Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2014-03-24, n. 201401413

Sintesi tramite sistema IA Doctrine

L'intelligenza artificiale può commettere errori. Verifica sempre i contenuti generati.Beta

Segnala un errore nella sintesi

Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2014-03-24, n. 201401413
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201401413
Data del deposito : 24 marzo 2014
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00490/2013 REG.RIC.

N. 01413/2014REG.PROV.COLL.

N. 00490/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 490 del 2013, proposto da
San Bernardo di M S R e C. s.n.c., in persona del legale rappresentante, nonché dai signori M B e M S R, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati G S, A S e C M, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via Panama, 58;

contro

Comune di Firenze, in persona del sindaco in carica, rappresentato e difeso dagli avvocati A M e F D S, con domicilio eletto presso l’avv. Giuseppe Lepore in Roma, via Polibio, 15;
Direttore della Direzione Urbanistica, Servizio Edilizia Privata, del Comune di Firenze;

nei confronti di

F Fulvio, rappresentato e difeso dagli avvocati Calogero Narese, Fausto Falorni e Domenico Benussi, con domicilio eletto presso l’avv. Gian Marco Grez in Roma, corso Vittorio Emanuele II, 18;

per la riforma della sentenza del T.A.R. TOSCANA – FIRENZE, SEZIONE III, n. 01807/2012, resa tra le parti, concernente dichiarazione di inefficacia di denunce di inizio attività e ordine di demolizione;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Firenze e dell’avv. F Fulvio;

Viste le memorie difensive delle parti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 febbraio 2014 il Cons. G D M e uditi per le parti gli avvocati A.Stancanelli, De Santis, Benussi e Falorni;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:


FATTO

Con sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Toscana 9 novembre 2012, n. 1807, notificata il 10 novembre 2012 sono stati in parte dichiarati inammissibili o improcedibili e in parte respinti due ricorsi riuniti, proposti, rispettivamente, dall’avv. F F e dai signori M B e M S R, in proprio e per conto della società San Bernardo di M S R &
C. s.n.c.: il primo, per ottenere l’annullamento di una d.i.a., di un’autorizzazione paesaggistica e della revoca di un’ordinanza di sospensione dei lavori, inerenti la sopraelevazione di un capannone, limitrofo alla proprietà del ricorrente;
i secondi, avverso la declaratoria di inefficacia delle denunce di inizio attività nn. 44924 e 3733, nonché avverso l’ordinanza di demolizione, emessa ai sensi dell’art. 134 della legge regionale 3 gennaio 2005, n. 1 ( Norme per il governo del territorio ).

La vicenda contenziosa riguardava la progettata ristrutturazione di un immobile, risultato privo di titolo edilizio, con ritenuta infondatezza delle censure, finalizzate a sostenere che detto titolo non fosse necessario per opere realizzate prima del 1967 e che, comunque, la repressione dell’abuso non potesse essere effettuata a grande distanza di tempo. Per l’altro ricorso proposto dall’avv. F, invece, era ritenuto inammissibile il richiesto annullamento della d.i.a., quale atto non provvedimentale, ma di natura privata.

Avverso la predetta sentenza hanno proposto appello (n. 490/13, notificato il 14.1,2013) i signori M B e M S R, in proprio e per conto della società San Bernardo di M S R &
C s.n.c., sulla base dei seguenti motivi di gravame:

I) falsa applicazione dell’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (nel testo vigente dopo l’emanazione del d.-l.. 13 maggio 2011, n. 70, convertito dalla l. 12 luglio 2011, n. 106) e dell’art. 84 della legge della Regione Toscana n. 1 del 2005;
sviamento di potere;
difetto assoluto di motivazione: violazione o falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990, tenuto conto della diversa disciplina applicabile, quando il potere repressivo dell’Amministrazione venga esercitato dopo la scadenza del termine di trenta giorni dalla presentazione di denuncia di inizio attività, come ribadito dalla giurisprudenza (Cons. Stato, VI, n. 717/2009 e Ad. Plen.n. 15/2001). Irrilevante sarebbe, al riguardo, il mancato richiamo, nell’art. 84 della legge regionale n. 1/2005, ai principi posti dalla legge 14 maggio 2005, n. 80 (di conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35), trattandosi di principi comunque applicabili, anche prima dell’emanazione della legge regionale stessa;

