Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2020-04-06, n. 202002254
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Pubblicato il 06/04/2020
N. 02254/2020REG.PROV.COLL.
N. 07824/2015 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 7824 del 2015, proposto dall’avvocato R R, rappresentato e difeso da se stesso e dall’avvocato S T ed elettivamente domiciliato presso il loro Studio in Roma, via Flaminia, n. 213;
contro
il Ministero dello sviluppo economico, in persona del Ministro
pro tempore
, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
nei confronti
dell’avvocato G C, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede di Roma, Sez. III- ter , 22 gennaio 2015 n. 1169, resa tra le parti.
Visto il ricorso in appello e i documenti allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dello sviluppo economico e i documenti prodotti;
Esaminate le memorie difensive, anche di replica e gli ulteriori atti depositati in giudizio;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 18 luglio 2019 il Cons. Stefano Toschei e uditi per le parti l’avvocato S T e l’avvocato dello Stato Federica Varrone;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. – Con il ricorso in appello n. R.g. 7824/2015 l’avvocato R R ha chiesto la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede di Roma, Sez. III- ter , 22 gennaio 2015 n. 1169 con la quale è stato respinto il ricorso (n. R.g. 987/2011) proposto, dal predetto, al fine dell’annullamento del decreto n. 422/2010 del 15 ottobre 2010, adottato dal Ministero dello sviluppo economico (d’ora in poi, per brevità, MISE), recante la revoca dall’incarico di commissario liquidatore dell’avvocato R R e la conferma dell’incarico all’avvocato G C, già nominato con d.m. n. 2/2007 del MISE a integrazione della terna commissariale, nell’ambito della liquidazione coatta amministrativa del Consorzio regionale cooperative in abitazione-COOP.CASA, società cooperativa a r.l..
2. - La vicenda sottesa al presente giudizio di appello può sintetizzarsi come segue:
- il MISE, nel 2004, nominava l’avvocato R R componente della tema di commissari liquidatori del Consorzio casa Lazio in LCA;
- era infatti accaduto che, con decreto del MISE 6 agosto 2004, il Consorzio regionale cooperative in abitazione-COOP.CASA, società cooperativa a r.l. veniva posto in liquidazione coatta amministrativa;
- con il predetto decreto ministeriale era anche nominato un collegio di commissari liquidatori nelle persone dei signori O S, R R e A Z;
- dopo circa due anni l’avvocato R era coinvolto in un procedimento penale (c.d. Laziogate ), in merito al quale la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, con nota 14 novembre 2006, trasmetteva il decreto di rinvio a giudizio del predetto per il reato di cui agli artt. 81 cpv, 110 e 615- ter cpv, c.p.;
- tale circostanza induceva il MISE a ritenere che si fosse minato il rapporto fiduciario collegato al ruolo di commissario liquidatore, sospendendo quindi, con d.m. n. 2/2007, l’efficacia del decreto di nomina dei commissari liquidatori 6 agosto 2004 nella parte in cui aveva disposto la nomina dell’avvocato R e nominando in sua sostituzione l’avvocato G C;
- il relativo provvedimento di sospensione dalla funzione veniva impugnato dinanzi al Tribunale amministrativo regionale atteso che, ad avviso dell’avvocato R, l’amministrazione aveva assunto quella grave determinazione senza svolgere alcuna previa indagine istruttoria in contraddittorio con l’interessato, come invece avrebbe dovuto;
- dal momento che nel corso del relativo giudizio, nella fase cautelare, veniva rilevata l’assenza, nel decreto ministeriale impugnato, del termine finale di efficacia della disposta sospensione, il MISE procedeva ad adottare un nuovo provvedimento, d.m. n. 468 del 4 settembre 2007, con il quale veniva individuato il termine finale di efficacia della sospensione, in parte qua , del d.m. 6 agosto 2004, facendolo coincidere con la data di definizione in primo grado del procedimento penale in corso e comunque non eccedente la durata di un anno dalla data di adozione del nuovo d.m.;
- l’efficacia del decreto di sospensione veniva poi prorogata, con d.m. n. 53 del 24 aprile 2009, sino alla definizione del giudizio penale di primo grado e comunque per un periodo non eccedente i 18 mesi dalla data del nuovo decreto del 2009;
- con l’approssimarsi della scadenza del suindicato periodo di sospensione e al cospetto della richiesta dell’avvocato R di poter essere reintegrato nella funzione, il MISE chiedeva notizie circa l’esito del procedimento penale in corso alla Procura della Repubblica che, con nota del 4 ottobre 2010, rendeva noto che l’imputato era stato condannato in primo grado per il reato ascritto;
- di conseguenza il MISE, con il d.m. n. 422 del 15 ottobre 2010 disponeva la revoca della nomina dell’avvocato R nell’incarico affidatogli con il d.m. 6 agosto 2004, confermando in sua sostituzione l’avvocato G C che, come si è sopra riferito, era nel frattempo subentrato al commissario sospeso dalla funzione per effetto del d.m. n. 2/07.
3. – L’avvocato R proponeva ricorso avverso il predetto atto di revoca dinanzi al Tribunale amministrativo per il Lazio.
Nel ricorso di primo grado il suddetto denunciava la illegittimità del provvedimento adottato in attuazione delle disposizioni di cui alla l. 7 agosto 1990, n. 241 ed in via d’urgenza, attesa la inconferenza di tale normativa con la disciplina del rapporto di commissario liquidatore che risponde ad una normativa di settore, sola, applicabile al caso di specie, contenuta nell’art. 37 della legge fallimentare.
Ad ogni modo il provvedimento adottato in via d’urgenza non recava le ragioni che giustificavano tale procedura eccezionale, a causa della quale l’ordinario iter istruttorio condiviso con l’interessato, nella specie, era del tutto mancato.
Il provvedimento impugnato è poi affetto da vizi di difetto di istruttoria e di mancanza di adeguata motivazione, posto che l’amministrazione non aveva tenuto nell’adeguata considerazione la rilevante circostanza che i fatti addebitati nel procedimento penale sono relativi ad attività diversa rispetto a quella di commissario liquidatore, di talché non emergono le necessarie ragioni per ritenere cessato il rapporto fiduciario con il ministero.
