Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-04-05, n. 201802116

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-04-05, n. 201802116
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201802116
Data del deposito : 5 aprile 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 05/04/2018

N. 02116/2018REG.PROV.COLL.

N. 10050/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10050 del 2016, proposto dai signori M C, A C C e A C, rappresentati e difesi dagli avvocati A A e A C, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via degli Avignonesi, 5;

contro

Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura generale dello Stato, presso cui domicilia in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Commissariato di Governo per l’emergenza rifiuti, bonifiche e tutela delle Acque nella Regione Campania, n.c.;
Amministrazione Provinciale di Napoli, n.c.;

nei confronti

Fibe s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Ennio Magrì e Benedetto Giovanni Carbone, con domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, via Guido d'Arezzo n. 18;

per la revocazione

della sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, n. 4095 del 5 ottobre 2016 .


Visto il ricorso in revocazione con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e di Fibe s.p.a.;

Viste le memorie difensive;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del giorno 29 marzo 2018 il Cons. S M;

Uditi, per le parti rispettivamente rappresentate, gli avvocati Enzo Robaldo su delega di A A, Massimo Ambroselli su delega dichiarata di Ennio Magrì e l'avvocato dello Stato Gianna Galluzzo;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con sentenza n. 4095/2016 del 5.12.2016 questa Sezione respingeva l’appello avverso la sentenza n. 4581 del 2015 con cui il T.a.r. per il Lazio aveva accolto, in parte, il ricorso proposto dagli odierni istanti.

Essi sono usufruttuari e nudi proprietari pro indiviso di un’area, sita nel Comune di Giugliano in Campania, località masseria Annunziata, contraddistinta in catasto al fg. 26, p.lla 38 coltivata a frutteto.

1.1. Detto terreno ubicato nella più ampia area dell’agglomerato industriale di Giugliano in Campania, veniva interessato dalla esecuzione dei lavori di variante in ampliamento dell’impianto di produzione di CDR ubicato nell’area ASI dello stesso Comune.

Con ordinanza n. 84 del 5 marzo 2002 il vice-commissario del Governo, ricorrendo l’emergenza ambientale rifiuti della Regione Campania, disponeva l’occupazione d’urgenza di tale area per cinque anni, per la realizzazione dell’impianto di che trattasi da parte della società FIBE s.p.a..

A fronte di detto provvedimento i ricorrenti proponevano avanti al T.a.r. per la Campania - Napoli, ricorso rubricato r.g. n. 6981 del 2002 per richiedere l’annullamento previa sospensione del verbale di consistenza ed immissione in possesso del 3 giugno 2002 della società FIBE s.p.a..

1.3. Il T.a.r. per la Campania si pronunciava con sentenza dichiarativa della incompetenza funzionale in favore del T.a.r. per il Lazio, e successivamente i ricorrenti riassumevano il giudizio, deducendo l’illegittimità degli atti impugnati, ma validamente notificati, rilevando la violazione dell’art. 7 della legge 241/90, la mancata prefissazione dei termini di ultimazione dell’opera e la mancanza del verbale redatto in contraddittorio di immissione in possesso, senza alcuna valida giustificazione atta a consentire le pur previste deroghe alla vigente legislazione.

Con successiva ordinanza n. 22 dell’1 febbraio 2005, l’Amministrazione disponeva la proroga di due anni dei termini previsti per l’emanazione del decreto di esproprio (mai notificato), e con ordinanza del 5 luglio 2007 n. 224 notificata il 26 settembre 2007 il Commissariato di Governo provvedeva alla ulteriore proroga sino a tutto il 31 agosto 2008.

Avverso detti nuovi provvedimenti i ricorrenti presentavano avanti al T.a.r. per il Lazio ulteriore ricorso rubricato r.g. n. 11028 del 2007.

