loro apparente definitività, l'autorevolezza dell'ente da cui promanavano, la natura retributiva ordinaria delle somme relative, con conseguente affidamento dell' accipiens nella loro corretta percezione, evidenziando una serie di condizioni la cui ricorrenza comporta l'irripetibilità delle somme non dovute corrisposte dall'amministrazione e, in particolare:

"a) il pagamento di un assegno deve essere effettuato a seguito di una richiesta del beneficiario che agisce in buona fede …o, in assenza di tale richiesta, dalle autorità che procedono spontaneamente;
b) il versamento in questione deve essere effettuato da un ente pubblico, amministrazione centrale dello Stato o altro ente pubblico, sulla base di una decisione presa al termine di un processo amministrativo e presumibilmente corretta …;

c) deve essere basato su una disposizione legale, regolamentare o contrattuale, la cui applicazione deve essere percepita dal beneficiario come la "fonte" del pagamento …, e anche identificabile nel suo importo;

d) è escluso il pagamento manifestamente privo di titolo o basato su semplici errori di calcolo;
tali errori possono essere rilevati dal beneficiario, eventualmente ricorrendo ad un esperto;

e) deve essere eseguito per un periodo sufficientemente lungo da far sorgere una ragionevole convinzione che sia definitivo e stabile …;
l'assegno versato non deve essere riconducibile ad un'attività professionale una tantum e "isolata" ma deve essere collegato all'attività ordinaria;

f) infine, il pagamento in questione non deve essere stato effettuato con menzione di una riserva di ripetizione" (punto 74 della richiamata pronuncia della Corte EDU).

In sostanza, da tali indici emerge che laddove si tratti di una voce stipendiale a carattere sporadico, quale, ad esempio, la remunerazione del lavoro straordinario, connotato ontologicamente da estemporaneità, si potrebbe "eventualmente giustificare, tenuto conto della sua natura occasionale e isolata, un errore da parte delle autorità per quanto riguarda l'importo da riconoscere agli interessati". Lo stesso non può invece essere affermato con riferimento a voci "stabili" o per così dire "tabellari" delle retribuzioni corrisposte, in riferimento alle quali la complessità del meccanismo di computo non ne consente la dequotazione a mero errore di calcolo.

Dato conto del siffatto panorama normativo e giurisprudenziale sulla questione, il Collegio rileva come sia l’ordinanza di rimessione alla Corte Costituzionale della Corte di Cassazione, che la sentenza di questa Sezione dell’1 luglio 2021, n. 5014, basano le loro conclusioni sul presupposto della “sovrapponibilità” in punto di fatto delle vicende sottoposte al loro scrutinio con quella in relazione alla quale la Corte EDU - nella sentenza11 febbraio 2021, n. 4893/2013 - ha ritenuto che la condanna della dipendente, ex art. 2033 c.c., alla restituzione delle retribuzioni percepite indebitamente ha costituito violazione dell'art. 1 del protocollo n. 1 alla Convenzione.

D’altra parte, come indicato, la stessa giurisprudenza della Corte di Strasburgo ha dettato degli specifici parametri affinchè possano avere rilievo in senso ostativo alla ripetizione i profili di buona fede, legittimo affidamento e proporzionalità della misura restitutoria dell’indebito.

Nel caso di specie tuttavia tale “sovrapponibilità” non è ravvisabile, non ricorrendo le condizioni poste dalla pronuncia della Corte EDU e richiamati dalla Corte di Cassazione e da questa Sezione del Consiglio di Stato.

La somma erogata ai dipendenti, di cui si contende la ripetibilità infatti è frutto di una attribuzione una tantum di pretesi arretrati in relazione a un avanzamento di carriera, per cui era stato proposto un contenzioso, concluso con un atto di transazione, previo parere dell’Avvocatura Generale dello Stato, con contestuale rinuncia del personale stesso alle azioni giudiziarie proposte (Ordinanze

commissariali numeri n. 1382, 1383 e 1384 del luglio 2003).

Non si tratta, quindi, di una somma corrisposta con continuità, né vi è stata spontaneità da parte dell’Amministrazione nel corrisponderla.

Inoltre, la spettanza della somma era controversa e i dipendenti pertanto ben erano a conoscenza di tale circostanza prima di percepirla.

Il fatto che sia intervenuta una transazione non può legittimare alcun affidamento, in quanto la transazione si palesa conclusa, come rilevato dalla sentenza di questo Consiglio di Stato, Sez. IV, 3/1/2018, n. 27, in stridente contrasto con il principio di non transigibilità di tali pretese, stante l’indisponibilità delle posizioni giuridiche della pubblica amministrazione conformate da norme imperative, come nel prosieguo della motivazione meglio specificato.

Non ricorrono pertanto i presupposti per la disapplicazione dell’art. 2033 c.c., in forza del contrasto (insussistente) con all'art. 1 del Protocollo 1, addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo (CEDU), come precisati dalle pronunce della Corte di Strasburgo, né per disporre una sospensione del giudizio in attesa della decisione della Corte Costituzionale e men che meno per una autonoma rimessione ai giudici della Consulta. Infatti, a differenza delle fattispecie esaminate dalla Corte di Cassazione e dal Consiglio di Stato, non sussistono i requisiti per ipotizzare il legittimo affidamento del dipendente pubblico percipiente nella definitività, nei termini chiariti dalla giurisprudenza della Corte EDU, e un'ingerenza non proporzionata nel diritto dell'individuo al rispetto dei suoi beni.

2) Nel merito l’appello è infondato.