II) falsa applicazione dell’art. 40 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, nella misura in cui l’intervento repressivo viene giustificato col presunto carattere abusivo dell’edificio preesistente, su cui si intendeva effettuare una sopraelevazione, risalendo la costruzione di tale edificio ad un periodo antecedente al 1967, data cui fa riferimento l’art. 40 della legge n. 47 del 1985, per stabilire il momento a partire dal quale è obbligatorio documentare l’esistenza del titolo abilitativo per l’edificazione, anche in sede di cessione dell’immobile: circostanza, quest’ultima, che escluderebbe la possibilità di emanare misure repressive, fondate esclusivamente sull’originario carattere abusivo di opere così risalenti nel tempo;

III) falsa applicazione delle norme del P.R.G. del Comune di Firenze, essendo consentiti incrementi volumetrici nell’area di cui trattasi, in base al mero presupposto di fatto della sussistenza di un immobile, di cui non sarebbe necessario accertare la legittima edificazione, in effetti non sottoposta ad alcun accertamento da parte del Comune, prima dell’intervento dei proprietari limitrofi;
nella situazione in esame, peraltro, la licenza edilizia sarebbe stata richiesta ma non rilasciata, non avendo il proprietario ottemperato all’invito di pagare un’indennità, per la comunione di un muro di confine di proprietà comunale;

IV) erronea applicazione dell’art. 129 della legge regionale n. 1 del 2005, in base al quale sarebbero illegittimi i provvedimenti sanzionatori definitivi, non adottati entro i quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori;

V) mancata applicazione dell’art. 7 della legge n. 241 del 1990, con particolare riguardo alla denuncia di inizio attività del 2005, avente ad oggetto solo opere di manutenzione straordinaria;

VI) violazione dell’art. 134 della legge regionale n. 1 del 2005, essendo la demolizione possibile solo per opere eseguite in assenza di d.i.a./s.c.i.a., o in difformità da essa o con variazioni essenziali: presupposti non sussistenti nel caso di specie e che avrebbero potuto essere superati solo con provvedimento assunto in via di autotutela, in applicazione dei principi al riguardo previsti, con particolare riferimento agli articoli 21- quinquies e 21- nonies della legge n. 241 del 1990.

Si è costituito in giudizio – con proposizione di appello incidentale – l’avv. F F, (proprietario di un immobile limitrofo a quello di cui trattasi), sottolineando il carattere incontestabile dell’assenza di originario titolo abilitativo per la costruzione del capannone, la cui sopraelevazione è stata resa oggetto dei provvedimenti sanzionatori in esame. In via incidentale, inoltre, il medesimo avv. F ha impugnato i capi della sentenza in cui si dichiaravano inammissibili il ricorso n. 653/2010 ed i relativi motivi aggiunti. In particolare, nell’appello incidentale si sottolineava l’applicabilità della legge regionale speciale, rispetto a quella generale statale, di modo che non sarebbe applicabile nel caso di specie la disciplina sull’esercizio della potestà di autotutela;
anche in base a quest’ultima, tuttavia, non avrebbe potuto non essere rilevata la difformità delle dd.ii.aa. rispetto alle disposizioni di legge e del piano regolatore, non potendosi consentire l’ampliamento di costruzioni abusive e risultando non veritiere le dichiarazioni, al riguardo rese dal professionista incaricato.