Gli stessi proponevano altresì motivi aggiunti con ricorso r.g. n. 672/2012, svolgendo domanda restitutoria e risarcitoria, quest’ultima riferita, per come risulta dall’esposizione in fatto della sentenza di primo grado ai danni “ per l’occupazione ab origine illegittima ovvero, in via gradata, per l’occupazione protrattasi oltre i termini di legge, oltreché il danno derivante dalla eventuale impossibilità di restituire l’area, oltre agli interessi di legge fino al soddisfo ”;

2. Con ordinanza n. 514 del 2014 il T.a.r. adito provvedeva alla riunione dei ricorsi disponendo la chiamata in causa della Provincia di Napoli, quale proprietaria dell’impianto realizzato.

Con successiva ordinanza istruttoria n. 9470 del 2014 il T.a.r. disponeva altresì l’acquisizione di una articolata ed analitica relazione corredata di idonea documentazione da parte degli Uffici coinvolti.

2.1. La citata sentenza n. 4581 del 2015, rilevata la carenza di legittimazione passiva della FIBE s.p.a., riuniva i ricorsi ed i relativi motivi aggiunti, che in parte respingeva, in parte dichiarava improcedibili ed in parte accoglieva, condannando l’amministrazione al pagamento “forfetariamente” e “in via equitativa”, della somma di Euro 250.000,00 « a titolo di integrale ristoro del danno derivante dall’occupazione abusiva del fondo fino alla data della comunicazione in via amministrativa o della notifica a cura di parte della sentenza di primo grado », precisando che da tale importo avrebbe dovuto essere previamente defalcato quanto già corrisposto a titolo di indennizzo per l’occupazione d’urgenza riferita al medesimo periodo.

3. La sentenza era impugnata dagli odierni ricorrenti che articolavano sei autonomi motivi di gravame.

Per quanto qui interessa, la Sezione, nell’esaminare il quarto motivo - a fronte dello specifico rilievo tendente a stigmatizzare il fatto che il T.a.r., pur accogliendo la domanda di risarcimento del danno da occupazione illegittima, non avesse provveduto, anche d’ufficio, a disporre la condanna al pagamento degli interessi legali e della rivalutazione monetaria sulla sorte capitale – riteneva:

a) « di seguire l’orientamento fatto proprio dal giudice di prime cure, che ha riconosciuto una risarcibilità effettuata “forfettariamente” ed in via “equitativa”, la quale, in quanto tale, essendo riferita all’attualità, deve ritenersi comprensiva di ogni accessorio »;

b) che il ristoro per l’occupazione sine titulo era stato correttamente riconosciuto dal giudice di primo grado, e andava «commisurato nella misura del 5% annuo sul valore venale del bene occupato (comma 3 art. 42 bis), con conseguente infondatezza delle altre voci risarcitorie chieste dagli appellanti (cfr. C.G.A.R.S., sez. giur., 18 febbraio 2016, n. 4 “Qualora la p.a. segua la via dell’acquisizione dei beni occupati, essa è tenuta a corrispondere ai proprietari l’indennizzo di cui al comma 1 dell’art. 42-bis t.u. Espr. p.u. (corrispondente al valore venale della superficie occupata al momento dell’adozione del provvedimento di acquisizione, oltre il 10% di tale valore per il ristoro del danno non patrimoniale) e il risarcimento per l’occupazione illegittima, nella misura dell’interesse del 5% annuo del valore venale della superficie occupata al momento dell’adozione del provvedimento di acquisizione (come prescritto dal comma 3 del citato art. 42 bis): gli importi da determinare devono rispettare i criteri indicati nei commi 2 e 3 dell’art. 42 bis del d.P.R. n. 327/2001 9».

4. Con il presente ricorso in revocazione, gli originari ricorrenti, rimasti soccombenti in appello, lamentano che la Sezione sia incorsa in Errore di fatto revocatorio ex art. 395, n. 4, c.p.c., Violazione e falsa applicazione dell’art. 42 – bis d.P.R. n. 327/2001, Violazione e falsa applicazione art. 1224 c.c..