Infine, oltre alla domanda di annullamento del provvedimento impugnato, il ricorrente formulava anche domanda risarcitoria.
Il Tribunale amministrativo regionale riteneva infondate le censure dedotte e respingeva il ricorso proposto.
4. - Il giudice di primo grado, dopo aver superato l’eccezione “in rito” di tardività del ricorso sollevata dall’Avvocatura generale, ha respinto la impugnazione proposta dall’avvocato R in quanto:
- correttamente l’amministrazione ha fatto applicazione delle disposizioni di cui alla l. 241/1990, atteso che il ministero, nella specie, “ ha inteso adottare un provvedimento in autotutela in applicazione del generale potere di cui è dotata per la rimozione di determinazioni amministrative che si rivelino non più idonee a perseguire il pubblico interesse ” (così, testualmente, a pag. 6 della sentenza qui oggetto di appello);
- tale comportamento si conferma legittimo anche in presenza della disciplina specifica che regola le modalità di revoca dell’incarico di commissario in relazione alla gestione dell’incarico di liquidatore, giacché l’amministrazione non perde il potere di revocare il provvedimento di nomina del commissario laddove, per fatti sopravvenuti, la perdurante efficacia dello stesso si manifesti inopportuna, alla luce di una rinnovata e diversa valutazione dell'interesse pubblico originario;
- il MISE, assumendo il provvedimento di revoca all’esito di un procedimento in via d’urgenza, non ha vulnerato, nella realtà, le facoltà partecipative del commissario, atteso che costui aveva avuto modo di interloquire nel corso dell’intera vicenda con l’amministrazione, fin dal momento in cui, nel 2007, venne sospesa l’efficacia dell’atto di nomina, per come è dimostrato anche documentalmente;
- neppure ha pregio la censura con la quale si segnala la estraneità del comportamento per il quale è stata emessa la sentenza penale di condanna di primo grado rispetto ai compiti di commissario liquidatore, dal momento che il comportamento delittuoso ascritto all’avvocato R, consistente nel reato di accesso abusivo a sistema informatico di interesse pubblico (nella specie al sistema del centro elaborazione dati di Laziomatica S.p.a., società partecipata totalmente dalla Regione Lazio, al fine di trovare ingresso nel sistema informatico dell’anagrafe del Comune di Roma per acquisire dati personali relativi a numerosi soggetti residenti nel territorio del predetto comune), non esclude di per sé “ l’esercizio del potere di cui è dotata la p.a. di rivedere le proprie determinazioni, al fine di valutare la permanenza di ragioni di opportunità a continuare lo svolgimento di funzioni connotate da un innegabile rilievo pubblicistico ” (così, testualmente, a pag. 7 della sentenza qui oggetto di appello);
- con riferimento alle censure di difetto di motivazione, vertendosi in tema di esercizio del potere di autotutela e non manifestando il provvedimento impugnato elementi di evidente illogicità ed irragionevolezza, non vi è spazio per l’accoglimento di siffatte censure.
Da qui la reiezione del ricorso proposto in primo grado e la conseguente presentazione dell’appello spiegato dall’avvocato R R nei confronti della sentenza sfavorevole pronunciata dal TAR per il Lazio.
5. – Dopo avere ripercorso i fatti che hanno condotto all’adozione del provvedimento di revoca n. 422/2010 impugnato in primo grado, puntualizzando le vicende caratterizzanti il procedimento penale avviato a suo carico, l’avvocato R sostiene, nella presente sede di appello, la erroneità della sentenza del giudice di prime cure per le seguenti ragioni, coagulate in due complessi mezzi di gravame:
I) Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 27 Cost., insufficiente e/o contraddittoria motivazione. In via preliminare l’appellante ricorda che, in epoca antecedente rispetto alla definizione del giudizio di primo grado dinanzi al Tribunale amministrativo regionale, egli aveva depositato agli atti del processo il dispositivo di assoluzione con formula piena adottato in proprio favore dalla Corte d’appello penale di Roma nel procedimento penale avviato nei suoi confronti e per il quale era stato condannato in primo grado (ed ora produce la copia integrale della sentenza assolutoria n. 7572/2012 della Corte d’appello penale di Roma). Il giudice di prime cure, erroneamente, non ha tenuto affatto in considerazione della suddetta rilevantissima circostanza, accennandone solo in modo inadeguato e superficiale nella sentenza di reiezione del ricorso, di talché quest’ultima è affetta da un evidente difetto di motivazione. Sotto altro profilo, adottando il provvedimento di revoca, impugnato in primo grado, l’amministrazione ha violato macroscopicamente il principio cardine del nostro ordinamento della presunzione di innocenza dell’incolpato fino alla definizione del giudizio penale e quindi l’affermazione del Tribunale amministrativo secondo il quale la valutazione della legittimità del provvedimento impugnato deve essere considerata alla luce degli elementi in possesso dell’amministrazione al momento dell’adozione dell’atto e non con riferimento a fatti sopravvenuti, nella specie del venir meno del presupposto (la sentenza penale di condanna in primo grado) per l’adozione dell’atto di revoca avrebbe dovuto condurre il quel giudice ad accogliere il ricorso. Pertanto, riportando anche ampi stralci della sentenza di assoluzione, l’appellante insiste sulla circostanza che “ il fatto nuovo e sopraggiunto in corso di causa della eliminazione del presupposto (sentenza penale di condanna in primo grado) del provvedimento amministrativo impugnato, doveva portare a riconoscere come totalmente insussistenti le ragioni addotte dalla P.A. a sostegno dell'atto di revoca, il quale provvedimento - soltanto per questo fatto assolutorio a tutto tondo - doveva essere annullato e revocato dal Tribunale Amministrativo ”, atteso che “ La sentenza assolutoria (…) costituisce ragione abrogativa del presupposto del provvedimento di revoca e perciò doveva portare comunque il Tribunale Amministrativo ad accogliere la domanda di annullamento del provvedimento impugnato: in astratto corretto al momento della sua emanazione, ma sicuramente illegittimo in base ai successivi sviluppi della vicenda ” (così, testualmente, alle pagg. 14 e 18 dell’atto di appello);