3) Quanto al primo motivo di ricorso, il Collegio richiama, condividendola, la motivazione della richiamata sentenza tra le stesse parti del Consiglio di Stato, Sez. IV, 3/1/2018, n. 27, di conferma del rigetto dell’azione di annullamento avverso l’ordinanza 30 giugno 2008 n. 336, che ha annullato e le OO.CC. n.1382, n.1383, n.1384 del 2003 recanti corresponsione adeguamenti stipendiali, previa sottoscrizione di appositi atti di transazione.

Tale sentenza ha rilevato che con ordinanza commissariale n. 470 del 17 marzo 2003, fu disposta una serie di promozioni di grado del personale militare di assistenza della Croce Rossa Italiana, con decorrenza retroattiva dal 1994, con susseguente disposizione di pagamento delle competenze e degli arretrati connessi alle promozioni (come da successive ordinanze nn. 1382, 1383 e 1384 del 17 luglio 2003).

Tuttavia a seguito dell’ispezione del competente Servizio Ispettivo di Finanza Pubblica, delle raccomandazioni formulate dal Ragioniere Generale dello Stato e delle successive osservazioni del Ministero dell’Economia e Finanze, è stato disposto l’annullamento della citata ordinanza n. 470/2003 e di tutte le conseguenti promozioni del personale di assistenza effettuate in forza di essa, in quanto, in sostanza, le predette promozioni di grado risultavano disposte in assenza di posti in organico, in contrasto con quanto disposto dal r.d. 10 febbraio 1936, nr. 484, che all’art. 89 prevede che “non possono aver luogo promozioni nel personale di assistenza del ruolo normale se non vi siano posti vacanti nei ruoli organici dei singoli gradi”.

Il Commissario Straordinario della C.R.I. ha adottato l’ordinanza n. 394 del 2012, con cui annullava la precedente ordinanza n. 470/2003, e conseguentemente le promozioni del personale di assistenza del Corpo Militare della C.R.I. effettuate in forza di essa;
contestualmente si è proceduto a reinquadrare giuridicamente il personale militare in questione, operando anche un reinquadramento economico con ricalcolo delle somme da ripetere per effetto delle illegittime promozioni attribuite.

In punto di diritto, sugli effetti della transazione, dal punto di vista dell’invocata disciplina il Consiglio di Stato in sede consultiva (parere 4 novembre 2016 n. 2301) ha affermato: “E’ stato, d'altra parte, opportunamente rilevato come il fondamento giuridico della corresponsione ai militari delle somme arretrate deve individuarsi non già nei singoli atti di transazione stipulati con gli interessati, ma nei provvedimenti amministrativi autorizzativi delle transazioni stesse che di queste ne costituiscono il necessario presupposto e che possono costituire oggetto di annullamento in autotutela allorquando risultino illegittimamente emanate. . . In definitiva . . . in presenza di norme imperative che fissano con certezza i criteri per l'indicazione sulla decorrenza economica in caso di promozione (artt. 131, 159 e 168 del R.D. 484/1936) e che stabiliscono il principio da seguire nel dar corso agli avanzamenti (art. 89 stesso R.D.), l'Amministrazione mai avrebbe potuto porre in pagamento somme relative a periodi antecedenti la data di emissione del decreto (per gli Ufficiali) o del brevetto (per i Sottufficiali) di promozione, né procedere ad avanzamenti di grado in assenza di posti disponibili in organico”.

Inoltre, il contratto di transazione può avere ad oggetto solo diritti dei quali le parti abbiano la capacità di disporre (art. 1966 c.c.), e tali non possono essere considerate le posizioni giuridiche della pubblica amministrazione conformate da norme imperative.

Inoltre, la Pubblica Amministrazione può sempre agire unilateralmente sull’accordo (anche a contenuto patrimoniale) stipulato con un privato, collegato ad un provvedimento amministrativo o sottoscritto in sostituzione di questo, tutte le volte in cui lo richiedano esigenze di interesse pubblico, per la cura del quale essa conserva sempre posizioni di supremazia (Cons. Stato, sez. IV, 15 maggio 2017 n. 2256).

4) Infondato è anche il secondo motivo di ricorso, incentrato sull’inidoneità delle note di richiesta di restituzione del 7.7.2008, quale atto di messa in mora interruttivo della prescrizione.

Il Collegio ritiene al riguardo che il tenore delle richieste di recupero delle somme sia considerabile un atto interruttivo della prescrizione.

Un atto, per avere efficacia interruttiva della prescrizione, deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l'esplicitazione di una pretesa e l'intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l'inequivocabile volontà del titolare del credito di far valere il proprio diritto, nei confronti del soggetto indicato, con l'effetto sostanziale di costituirlo in mora (elemento oggettivo).

Quest’ultimo requisito non è soggetto a rigore di forme, all'infuori della scrittura, e quindi non richiede l'uso di formule solenni, né l'osservanza di particolari adempimenti, essendo sufficiente che il creditore manifesti chiaramente, con un qualsiasi scritto diretto al debitore e portato comunque a sua conoscenza, la volontà di ottenere dal medesimo il soddisfacimento del proprio diritto, essendo sufficiente a tal fine la mera comunicazione del fatto costitutivo della pretesa (Cass. civ. Sez. VI, ord., 04/07/2017, n. 16465).

Nel caso di specie, gli atti dell’Amministrazione evidenziano chiaramente il soggetto obbligato e la pretesa, nonché l’intenzione di far valere il diritto e ciò è sufficiente a interrompere la prescrizione.

5) Per le suesposte ragioni l’appello va rigettato.

Le specifiche circostanze inerenti al ricorso in esame costituiscono elementi che militano per l’applicazione dell’art. 92 c.p.c., come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a. e depongono per la compensazione delle spese del grado di giudizio di appello tra le parti.

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