Il Comune di Firenze, a sua volta costituitosi in giudizio, sottolineava l’avvenuta realizzazione dell’immobile, senza titolo abilitativo, tra il 1954 e il 1961, quando non poteva porsi in dubbio l’obbligatorietà di detto titolo, ricadendo l’area interessata nel centro abitato. Sarebbe stato, peraltro, erroneo l’assunto del giudice penale, secondo cui costituirebbe titolo abilitativo il parere favorevole della commissione edilizia. Le dd.ii.aa. presentate, in ogni caso, non avrebbero potuto consentire lo sfruttamento edificatorio di un immobile abusivo e l’Amministrazione avrebbe agito nell’ambito dei propri poteri di vigilanza e di controllo, una volta avuta notizia del carattere abusivo della costruzione. L’art. 27, comma 3, d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, d’altra parte, impone l’intervento repressivo delle autorità competenti, sia quando l’abuso sia accertato dagli uffici comunali, sia quando giungano denunce da parte dei cittadini. Anche la natura privata della d.i.a. non escluderebbe l’applicazione dei principi in materia di autotutela, ma il legittimo affidamento sarebbe nella fattispecie escluso, in quanto il professionista incaricato non avrebbe potuto non verificare la regolarità dell’immobile oggetto di intervento sotto il profilo urbanistico-edilizio.

L’ordine di demolizione, infine, riguarderebbe soltanto le opere eseguite nel 2005 e nel 2006, non l’intero edificio. Tutti i motivi di gravame risulterebbero, conclusivamente, infondati.

DIRITTO

La questione sottoposta all’esame del Collegio concerne la dichiarazione di inefficacia di due denunce di inizio attività (d.i.a.) riferite a un capannone sul quale si intendevano eseguire lavori di ristrutturazione con sopraelevazione: lavori ritenuti non più legittimati – con conseguente ordine di demolizione – a causa della rilevata assenza di titolo abilitativo dell’immobile preesistente.

In materia di denuncia di inizio attività (d.i.a.), come disciplinata dall’art. 22 del d.P.R.6 giugno 2001, n. 380 – e con decorrenza 13 luglio 2011 anche dall’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, nel desto introdotto dall’art. 5 d.-l. 13 maggio 2011, n. 70, convertito dalla legge 12 luglio 2011, n. 106 (s.c.i.a.: segnalazione certificata di inizio attività) – in effetti, sussistono tuttora diversi indirizzi circa la sua natura giuridica e gli effetti del decorso del termine, che consente al dichiarante di effettuare gli interventi edilizi oggetto di denuncia. In alcuni casi, in particolare, è stato ravvisata in esito alla procedura la formazione di un provvedimento tacito, abilitativo dell’intervento (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, VI, 5 aprile 2007, n. 1550;
Cons. Stato, IV, 12 marzo 2009, n. 1474 e 25 novembre 2008, n. 5811;
Cons. Stato, II, 28 maggio 2010, parere n. 1990);
in altri la d.i.a. è stata identificata come atto ‘privato’ di autocertificazione, che pur non costituendo espressione di potestà pubblicistica, resta oggetto di poteri di controllo ed inibitori, anche dopo la scadenza del detto termine, sempre comunque nel rispetto degli articoli 21. quinquies e 21- novies della legge n. 241 del 1990 (cfr. in tal senso Cons. Stato, VI, 9 febbraio 2009, n. 717 e 14 novembre 2012, n. 5751). Le esigenze di protezione dell’affidamento del privato, cui sono finalizzate le regole garantistiche per l’esercizio dell’autotutela, tuttavia, richiedono la sussistenza di alcuni requisiti minimi, in assenza dei quali la d.i.a. resta inefficace, con conseguente sottoposizione delle opere realizzate – da ritenere prive di titolo – agli ordinari poteri repressivi dell’Amministrazione.