II) Violazione degli artt. 198, 199, 37 L.F. (R.D. n. 267/1942) e 7 l. 241/1990, mancato rilievo dell’eccesso di potere della PA e della contraddittorietà motivazionale dell’atto amministrativo impugnato. Al primo giudice è poi imputabile l’errore di non avere considerato che nella specie, piuttosto che le disposizioni della l. 241/1990, avrebbero dovuto trovare, semmai, applicazione le norme della legge fallimentare, stante il tipo di incarico assegnato dal MISE all’avvocato R. Sicché “ non poteva ascriversi alla P.A. alcun potere discrezionale e comunque alcuna discrezionalità al di fuori del procedimento di garanzia previsto dalla legge fallimentare (art. 37 L.F.), laddove il Ministero ha invece operato d'urgenza sulla base del disposto dell'art. 21 quinquies L. 241/90 ” (così, testualmente, a pag. 20 dell’atto di appello). Se il MISE avesse attivato, più correttamente, il procedimento disciplinato dall’art. 37 della legge fallimentare, consentendo quindi all’interessato di poter depositare i documenti necessari a permettere che l’amministrazione comprendesse in modo più approfondito i profili di responsabilità penale imputati al commissario, completando l’istruttoria attraverso specifiche richieste di chiarimenti circa l’effettivo quadro probatorio esistente in ordine alla responsabilità penale attribuita all’avvocato R, l’amministrazione sarebbe stata in grado di conoscere le ragioni che, successivamente, hanno portato già il Procuratore generale a convincersi dell’estraneità del fatto costituente reato con riferimento alla condotta tenuta dal R (per come poi sancito dalla Corte d’appello penale) e quindi avrebbe evitato di adottare il provvedimento di revoca.
L’appellante ribadiva infine la assoluta estraneità della disciplina di cui alla l. 241/1990 nel caso di specie e l’insussistenza delle ragioni di urgenza che avevano condotto l’amministrazione a ridurre sensibilmente la partecipazione procedimentale dell’interessato, in uno con la erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto sufficientemente motivato il provvedimento di revoca.
Anche la domanda risarcitoria proposta in primo grado doveva essere accolta – venendo quindi riformulata nella sede di appello - stante l’evidente lesione all’onore, all’immagine e alla reputazione che l’avvocato R ha subito.
Da qui la richiesta di riforma della sentenza pronunciata dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede di Roma, Sez. III- ter , n. 1169/2015 e l’accoglimento del ricorso principale proposto nel giudizio di primo grado, con conseguente annullamento dell’atto impugnato e condanna del MISE al risarcimento del danno subito.
6. – Si è costituito nel presente giudizio di appello il MISE sostenendo la puntualità delle affermazioni fatte proprie dal giudice di primo grado nel respingere il ricorso proposto dall’avvocato R.
In particolare la difesa erariale ricorda come correttamente il giudice di primo grado ha fatto propri, nella sentenza qui oggetto di appello, principi giurisprudenziali consolidati e nello specifico, con riguardo alla lamentata considerazione dell’intervenuta assoluzione dell’appellante nel giudizio penale promosso nei suoi confronti, il principio secondo il quale “ l’indagine sulla legittimità degli atti amministrativi deve essere effettuata sugli elementi conosciuti o conoscibili da parte dell'Amministrazione e come cristallizzati al momento della conclusione del procedimento, non rilevando gli ulteriori elementi esibiti nella non appropriata sede giudiziale, che invece avrebbero dovuto costituire oggetto di valutazione da parte della competente autorità ” (così, testualmente, a pag. 4 della memoria del MISE).
Quanto alla scelta di assumere il provvedimento di revoca con procedura d’urgenza, la correttezza di tale percorso è dimostrata dalla documentazione prodotta in giudizio, dalla quale emerge con evidenza che il termine di scadenza dell’efficacia dell’atto di sospensione della nomina del commissario sarebbe scaduto il 24 ottobre 2010, con la conseguenza che, avendo conosciuto dell’adozione della sentenza di condanna dell’avvocato R solo in data 4 ottobre 2010, all’amministrazione non restava che avviare un procedimento in via d’urgenza ed escludere la fase di comunicazione dell’avvio del procedimento.
Non vi è poi spazio, ad avviso della difesa erariale, per l’accoglimento della domanda risarcitoria, pure (ri)formulata in secondo grado dall’appellante, attesa la legittimità del provvedimento di revoca dal quale discenderebbero – asseritamente - i danni provocati all’onorabilità e all’immagine del commissario.
7. - Le parti hanno presentato poi ulteriori memorie, anche di replica, confermando le divergenti posizioni e conclusioni.
In particolare l’appellante segnala che, parallelamente rispetto a quello qui in esame, avente ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di revoca di cui al d.m. n. 422 del 15 ottobre 2010, egli aveva promosso ricorso nei confronti dei due atti di sospensione dell’efficacia dell’atto di nomina a commissario liquidatore (d.m. 6 agosto 2004) che avevano preceduto la revoca, dapprima il d.m. 22 gennaio 2007 n. 2 e successivamente il d.m. 4 settembre 2007 n. 468.
Riferisce ancora l’appellante che, mentre il primo giudizio (nei confronti del d.m. n. 2/2007) veniva dichiarato dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio improcedibile, per essere stato il d.m. 22 gennaio 2007 n. 2 “superato” (quanto a portata ed efficacia afflittiva) dal d.m. 4 settembre 2007 n. 468, il giudizio nei confronti di quest’ultimo atto di sospensione si concludeva con una sentenza di accoglimento 7 luglio 2018 n. 7336, oramai divenuta cosa giudicata per mancata proposizione di appello, che lo annullava. Detta sentenza, a propria volta, veniva replicata, quanto ad esito favorevole in capo al ricorrente, con una successiva sentenza del TAR per il Lazio, 7 giugno 2019 n. 7478, con la quale veniva annullato anche il successivo atto di sospensione dell’efficacia (nella parte riferita all’avvocato R) del decreto del 2004 di nomina dei commissari liquidatori, n. 119 del 24 ottobre 2008, sul presupposto della fondatezza della censura relativa alla mancata comunicazione dell’avvio del procedimento.