La sentenza del T.a.r. aveva statuito la fondatezza della pretesa di parte ricorrente di ottenere il risarcimento per il periodo di occupazione illegittima, quantificandolo nel 5% annuo del valore commerciale del bene, e aveva altresì dato atto che il periodo di occupazione illegittima non si era concluso, attesa la carenza di un provvedimento acquisitivo ovvero della restituzione del bene.

La somma di euro 250.000,00, liquidata a titolo forfettario ed equitativo, non aveva però tenuto conto del risarcimento del danno per gli anni successivi al deposito della sentenza stessa e fino al provvedimento acquisitivo /restitutivo o comunque alla cessazione dell’occupazione illegittima.

La sentenza nulla statuiva per gli anni successivi al deposito della sentenza e fino alla acquisizione /restituzione, nonché nulla statuiva in ordine alla rivalutazione e interessi.

Gli appellanti reputano che questo Consiglio sia incorso in un abbaglio nella parte in cui, nella sentenza n. 4095/2016, ha statuito di seguire l’orientamento fatto proprio dal giudice di prime cure «che ha riconosciuto una risarcibilità effettuata “forfettariamente” ed in “via equitativa”, la quale, in quanto tale, essendo riferita all’attualità deve ritenersi comprensiva di ogni accessorio».

L’abbaglio sarebbe dovuto al fatto che il Consiglio avrebbe ritenuto sussistente una liquidazione, da parte del T.a.r. “all’attualità” e quindi onnicomprensiva delle somme ancora non maturate, ovvero anche per i periodi di occupazione illegittima maturandi nonché in ordine ad interessi e rivalutazione sull’obbligazione risarcitoria riconosciuta in favore dei ricorrenti.

Gli istanti propongono dunque il presente giudizio revocatorio affinché questo giudice sancisca che giammai il T.a.r. per il Lazio ha voluto intendere una liquidazione del risarcimento del danno onnicomprensiva anche per gli anni a venire della stessa occupazione illegittima, nonché giammai si era pronunciato in ordine ad una onnicomprensività del risarcimento stesso in ordine agli interessi legali e rivalutazione sulla somma liquidata a titolo di risarcimento del danno.

5. Si sono costituiti, per resistere, la Presidenza del Consiglio e la società FIBE s.p.a..

Quest’ultima ha inteso ribadire l’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza di primo grado sulla carenza di legittimazione passiva della società medesima non avendo gli appellanti formulato censure, né le altre parti appellate proposto appello incidentale, in ordine alla parte della sentenza n. 4581/2015 con la quale il TAR Lazio affermava il difetto di legittimazione passiva di FIBE rispetto al ricorso ed alle domande formulate dei ricorrenti.

La società sottolinea che, coerentemente con la mancata impugnazione della decisione su tale questione, gli appellanti, così come avvenuto nel giudizio r.g. 5819/15 conclusosi con la sentenza n. 4095/16 della quale richiedono la revocazione, non rivolgono alcuna domanda nei suoi confronti, confermando così che, in ordine alla posizione di carenza di legittimazione passiva di quest’ultima, si è ormai formato il giudicato.

6. Gli istanti hanno depositato una memoria conclusionale, confermando di non avere proposto alcuna domanda nei confronti della FIBE, né di avere appellato la sentenza di prime cure nella parte in cui dichiarava la carenza di legittimazione passiva della predetta società.

Ribadiscono che la sentenza di primo grado nulla statuiva in ordine alla debenza, o meno, del risarcimento del danno per occupazione illegittima per gli anni successivi al deposito della sentenza stessa, e fino al provvedimento acquisitivo/restituzione del bene, o comunque alla cessazione della occupazione illegittima nonché in ordine alla rivalutazione e gli interessi sulla predetta somma, nonostante fosse pacifica e ritenuta congrua non solo la modalità di calcolo - pari al 5% annuo - sia la natura di obbligazione risarcitoria/debito di valore della stessa.