Detti requisiti sono precisati, oltre che nell’art. 22 sotto il profilo oggettivo, nell’art. 23 del citato d.P.R. n. 380 del 2001: al comma n. 1 di quest’ultimo, per quanto riguarda le modalità della domanda ed i requisiti soggettivi richiesti per la relativa presentazione, e nel comma 4 in presenza di vincoli ambientali, paesaggistici o culturali. Viene anche chiarito, al comma 5 del medesimo articolo 23, che la “sussistenza del titolo è provata con la copia della denuncia, l’elenco di quanto presentato a corredo del progetto, l’attestazione del professionista abilitato, nonché gli atti di assenso eventualmente necessari” . Tale disposizione conferma l’assunto secondo cui, anche aderendo alla tesi che attribuisce alla d.i.a. natura ‘privata’, esiste comunque un titolo abilitativo, che può considerarsi formato alla scadenza del termine previsto per l’inizio dei lavori, ma solo in presenza di tutti i presupposti di completezza e veridicità delle autocertificazioni, nonché degli altri documenti prescritti. A detto titolo abilitativo, ove regolarmente formato, corrisponde un legittimo affidamento dell’interessato, su cui l’Amministrazione può eventualmente incidere – ove dissenta sulla qualificazione dell’intervento – ma solo con le garanzie imposte all’esercizio della potestà di autotutela.

Le disposizioni sopra richiamate debbono essere coordinate con il pacifico indirizzo giurisprudenziale, che identifica, dal punto di vista amministrativo, l’abuso edilizio come realizzazione ad effetti permanenti, in relazione ai quali l’Amministrazione, nel vigilare sul rispetto della normativa urbanistico-edilizia, non può non disporre il ripristino dell’ordine urbanistico indebitamente violato , anche per manufatti risalenti nel tempo, ove realizzati senza il prescritto titolo abilitativo (cfr. in tal senso, fra le tante, Cons. Stato, IV, 11 aprile 2007, n. 1585, 27 dicembre 2011, n. 6783 e 8 gennaio 2013, n. 32;
VI, 15 marzo 2007, n. 1255).

In tale contesto – se è stata ritenuta inefficace la d.i.a., presentata senza che fosse stato almeno richiesto la prescritta autorizzazione paesaggistica (Cons. Stato, VI, 20 novembre 2013, n. 5513) – a maggior ragione non può non ritenersi inefficace una d.i.a., che asseveri la conformità urbanistica di lavori, da effettuare su un immobile di cui non sia consentita la legittima permanenza sul territorio.

La regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio, dell’immobile interessato da nuovi interventi soggetti a d.i.a., in altre parole, deve considerarsi presupposto di veridicità e attendibilità della relazione del progettista abilitato, chiamato ad asseverare “la conformità delle opere da realizzare agli strumenti urbanistici approvati” , nonché l’assenza di “contrasto con quelli adottati ed ai regolamenti edilizi vigenti” , oltre al “rispetto delle norme di sicurezza e di quelle igienico-sanitarie” : appare evidente infatti che le varie tipologie di interventi edilizi, diversi da quelli di nuova edificazione ed incidenti su immobili già realizzati, debbano avere come indefettibile presupposto il carattere non illegittimo di detti immobili. Tale evidenza è rafforzata dalla possibilità di effettuare previa d.i.a., ex art. 22, comma 3 del d.P.R. n. 380 del 2001 , “gli interventi di ristrutturazione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c)” , ordinariamente soggetti a permesso di costruire ed implicanti – come specificato sia nel citato art. 10 che nell’art. 3, comma 1, lettera d) , del medesimo d.P.R. n. 380 del 2001 – “un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente” anche con “aumento di unità immobiliari, modifiche del volume, dei prospetti e delle superfici” , non esclusa la “demolizione e ricostruzione con la stessa volumetria” dell’edificio preesistente. Ove la d.i.a. non fosse chiamata a certificare la legittimità dell’intervento nella dimensione più ampia, riferita anche alla regolarità urbanistico-edilizia dell’immobile preesistente, potrebbero verificarsi situazioni paradossali facilmente intuibili, come in caso di edificazione, in base a d.i.a. (o s.c.i.a.), di un immobile di cui si postulasse la regolarità, in quanto realizzato al posto di un fabbricato abusivo demolito e fedelmente ricostruito, oppure (come nel caso di specie) in presenza della sopraelevazione di un edificio privo di titolo abilitativo, che verrebbe sostanzialmente sanato – con effetti sovrapposti alle disposizioni vigenti in materia (art. 36 d.P.R. n. 380 del 2001) – ove l’Amministrazione ritenesse, in via di autotutela, non applicabili le misure repressive previste per detta sopraelevazione, con effetti che coinvolgerebbero inevitabilmente – di fatto paralizzandole – le misure repressive vincolate, imposte dall’ordinamento per l’immobile sottostante, con lesione dell’interesse pubblico alla doverosa salvaguardia dell’ordine del territorio.