Ciò dimostra la fondatezza del relativo motivo di appello, qui (ri)proposto, con il quale si ribadisce la illegittimità del provvedimento di revoca, assunto innaturalmente e senza motivo in via d’urgenza dal MISE, per il mancato coinvolgimento nella procedura della parte interessata che ben avrebbe potuto chiarire la sua posizione in sede penale e comunque l’estraneità dei fatti con riferimento alla funzione di commissario liquidatore di cui alla nomina avvenuta nel 2004.
Nella memoria di replica la difesa erariale controdeduce a quanto sostenuto dall’appellante, segnalando, in punto di fatto, due circostanze:
A) la prima attiene all’intervenuta proposizione dell’appello da parte del MISE nei confronti della sentenza del TAR per il Lazio n. 7478/2019, di talché allo stato (non essendo ancora stato definito il relativo giudizio di appello) quanto statuito dal giudice di primo grado con quella pronuncia, in ordine alla necessaria comunicazione di avvio del procedimento al fine di adottare l’atto di sospensione della nomina a commissario, non ha ancora assunto la forza del giudicato;
B) la seconda riguarda la presenza di un successivo (rispetto a quello del 2008 annullato dal TAR per il Lazio) decreto di sospensione dell’efficacia della nomina dell’avvocato R a commissario liquidatore, il d.m. 24 aprile 2009 n. 53 (con il quale la sospensione – in parte qua -dell’efficacia del d.m. 6 agosto 2004 veniva prorogata sino alla definizione in primo grado del procedimento giudiziario, che riguardava quel commissario, con sentenza che accertasse in modo inequivoco l’estraneità dello stesso ai reati contestati e comunque per un periodo non eccedente i 18 mesi dalla data del decreto), atto presupposto al provvedimento di revoca oggetto di impugnazione nel presente giudizio, anch’esso impugnato dall’avvocato R dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio che ha però respinto detto ricorso con sentenza 7 giugno 2019 n. 7480 (pubblicata, curiosamente, nella stessa data in cui veniva pubblicata la sentenza – di opposto segno – n. 7478/2019), confermando la legittimità della sospensione decretata (nuovamente) nel 2009.
8. – Ritiene il Collegio che l’esame degli argomenti che costituiscono il perno centrale del contenzioso qui in esame in grado di appello deve muovere dall’affermazione di principio enunciata dall’appellante a pag. 1 della memoria depositata in Segreteria, con modalità digitale, il 7 giugno 2019: “ L’appello deve essere accolto in quanto, anteriormente alla decisione di primo grado, è venuto meno il presupposto di fatto sul quale si fondava il provvedimento impugnato ed in quanto - nelle more - è stata accertata con sentenza n. 7336/2018 del Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, cosa giudicata inter partes, la violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990 dedotta anche nel presente procedimento ”.
Occorre dunque fare chiarezza, senza ripercorrere interamente il lungo percorso che ha caratterizzato negli anni la vicenda contenziosa tra il MISE e l’avvocato R, essendo stato già descritto ampiamente in precedenza, con l’ausilio della documentazione prodotta da entrambe le parti nei due gradi di giudizio su alcuni profili che si ritengono fondamentali e incontestabili:
- dal momento in cui il MISE ha avuto notizia dell’avvio di un procedimento penale a carico dell’avvocato R (2006), l’amministrazione ha disposto la sospensione in parte qua del d.m. di nomina dei tre commissari liquidatori del Consorzio regionale cooperative in abitazione-COOP.CASA, società cooperativa a r.l., con riferimento al R, nominando un sostituto (l’avvocato G C);
- nel tempo si sono succeduti i seguenti decreti, prima dell’adozione del provvedimento di revoca oggetto del presente contenzioso: il d.m. 22 gennaio 2007 n. 2, il d.m. 4 settembre 2007 n. 468, il d.m. 24 ottobre 2008 n. 119, il d.m. 24 aprile 2009 n. 53;
- ciò che conta ai fini del presente giudizio è l’efficacia dell’ultimo tra i suindicati decreti ministeriali di sospensione della nomina, vale a dire il d.m. n. 53/2009, visto che le vicende relative ai precedenti decreti non incidono sul presente contenzioso, atteso che il provvedimento di revoca n. 422/2010 è stato adottato sulla scorta del d.m. 53/2009 (espressamente richiamato nel testo del provvedimento, mentre i precedenti decreti, per tutta evidenza e per il tenore delle espressioni utilizzate nel testo, appaiono essere richiamati in funzione di descrizione storica delle vicende precedenti all’assunzione dell’atto di revoca), oltre al fatto che la ragione addotta dal MISE per la scelta della procedura in via d’urgenza è stata motivata dalla scadenza del termine di 18 mesi di efficacia della sospensione dell’atto di nomina a commissario liquidatore fissato proprio con il d.m. 53/2009;
- tale ultimo decreto di sospensione è stato impugnato, come i precedenti, dall’avvocato R dinanzi al TAR per il Lazio, sostenendone la illegittimità, tra l’altro, per violazione dell’art. 7 l. 241/1990, ma il Tribunale amministrativo, con sentenza 7 giugno 2019 n. 7480, ha respinto il ricorso;
- ne deriva che, allo stato, l’atto di sospensione del d.m. di nomina dell’avvocato R a commissario liquidatore è valido ed efficace, atteso che la sua impugnazione in sede giurisdizionale, stante l’esito del relativo giudizio di primo grado, non influisce sulla legittimità del provvedimento di revoca della nomina n. 422/2010, oltre al fatto che le vicende giudiziali dei diversi atti di sospensione della nomina dell’avvocato R a commissario liquidatore non hanno modo di influire, in alcun modo, sul presente giudizio in sede di appello.
Può passarsi ora all’esame del merito della controversia.