Sarebbe pertanto evidente che:

a) l’errore è attinente a un punto controverso sul quale la decisione di prime cure non ha motivato;

b) l’errata percezione dei fatti ha indotto il giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto di fatto;

c) vi sarebbe nesso di causalità tra l’erronea supposizione dell’esistenza di una statuizione sugli interessi e rivalutazione e la decisione stessa, secondo i parametri di recente dettati da questo Consiglio di Stato (Sez. VI, 4 giugno 2015, n. 3895).

7. Il ricorso, infine, è stato assunto in decisione alla pubblica udienza del 29 marzo 2018.

8. Il ricorso è manifestamente inammissibile.

8.1. Come noto, l’errore di fatto revocatorio è configurabile nell’attività preliminare del giudice relativa alla lettura ed alla percezione degli atti acquisiti al processo quanto alla loro esistenza ed al loro significato letterale, ma non coinvolge la successiva attività d'interpretazione e di valutazione del contenuto delle domande e delle eccezioni, ai fini della formazione del suo convincimento.

Così, ad esempio, si versa nell'errore di fatto di cui all'art. 395 n. 4, c.p.c. allorché il giudice - per svista sulla percezione delle risultanze materiali del processo - sia incorso in omissione di pronunzia o abbia esteso la decisione a domande o ad eccezioni non rinvenibili negli atti del processo, ma se ne esula allorché si contesti l'erroneo, inesatto o incompleto apprezzamento delle risultanze processuali o l’anomalia del procedimento logico di interpretazione del materiale probatorio, ovvero quando la questione controversa sia stata risolta sulla base di specifici canoni ermeneutici o di un esame critico della documentazione acquisita.

In tutti questi casi non sarà possibile censurare la decisione tramite il rimedio - di per sé eccezionale - della revocazione, che altrimenti verrebbe a dar vita ad un ulteriore grado del giudizio, non previsto dall'ordinamento.

L’errore di fatto riconducibile all'art. 395, n. 4, c.p.c., è quindi un errore di percezione, o una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l'esistenza (o l'inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato (Cons. St., Ad. plen., 24 gennaio 2014, n. 5;
20 gennaio 2013, n. 1;
17 maggio 2010, n. 2;
11 giugno 2001, n. 3;
successivamente, fra le tante, sez. V, 29 novembre 2017 n. 5609;
22 gennaio 2015, n. 274).

L'errore in questione presuppone il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l'altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione (Cass. civ., sez. trib., sentenza n. 442 del 11 gennaio 2018).

In sintesi, l'errore di fatto idoneo a fondare la domanda di revocazione, deve rispondere a tre requisiti:

a) derivare da una pura e semplice errata od omessa percezione del contenuto meramente materiale degli atti del giudizio, la quale abbia indotto l'organo giudicante a decidere sulla base di un falso presupposto fattuale, ritenendo così un fatto documentale escluso ovvero inesistente un fatto documentale provato;

b) attenere ad un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato;
c) essere stato un elemento decisivo della decisione da revocare, necessitando perciò un rapporto di causalità tra l'erronea presupposizione e la pronuncia stessa.

Infine, l'errore deve apparire con immediatezza ed essere di semplice rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche che impongano una ricostruzione interpretativa degli atti o documenti del giudizio (Cons. St., sez. V, n. 5609 del 29 novembre 2017;
Cass. civ., sez. VI, n. 20635 del 31 agosto 2017).

8.2. Nel caso di specie, è agevole rilevare che, nel passaggio stigmatizzato dagli istanti, la sentenza n. 4095/2016 si è espressa sul punto controverso, specificamente dedotto in appello, relativo all’omesso riconoscimento da parte del TAR di rivalutazione e interessi sulla somma liquidata a titolo risarcitorio.

A tale riguardo, nella decisione impugnata emerge pertanto non già l’erronea supposizione di una statuizione non presente nella sentenza di primo grado, quanto l’espressa formulazione di un giudizio relativamente al punto controverso della spettanza degli accessori: è l’appello dei ricorrenti che, a suo tempo, ha omesso di richiedere specificamente il ristoro dei danni collegati al mancato godimento dei fondi relativamente agli anni di occupazione successivi alla sentenza del T.a.r.