In conclusione, queste nuove forme (basate sulla dichiarazione dell’interessato) di legittimazione all’intervento edilizio si fondano su esigenze di rapidità ed efficacia dell’azione amministrativa. Ma non vi può corrispondere anche un’attenuazione dei controlli e delle misure sanzionatorie, che debbono essere anzi rafforzati grazie al coinvolgimento della responsabilità del professionista incaricato, che non può non fondare la propria valutazione di legittimità degli interventi “da effettuare” anche con riferimento alla verificata regolarità, sotto il profilo urbanistico-edilizio, dell’immobile interessato dai lavori.

Nella situazione in esame, non è contestato che il fabbricato di cui si discute sia stato costruito fra il 1954 e il 1961, né che lo stesso ricadesse nel centro abitato, sulla base del P.R.G. di Firenze approvato con delibera del 29 dicembre 1931, modificata con delibera n. 967 in data 8 maggio 1943. E’ anche pacifico che con la legge 6 agosto 1967, n. 765 (cosiddetta “legge-ponte”) sia stato soltanto esteso a tutto il territorio comunale quell’obbligo di titolo abilitativo, che per i centri urbani risultava introdotto dall’art. 31 della legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 e che, per le principali città-capoluogo, era già in precedenza previsto nei rispettivi regolamenti edilizi. La stessa appellante non contesta del resto l’assenza di un titolo abilitativo, necessario alla data di realizzazione del capannone di cui trattasi e – pur sottolineando l’avvenuta richiesta dell’autorizzazione e la possibilità di rilascio della stessa (condizionata solo all’acquisto della comunione su un muro) – conferma il mancato perfezionamento della licenza edilizia.

In tale situazione, ad avviso del Collegio, nessuna delle argomentazioni difensive prospettate dall’appellante può trovare accoglimento.

Col primo motivo di gravame, in particolare, vengono rappresentate ragioni riferite alla sopravvenuta normativa in materia di segnalazione certificata di inizio attività (s.c.i.a.), alla legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1 ( Norme per il governo del territorio ), approvata il 21 dicembre 2004 e pubblicata sul BURT n. 2 del 12 gennaio 2005 e alle successive modificazioni della stessa, nonché ad eccesso di potere sotto vari profili ed ulteriore violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990: il richiamo alle predette norme (in verità, senza considerazione del principio che impone di valutare la legittimità degli atti amministrativi in base alla normativa vigente alla data della relativa emanazione, o della formazione anche per silenzio assenso) mira comunque a sottolineare una fondamentale distinzione fra gli interventi inibitori, posti in essere dall’Amministrazione nei trenta giorni successivi alla presentazione della d.i.a. (o s.c.i.a.) e – dato il carattere perentorio di tale termine – la possibilità di analoghi interventi successivi solo in base ai principi ed alle garanzie proprie per l’esercizio dell’autotutela (ovvero entro termini congrui e con discrezionale bilanciamento fra l’interesse pubblico al ripristino della legalità violata e l’interesse del privato, che abbia maturato un legittimo affidamento sulla regolarità delle opere edilizie realizzate).