9. – Un primo ordine di contestazioni attiene alla mancata valutazione da parte del primo giudice della sopravvenuta assoluzione del R nel procedimento penale avviato a suo carico e che lo aveva visto dapprima riconosciuto autore di fatti penalmente rilevanti rispetto ai quali, in sede di appello, veniva assolto. Avendo l’appellante reso noto al Tribunale amministrativo regionale tale significativa nuova circostanza, il giudice di primo grado avrebbe dovuto necessariamente cogliere la portata dimostrativa della illegittimità dell’atto di revoca adottato nei confronti del commissario liquidatore proprio in ragione della intervenuta sentenza di condanna in primo grado ma poi riformata in grado di appello.
Come è noto, la giurisprudenza (anche della Sezione, cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 23 novembre 2017 n. 5470) ha da tempo chiarito che la legittimità del provvedimento amministrativo deve essere verificata avendo riguardo alla situazione di fatto e di diritto esistente al momento dell’adozione del provvedimento stesso.
Non può infatti imputarsi alla completezza dell’istruttoria svolta dall’amministrazione, oggetto di censura in sede giurisdizionale, la mancata considerazione di elementi e fatti successivi che, dunque, non potevano assumere rilievo al momento in cui è stata presa la decisione coagulata nel provvedimento amministrativo. E ciò neppur nell’ottica di un giudizio dinanzi al giudice amministrativo improntato alla “valutazione sul rapporto” e non limitato alla sola “considerazione del fatto”, in quanto nel caso di specie, per quanto si dirà oltre, la scelta di un commissario liquidatore appare indubitabilmente connotata da un necessario intuitu fiduciae che, nella specie e al momento in cui è stato adottato l’atto di revoca, era stato fortemente minato, fino a venir meno, dalla sentenza penale di condanna per un reato incidente sulla “fede pubblica” del quale era stato destinatario il medesimo commissario liquidatore. Detta funzione poi, non dà luogo alla costituzione di un rapporto di lavoro tra l’ente ed il professionista sicché quest’ultimo, seppur forte delle proprie ragioni circa la successiva dimostrazione della infondatezza delle imputazioni ad esso rivolte, non potrebbe neppure vantare un “diritto” al ripristino della funzione e del rapporto di collaborazione con l’amministrazione, mantenendo quest’ultima, esattamente come al momento della (prima) nomina del commissario, un ampio potere discrezionale nella scelta e (quindi anche in una eventuale pretesa) conferma del professionista al quale affidare il delicato incarico commissariale.
Pertanto nessun riflesso sulla legittimità del provvedimento di revoca può imputarsi alla successiva assoluzione in sede di appello dell’avvocato R, atteso che al momento dell’adozione del d.m. n. 422/2010 sussisteva il presupposto per dichiarare il venir meno del rapporto fiduciario con il professionista nominato commissario liquidatore nel 2004, stante la pronuncia, in primo grado, della sentenza di condanna a suo carico per un reato che desta oggettivamente allarme circa il rigore morale nei confronti dell’interesse pubblico da parte dell’autore del fatto.
D’altronde l’imputazione di avere operato per introdursi nel sistema del centro elaborazione dati di Laziomatica S.p.a., società partecipata totalmente dalla Regione Lazio, al fine di trovare ingresso nel sistema informatico dell’anagrafe del Comune di Roma per acquisire dati personali relativi a numerosi soggetti residenti nel territorio del predetto comune da parte di un soggetto che svolgeva il ruolo di commissario liquidatore del Consorzio regionale cooperative in abitazione-COOP.CASA, società cooperativa a r.l., obiettivamente, non poteva non gettare allarme sull’amministrazione che lo aveva nominato e non poteva non scalfire il rapporto fiduciario che deve sempre sostenere l’attribuzione di una funzione così delicata.
10. – Un secondo ordine di contestazioni attiene all’aver ritenuto il MISE applicabili al caso di specie le disposizioni disciplinanti l’istituto della revoca, di cui alla l. 241/1990, piuttosto che la procedura di cui all’art. 37 l.f., attese le funzioni svolte dal commissario liquidatore.
Come ha ricordato il giudice di primo grado, nella sentenza qui oggetto di appello, l’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con sentenza 7 giugno 1999 n. 14, ha chiarito alcuni principi mai più messi in contestazione dalla successiva giurisprudenza, tra i quali, quello più rilevante consiste nel qualificare la l. 241/1990 alla stregua di una legge “breve” e, in quanto tale, “è legge sul procedimento amministrativo, non legge del procedimento amministrativo”. Da ciò discende che, con riferimento alla l. 241/1990 non trova integrale applicazione il principio di cui al noto brocardo lex specialis derogat legi generali , in quanto le disposizioni contenute nella legge sul procedimento amministrativo trovano applicazione in tutti i procedimenti disciplinati da “leggi speciali o di settore” tutte le volte in cui la legge “speciale” lasci spazi vuoti di disciplina, non regolando ogni profilo degli istituti tipici dell’attività istruttoria della pubblica amministrazione, tranne nell’ipotesi in cui ne escluda espressamente l’applicazione. In tali spazi, lasciati vuoti o incompleti dalla legge “speciale”, si inseriscono le norme della legge “generale”, che dunque diventano direttamente applicabili, anche se non espressamente richiamate, quali misure che rappresentano “ livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione ” (così l’art. 29 l. 241/1990, commi 2- bis e 2- ter ).
D’altronde di tale rapporto di “continenza implicita” tra le norme della l. 241/1990 e quelle recate da leggi “di settore” si è avvisto anche il Legislatore che, nella normativa più recente, esplicita spessissimo il richiamo all’applicazione delle disposizioni della legge generale sul procedimento amministrativo nel caso in cui le norme “speciali” non disciplinino interamente il procedimento amministrativo “speciale” [si pensi, tra i tanti esempi possibili, all’art. 30, comma 8, d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50 (recante il Codice dei contratti pubblici) che così recita: “ Per quanto non espressamente previsto nel presente codice e negli atti attuativi, alle procedure di affidamento e alle altre attività amministrative in materia di contratti pubblici si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (…) ”].