Nel quarto motivo di appello, infatti, si lamentava il “mancato riconoscimento degli interessi legali e della rivalutazione” che la Sezione ha correttamente inteso non già in termini di omessa pronuncia sul profilo in questione, bensì quale diniego delle poste in esame (« Il Collegio ritiene di seguire l’orientamento fatto proprio dal giudice di prime cure, che ha riconosciuto una risarcibilità effettuata “forfettariamente” ed in via “equitativa”, la quale, in quanto tale, essendo riferita all’attualità, deve ritenersi comprensiva di ogni accessorio »).

La sentenza aderisce poi espressamente all’orientamento giurisprudenziale secondo cui il risarcimento del pregiudizio patrimoniale per il mancato godimento del terreno illegittimamente occupato, nell’ipotesi in cui venga fatta applicazione in via equitativa dei criteri dettati dall’art. 42 – bis del d.P.R. n. 327/2001, viene sempre liquidato “ onnicomprensivamente e all’attualità ” (cfr., tra le tante, oltre sentenza del C.G.A.R.S., sez. giur., 18 febbraio 2016, n. 47, richiamata dalla decisione impugnata, le sentenze della Sezione n. 3929 del 2016 e 4636 del 2016).

In definitiva, la questione affrontata e risolta nella decisione impugnata, muove non già da un’erronea percezione del contenuto della sentenza di primo grado quanto dalla sua piana lettura, alla luce della consolidata giurisprudenza della Sezione.

Si tratta, pertanto, dell’espressione consapevole di un giudizio e non già di un errore di fatto.

9. Per quanto testé argomentato, il ricorso per revocazione deve essere dichiarato inammissibile.

9.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

9.2. Il Collegio, ritenendo che i ricorrenti abbiano agito temerariamente in giudizio, li condanna al pagamento della sanzione prevista dall’art. 26, comma 2, c.p.a., nella misura minima di legge di € 5.400,00 per ciascuno, pari a complessivi € 16.200,00 (cfr. sul punto, fra le tante, Cons. St., sez. IV, n. 364 del 2017;
n. 5497 del 2016;
sez. V, n. 930 del 2015, cui si rinvia a mente dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.);
siffatta condanna è computata nel quantum separatamente per ogni ricorrente: in caso di ricorso collettivo, infatti, i rapporti processuali restano distinti e per così dire “paralleli”, di talché la misura della sanzione prevista dal più volte menzionato art. 26, co. 2, c.p.a. (“ non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio ”, nella specie pari ad € 2.700,00) non può che riferirsi a ciascuna “parte soccombente”.

Del resto, trattandosi di una sanzione pecuniaria, trova applicazione il principio generale sancito dall’art. 5, l. n. 689 del 1981 secondo cui, quando più persone concorrono nella medesima violazione, ciascuna di esse soggiace alla sanzione per questa prevista, non potendosi configurare una situazione di solidarietà salvo che una norma di legge non disponga diversamente;
circostanza questa che non si verifica nella specie, nulla disponendo al riguardo nè l’art. 26 c.p.a. nè l’art. 96, co.3, c.p.c. (sull’applicazione dei principi di cui alla l. n. 689 del 1981 alla sanzione pecuniaria sancita dall’art. 26 c.p.a., cfr. Cons. St., sez. V, n. 1733 del 2012 e n. 3252 del 2011;
sulla natura sanzionatoria di tale misura si argomenta anche da Corte cost., n. 152 del 2016 che ha esplicitamente ravvisato tale indole nella misura pecuniaria sancita dal menzionato art. 96, co.3, c.p.c.);
dal punto di vista sistematico, infine, tale soluzione appare coerente con quanto stabilito dall’art. 97 c.p.c., nella parte in cui prevede la solidarietà passiva solo in relazione al pagamento delle spese di lite e del risarcimento dei danni cagionati dal processo.

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