Le argomentazioni in precedenza svolte, tuttavia, recepiscono un’impostazione totalmente diversa, che individua come elemento essenziale del titolo abilitativo tacito – di cui la relazione asseverata costituisce fattore probatorio, a norma del già ricordato art. 23, comma 5, del d.P.R. n. 380 del 2001 – la veridicità e l’attendibilità della relazione stessa, da riferire anche al fondamentale presupposto di non incidenza delle opere da realizzare su un manufatto abusivo, soggetto in ogni tempo (a meno di sanatoria) ai poteri repressivi vincolati dell’Amministrazione. L’incompletezza, o l’erroneità in fatto della citata relazione sul punto essenziale sopra indicato costituisce, ad avviso del Collegio, causa di nullità del titolo abilitativo in questione, a norma dell’art. 21- septies della legge n. 241 del 1990, anche in assenza di dolo del professionista incaricato, come può verificarsi in vicende complesse, come quella attualmente in esame.

Nessuna delle normative, previgenti o successivamente intervenute, può precludere detta fattispecie di nullità, che trae le ragioni da principi basilari in materia di disciplina urbanistica.

Consegue a quanto sopra l’infondatezza delle ulteriori ragioni difensive rappresentate: la seconda, in quanto riferita alle modalità previste per documentare l’esistenza, o meno, del titolo abilitativo degli immobili di remota realizzazione (comunque senza che dette modalità possano coprire l’effettiva mancanza di titolo, ove positivamente accertata come nel caso di specie);
la terza, poiché in parte relativa alla legittimità in sé dell’intervento ristrutturativo ed alla rilevata attivazione dei poteri repressivi del Comune solo per l’intervento dei proprietari limitrofi, mentre – come già illustrato – la conformità delle nuove opere alla disciplina urbanistico-edilizia ha carattere recessivo rispetto al carattere di illecito permanente, riconducibile all’immobile su cui dette opere dovrebbero essere effettuate;
l’azione repressiva dell’Amministrazione comunale su impulso di privati cittadini, inoltre, risulta espressamente prevista dall’art. 27, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001, mentre e la ricostruzione delle vicende, che hanno comportato il mancato perfezionamento della licenza edilizia, a suo tempo richiesta, non risulta sviluppata in termini tali, da escludere l’attuale carattere non autorizzato del manufatto, con le conseguenze in precedenza illustrate;
la quarta censura (illegittimità dei provvedimenti sanzionatori, non adottati entro quarantacinque giorni dall’ordine di sospensione dei lavori) contrasta con il ricordato potere, non soggetto a limiti temporali, di repressione degli abusi edilizi ed è contraddetta da una consolidata giurisprudenza (cfr., fra le tante, Cons. Stato, V, 30 settembre 1983, n. 405);
la quinta censura, riferita ad omessa comunicazione di avvio del procedimento, contrasta con il carattere vincolato del provvedimento, conseguente alla rilevata inefficacia della d.i.a., con applicabilità al riguardo dell’art. 21- octies della legge n. 241 del 1990, che esclude l’annullabilità per vizi di forma o del procedimento, quando il contenuto dell’atto non avrebbe potuto essere diverso;
la sesta ed ultima censura riproduce in parte le argomentazioni della prima e non può che essere ritenuta infondata, per effetto della ritenuta insussistenza nella fattispecie dei presupposti per l’esercizio della potestà di autotutela dell’Amministrazione, in luogo dei provvedimenti repressivi vincolati, che l’Amministrazione stessa è tenuta ad adottare, in presenza di interventi edilizi senza titolo ed in mancanza di iniziative di sanatoria, nel caso di specie non evidenziate.

Per le ragioni esposte, in conclusione, il Collegio ritiene che l’appello debba essere respinto, con assorbimento delle ragioni difensive non esaminate ed in particolare di quelle esposte, nell’appello incidentale, in via dichiaratamente subordinata all’accoglimento dell’appello principale.

Quanto alle spese giudiziali, il Collegio stesso ne ritiene equa la compensazione, tenuto conto delle peculiarità della vicenda sottoposta a giudizio, sotto il profilo della risalenza nel tempo della prima edificazione e della solo successiva scoperta – da parte degli attuali proprietari – del mancato perfezionamento del relativo titolo abilitativo.

Iscriviti per avere accesso a tutti i nostri contenuti, è gratuito!
Hai già un account ? Accedi