Peraltro, nel caso di specie, il problema dell’applicazione delle disposizioni della “legge breve” non si pone in modo incisivo, come vorrebbe sostenere l’odierno appellante.
11. - L’avvocato R infatti sostiene che alla procedura di revoca dell’incarico, attivata dal MISE, avrebbe dovuto farsi applicazione delle disposizioni di cui all’art. 37 r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (legge fallimentare) ed in particolare il secondo comma del predetto articolo.
Il citato articolo 37 l.f. così recita:
“ Il tribunale può in ogni tempo, su proposta del giudice delegato o su richiesta del comitato dei creditori o d'ufficio, revocare il curatore.
Il tribunale provvede con decreto motivato, sentiti il curatore e il comitato dei creditori.
Contro il decreto di revoca o di rigetto dell'istanza di revoca, è ammesso reclamo alla corte di appello ai sensi dell'articolo 26;il reclamo non sospende l’efficacia del decreto ”.
Detto articolo, al secondo comma, stabilisce che prima di procedere alla revoca del curatore questi deve essere sentito.
Da ciò l’appellante fa discendere che:
a) per un verso andava applicata la suddetta norma e che quindi avrebbe dovuto essere coinvolto il curatore nel procedimento preliminare all’adozione dell’atto di revoca della nomina;
b) per altro verso non avrebbe dovuto trovare applicazione la l. 241/1990, sussistendo una norma specifica per il procedimento attivato dal MISE;
c) per un terzo profilo, comunque, la l. 241/1990 non andava applicata per la parte che consente l’adozione di un provvedimento di autotutela con possibilità di procedura d’urgenza;
d) per un quarto profilo, a tutto voler concedere, se proprio doveva trovare applicazione la l. 241/1990, il provvedimento di revoca è comunque stato illegittimamente adottato per violazione dell’art. 7 di quella legge.
Appare evidente che l’art. 37 l.f. disciplini l’ipotesi in cui la revoca è disposta dal Tribunale civile (sezione fallimentare) e che detta disposizione della legge fallimentare non possa trovare applicazione nel caso di specie, laddove l’amministrazione (e non il Tribunale civile, e per esso il giudice della controversia fallimentare) intendeva revocare la nomina del commissario in quanto non ritenuta “più opportuna” stante il sopraggiungere della sentenza di condanna per un reato che comunque incideva sulla moralità pubblica, oltre ad avere acclarato che il fatto delittuoso era stato commesso in danno del comune e della regione, enti del territorio nel quale operava la società cooperativa posta in liquidazione, con riferimento alla quale si esercitavano le funzioni assegnate alla commissione della quale faceva parte il R.
Ad ogni modo, la scelta di fare applicazione delle disposizioni della l. 241/1990 al caso di specie non avrebbe – di per sé –ridotto le tutele in capo al commissario liquidatore, stante la previsione di cui all’art. 7 della medesima legge che comunque impone la comunicazione di avvio del procedimento, tanto più al cospetto dell’adozione di un provvedimento di autotutela quale la revoca di un provvedimento amministrativo (cfr., tra le tante, Cons. Stato, Sez., IV, 30 dicembre 2008 n. 6603, secondo la quale: “ Ai sensi dell’art. 7, l. 7 agosto 1990 n. 241 e in applicazione dei principi generali sul giusto procedimento, ai quali la Pubblica amministrazione è tenuta a conformarsi allorché adotta atti di autotutela o di ritiro, la delibera di revoca di un pregresso atto amministrativo deve essere necessariamente preceduta dalla comunicazione all'interessato dell'avvio del relativo procedimento ”).
Conseguentemente la censura con la quale, anche nella sede di appello, si contesta la mancata applicazione della disposizione contenuta nell’art. 37 l.f., non può trovare accoglimento, collocandosi al limite della inammissibilità, non derivando in capo all’odierno appellante alcuna sostanziale differenza rispetto alla pretesa partecipazione al procedimento tra l’applicazione dell’art. 37 l.f. ovvero dell’art. 7 l. 241/1990.
12. – Diviene quindi rilevante accertare se, nel caso di specie, il provvedimento di revoca è illegittimo perché, prima della sua adozione, non è stata trasmessa la comunicazione di avvio del procedimento all’avvocato R.
Deve avviarsi l’indagine dall’esame della natura dell’atto adottato dal MISE con d.m. n. 422/2010.
Al di là del nomen iuris utilizzato dall’amministrazione, sotto il profilo sostanziale il provvedimento adottato non va (puramente e semplicemente) ricondotto alla categoria degli atti di autotutela (annullamento e revoca), bensì, seppur rientrante nell’ampia famiglia giuridica degli “atti di ritiro”, deve collocarsi nella categoria degli atti dichiarativi di “decadenza”.
Il (così qualificato) provvedimento di revoca nella specie, infatti, non assume la consistenza di un (vero e proprio) atto di autotutela, bensì (più verosimilmente) di un atto di decadenza in senso proprio o di ritiro per assenza delle condizioni essenziali previste (carenza del presupposto per la nomina nonché venir meno dell’ intuitu fiduciae nel rapporto tra professionista e amministrazione), situazione che priva l’iniziale coerenza dell’atto di nomina (del 2004) del suo oggetto e del suo scopo.
In altri termini la sentenza di condanna di primo grado a carico dell’avvocato R ha operato quale evento idoneo ad invalidare l’atto iniziale di nomina del suddetto a commissario liquidatore, avendo perduto quest’ultimo, in epoca postuma rispetto al momento della nomina, i requisiti che avevano permesso all’amministrazione di “sceglierlo” discrezionalmente nell’ambito dei professionisti qualificati ed astrattamente idonei a ricoprire quella delicata funzione, non solo sotto il profilo della capacità professionale ma anche (e non in seconda considerazione) sotto il profilo dell’attitudine morale e della incontestabile rettitudine nella condotta fino a quel momento (della nomina) mantenuta.
La sentenza penale di condanna (seppur pronunciata in primo grado e quindi non definitiva) ha fatto venire meno tale complesso di requisiti che erano stati individuati come presenti in capo al R al momento della nomina, come non fa mistero di chiarire il MISE sia negli atti di sospensione, che si sono succeduti tra il 2007 e il 2009 sia nel provvedimento di revoca del 2010, nel quale specifica come l’introduzione nel data base aveva lo scopo di carpire i dati personali relativi a molti soggetti residenti nel territorio del Comune di Roma Capitale.
Pare dunque evidente che, indubbiamente l’amministrazione ha agito al fine di rimuovere, per sopravvenute ragioni di pubblico interesse, il provvedimento di nomina del commissario liquidatore, richiamando espressamente la previsione di cui all’art. 21- quinquies l. 241/1990.
13. - Ricorda il Collegio, richiamando i principi espressi da molti precedenti del Consiglio di Stato (cfr., ad esempio, Sez. III, 29 novembre 2016, n. 5026) che la revoca dei provvedimenti amministrativi, disciplinata dall'art. 21- quinquies , l. 241/1990 (e introdotta dall'art. 14, l. 11 febbraio 2005, n. 15), si configura come lo strumento dell’autotutela decisoria preordinato alla rimozione, con efficacia ex nunc , di un atto ad efficacia durevole, in esito a una nuova (e diversa) valutazione dell’interesse pubblico alla conservazione della sua efficacia.
I presupposti del valido esercizio dello ius poenitendi sono definiti dall’art. 21- quinquies (per come modificato dall’art. 25, comma 1, lett. b- ter , d.l. 12 settembre 2014, n. 133 convertito, con modificazioni, dalla l. 11 novembre 2014 n. 164) con formule lessicali (volutamente) generiche e consistono nella sopravvenienza di motivi di interesse pubblico, nel mutamento della situazione di fatto (imprevedibile al momento dell'adozione del provvedimento) e in una rinnovata (e diversa) valutazione dell’interesse pubblico originario (tranne che per i provvedimenti autorizzatori o attributivi di vantaggi economici).
Ora, ancorché l’innovazione del 2014 abbia inteso accrescere la tutela del privato da un arbitrario e sproporzionato esercizio del potere di autotutela in questione (per mezzo dell’esclusione dei titoli abilitativi o attributivi di vantaggi economici dal catalogo di quelli revocabili in esito a una rinnovata valutazione dell'interesse pubblico originario), il potere di revoca resta connotato da un’ampia discrezionalità (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. III, 6 maggio 2014 n. 2311).
A differenza del potere di annullamento d’ufficio, che postula l’illegittimità dell’atto rimosso d’ufficio, quello di revoca esige, infatti, solo una valutazione di opportunità, seppur ancorata alle condizioni legittimanti dettagliate all’art. 21- quinquies l. 241/1990 (e che, nondimeno, sono descritte con clausole di ampia latitudine semantica), sicché il valido esercizio dello stesso resta, comunque, rimesso ad un apprezzamento ampiamente discrezionale dell’amministrazione procedente.
Tutto ciò deporrebbe per la necessità di un coinvolgimento indispensabile del soggetto destinatario di un così grave provvedimento dell’amministrazione, atteso che la preventiva comunicazione di avvio del procedimento rappresenta un principio generale dell’ agere amministrativo (cfr. in tal senso, oltre la pronuncia dell’Adunanza Plenaria sopra citata n. 14 del 1999, anche quelle del 20 dicembre 2002 n. 8 e del 24 gennaio 2000 n. 2, seppure in materia di espropriazione per pubblica utilità, ma recanti principi di ordine generale).
Tuttavia la mancata partecipazione dell’interessato all’istruttoria che precede la scelta di revocare un provvedimento non sempre rende illegittimo l’atto di revoca, come ricorda l’art. 21- octies l. 241/1990.
14 – Ed infatti, in tutti i casi in cui l’amministrazione intende emanare un atto di secondo grado (annullamento, revoca, decadenza) incidente su posizioni giuridiche originate da un precedente atto, è necessario l’avviso di avvio del procedimento, sempre che non sussistano ragioni di urgenza da esplicitare adeguatamente nella motivazione del provvedimento (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 19 novembre 2018 n.6542 e Sez. VI, 26 ottobre 2006 n. 6413) ovvero quando all'interessato sia stato comunque consentito di evidenziare i fatti e gli argomenti a suo favore (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 18 novembre 2004 n.7553).
In altri termini, “ la Pubblica amministrazione, ove ritenga esistenti i presupposti di celerità che legittimano l'omissione della comunicazione dell'avvio del procedimento, deve dare contezza, nel provvedimento finale, dell'urgenza, atteso che le ragioni della speditezza devono essere poste a raffronto con le esigenze di tutela del contraddittorio, soprattutto nel caso in cui il provvedimento da adottare consista nel ritiro o nella modificazione di un atto favorevole per i destinatari con conseguente venir meno di un effetto positivo ” (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. III, 9 aprile 2018 n. 2148);
Orbene nel caso di specie, dalla documentazione prodotta in entrambi i giudizi emerge un quadro idoneo a ritenere la sussistenza dei presupposti sopra richiamati per escludere la necessità della previa comunicazione dell’avvio del procedimento conclusosi con l’adozione dell’atto di revoca/decadenza.
L’avvocato R era a conoscenza della sospensione della nomina a commissario liquidatore fin dalla comunicazione del primo decreto di sospensione nel 2007, per come è dimostrato dai numerosi ricorsi proposti con riferimento a ciascuno degli atti di sospensione nel tempo adottati dal MISE.
Egli era dunque perfettamente consapevole delle circostanze che avevano indotto il ministero a procedere alla sospensione dell’incarico ed a lui era ampiamente noto che il d.m. 53/2009 (l’ultimo della serie prima dell’adozione del provvedimento di revoca), adottato nell’aprile di quell’anno, fissasse un termine di efficacia di diciotto mesi.
Seppure è vero che l’avvocato R non fosse un dipendente del MISE e che quindi egli, in linea teorica, non aveva obblighi di comunicare al ministero gli esiti del procedimento penale che lo vedeva imputato della commissione del reato di cui agli artt. 81 cpv, 110 e 615- ter cpv, c.p., pur nella considerazione della rilevanza del principio nemo tenetur se detegere , nondimeno non avere reso noto al MISE che in data 5 maggio 2010 era stato condannato per tale reato ha, se non altro, costretto il ministero ad interrogare circa gli esiti del procedimento penale la Procura della Repubblica (dopo aver appreso da notizie giornalistiche che il procedimento penale in primo grado nei confronti del professionista poteva essersi concluso) che solo in data 4 ottobre e, quindi, nell’approssimarsi della scadenza del provvedimento di sospensione dell’efficacia dell’atto di nomina a commissario liquidatore (d.m. n. 53/2009) rendeva noto l’esito del primo grado del processo penale.
A tali circostanze, già da sole idonee a giustificare la scelta di intervenire con procedura d’urgenza e quindi a non comunicare formalmente l’avvio del procedimento all’avvocato R, si aggiungono i seguenti elementi.
In primo luogo la procedura scelta non avrebbe potuto provocare l’adozione di un “atto a sorpresa”, stante la lunga e perdurante querelle tra il MISE e l’avvocato R, durata circa quattro anni, che dimostra come il suddetto, peraltro destinatario di numerosi atti di sospensione della nomina la cui efficacia era espressamente collegata alla conclusione dell’ iter giudiziario in sede penale, ben era conscio della portata dell’emissione di una sentenza di condanna in sede penale sia sotto il profilo della idoneità a provocare una decisione conclusiva dell’amministrazione in ordine alla sua nomina a commissario liquidatore, solo sospesa dal MISE, sia sotto il versante della probabilità che una sentenza che lo avesse riconosciuto responsabile di reati incidenti sulla moralità del professionista nel rapporto con il “mondo” delle pubbliche amministrazioni avrebbe indotto l’amministrazione a considerare il venir meno di quel rapporto di fiducia che aveva costituito una delle ragioni della nomina.
In secondo luogo gli elementi in possesso del MISE non lasciavano spazio a diverse decisioni, nonostante l’eventuale partecipazione del R, giacché il rapporto di fiducia, di cui sopra si è detto è stato ancor più minato dal comportamento del professionista che, a conoscenza della sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti dal Tribunale penale di Roma, aveva taciuto tale notizia all’amministrazione, finendo in tal modo per minare irreparabilmente l’affidamento del ministero nei suoi confronti.
15. - Sotto un ulteriore versante la necessità dello svolgimento di una procedura in via d’urgenza, dunque, si è resa necessaria proprio a causa della mancata comunicazione da parte del professionista all’amministrazione dell’intervenuta pubblicazione della sentenza penale di condanna in primo grado da parte del Tribunale di Roma e della conseguente conoscenza tardiva del fatto, reso noto al MISE solo con la nota della Procura della Repubblica del 4 ottobre 2010, a ridosso, quindi, della scadenza del termine indicato nel d.m. 24 aprile 2009 n. 53. Conseguentemente non sussistevano in capo al MISE margini per procedere attraverso un iter istruttorio ordinario.
D’altronde è stato chiarito più volte da questo Consiglio che la cogenza dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento recede rispetto alle opposte esigenze di celerità del procedimento, laddove sussistano ragioni di impedimento che richiedano l’immediata adozione della determinazione amministrativa, o qualora il contributo partecipativo del privato non sarebbe stato comunque idoneo a determinare un esito diverso (cfr., per tutte, Cons. Stato, Sez. V, 21 giugno 2007 n.3431).
Pertanto, nel caso di specie ed in virtù della sopra rappresentata situazione di fatto, la mancanza dell’invio della comunicazione di avvio del procedimento, anche ai fini dell’applicazione dell’art. 21- octies , secondo comma, secondo periodo, l. 241/1990, non può costituire presupposto per l’annullamento del provvedimento di revoca n. 422/2010, sussistendo tutti i presupposti voluti dal legislatore per escludere l’annullabilità del provvedimento amministrativo il cui procedimento non ha avuto inizio con la comunicazione di avvio del procedimento.
Infatti la richiamata disposizione, nella sua funzione tipica di evitare annullamenti di carattere meramente formali ed emendabili in sede di riesercizio del potere con la semplice integrazione degli adempimenti procedimentali omessi, impone di verificare nella sede giurisdizionale se le garanzie del procedimento amministrativo, a partire dalla comunicazione di avvio ai sensi dell’art. 7 l. 241/1990 (di cui si lamenta la violazione), siano in concreto effettivamente strumentali al corretto esercizio della discrezionalità amministrativa. Per quanto sopra si è detto risulta dimostrato che, nel caso di specie, la comunicazione di avvio del procedimento, se inviata all’avvocato R, non avrebbe prodotto effetti concreti, stante la condanna dello stesso per il reato ascrittogli.
16. – Quanto si è fin qui illustrato, tenuto conto delle modalità di confezionamento del d.m. 422/2010 e della meticolosa rappresentazione dei fatti ed esposizione delle ragioni che hanno condotto il MISE ad optare per la revoca ( rectius , decadenza) della nomina, la cui completezza emerge ictu oculi dalla lettura del richiamato documento, esclude la fondatezza anche del motivo di appello incentrato sulla contestazione del difetto di motivazione.
17. – La verificata infondatezza dei motivi di appello dedotti conduce al rigetto della domanda risarcitoria, pure riproposta nel secondo grado di giudizio.
18. - In considerazione delle suesposte osservazioni, l’appello in esame (n. R.g. 7824/2015) va respinto con conseguente conferma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, Sede di Roma, Sez. III- ter , 22 gennaio 2015 n. 1169 e della reiezione del ricorso di primo grado (n. R.g. 987/2011).
Sussistono, nondimeno, giusti motivi legati alla peculiarità, novità e complessità della vicenda sottesa al presente contenzioso per disporre, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., per come espressamente richiamato dall’art. 26, comma 1, c.p.a, l’integrale compensazione delle spese del grado di giudizio tra le parti.