Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2022-05-19, n. 202203964

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2022-05-19, n. 202203964
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202203964
Data del deposito : 19 maggio 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 19/05/2022

N. 03964/2022REG.PROV.COLL.

N. 02617/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL P I

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2617 del 2021, proposto da
R R e V R, rappresentati e difesi dall'avvocato P C, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Monterotondo, in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentato e difeso dall'avvocato Michela Reggio D'Aci, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Seconda) n. 08899/2020, resa tra le parti;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Monterotondo;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 gennaio 2022 il Cons. F D L e udito per la parte appellata l’avvocato Michela Reggio D'Aci;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, i Sig.ri R R e V R appellano la sentenza n. 8899 del 2020, con cui il Tar Lazio, Roma, ha dichiarato l’improcedibilità per sopravvenuta carenza di interesse:

- del ricorso introduttivo, proposto (dagli odierni appellanti) avverso l’ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi, assunta dal Comune di Monterotondo in data 31.10.2018;
nonché

- dei motivi aggiunti, proposti avverso l’ordinanza n. 16537 del 9.4.2019, recante il rigetto dell’istanza di sostituzione della sanzione della demolizione con la sanzione pecuniaria ex art. 34, comma 2, DPR n. 380/01.

In particolare, secondo quanto dedotto in appello:

- gli odierni appellanti sono proprietari di un immobile sito nel Comune di Monterotondo, alla via Castelchiodato, edificato dalla precedente proprietaria con licenza edilizia n. 122 dell’11.10.1967, già oggetto di concessione edilizia in sanatoria (n. pratica edilizia n. 122/66), di un successivo permesso di costruire (n. 3707 del 2009) e di una SCIA n. 45873 del 14.11.2014;

- per quanto più di interesse ai fini dell’odierno giudizio, tale immobile consta anche di un portico, realizzato nell’agosto 2010 dai genitori degli odierni appellanti;

- a seguito di un sopralluogo effettuato dall’Ufficio di Vigilanza Edilizia del Comune di Monterotondo (congiuntamente al personale del Corpo di Polizia Locale), l’Amministrazione comunale ha comunicato in data 11.9.2018 l’avvio del procedimento sanzionatorio per la realizzazione “ in assenza del prescritto titolo abilitativo edilizio e della prescritta autorizzazione sismica, di un portico al piano terra con struttura in C.A. delle dimensioni di mt. 11,00x2,75 circa, altezza pari a mt. 4,00 circa con conseguente ampliamento del balcone preesistente al piano primo, sul lato prospetto n. 1 denominato sugli elaborati tecnici a corredo dei titoli edilizi rilasciati, delle dimensioni di mt. 11,00x2,75 circa in luogo di mt. 11,70x0,90 circa previsti nella Concessione Edilizia in Sanatoria n. 1467 del 30/1/2003, rilasciata, ai sensi della Legge n. 47 del 28 febbraio 1985 …”;

- gli odierni ricorrenti hanno presentato controdeduzioni nell’ambito del procedimento sanzionatorio;

- l’Amministrazione ha definito il procedimento, adottando in data 31.10.2018 l’ordinanza di demolizione e ripristino dello stato dei luoghi;

- gli odierni appellanti hanno impugnato il provvedimento demolitorio dinnanzi al Tar Lazio, Roma, deducendone l’illegittimità, in quanto l’Amministrazione, prima di esercitare il potere sanzionatorio di natura ripristinatoria in relazione al portico in esame, avrebbe dovuto verificarne l’impatto sulla stabilità del fabbricato cui l’opera accedeva;
tale verifica, ove espletata, avrebbe manifestato l’impossibilità della demolizione dell’opera abusiva senza pregiudizio per la restante parte del fabbricato, con conseguente necessità di irrogare la sanzione pecuniaria sostitutiva di cui all’art. 34, comma 2, DPR n. 380/01;

- il Tar adito, con ordinanza cautelare n. 1358 del 2019, ha accolto l’istanza di sospensione dell’efficacia del provvedimento demolitorio impugnato;

- in pendenza di giudizio i ricorrenti hanno chiesto al Comune intimato di applicare la sanzione pecuniaria alternativa alla demolizione, ritenendo integrati i presupposti di cui all’art. 34, comma 2, DPR n. 380/01;

- con provvedimento n. 16537 del 2019 il Comune ha rigettato l’istanza de qua , ritenendo che non sussistessero difficoltà nelle operazioni di demolizione dell’opera abusiva, senza pregiudicare la porzione eseguita in conformità;

- i ricorrenti hanno impugnato con motivi aggiunti tale secondo provvedimento, sia per illegittimità derivata, sia per l’inadeguatezza dell’istruttoria e dell’apparato motivazionale alla base del diniego opposto dall’Amministrazione;

- il Tar, con ordinanza n. 5729 del 2019, ha accolto l’istanza di sospensiva, ordinando contestualmente all’Amministrazione comunale di riesaminare la situazione generale del manufatto;

- il Comune ha depositato una nota dell’Ufficio Edilizia Privata e Vigilanza Edilizia n. 2413 del 17.1.2020, indirizzata all’Avvocatura comunale, con cui ipotizzava di ribadire nei medesimi termini la propria posizione, già assunta con il diniego censurato con motivi aggiunti;

- il Tar ha dichiarato l’improcedibilità del ricorso e dei motivi aggiunti per sopravvenuta carenza di interesse, non avendo i ricorrenti impugnato la nota n. 2413/2020.

2. In particolare, alla stregua di quanto emergente dalla sentenza gravata, il Tar ha rilevato che:

- con ordinanza n. 5729 del 10.09.2019 era stato sospeso il provvedimento impugnato con motivi aggiunti, ordinandosi, nel contempo, all’amministrazione di rideterminarsi in ordine all’istanza ex art. 34, comma 2, DPR n. 380/01, previo riesame della situazione generale del manufatto da parte all’amministrazione e ciò “ alla luce di quanto riportato negli scritti difensivi e, in particolare, dei contenuti della perizia a firma dell’Ing. De G ”;

- con la nota prot. n. 2413 del 17.01.2020, il Comune di Monterotondo aveva, a ben vedere, ottemperato a siffatto remand , provvedendo ad una riedizione del potere amministrativo all’esito della quale aveva, ulteriormente, confermato il diniego di sostituzione della sanzione demolitoria con quella pecuniaria, così ancora una volta ribadendo il comando di riduzione in pristino del portico abusivo;

- la circostanza che la nota in questione fosse formalmente indirizzata all’Avvocatura civica e non anche agli odierni ricorrenti non era idonea ad escluderne la valenza provvedimentale, facendosi questione di una nota sottoscritta dal Dirigente dell’Ufficio Edilizia privata, preposto alla gestione amministrativa dell’ente e, quindi, legittimato ad impegnare all’esterno la volontà dell’Amministrazione di appartenenza;

- per l’effetto, si era in presenza di un atto confermativo e non già meramente confermativo del precedente diniego di sostituzione della sanzione demolitoria con quella pecuniaria (prot. n. 16537 del 9/4/2019), giacché adottato a valle di una rinnovata istruttoria, i cui esiti risultavano compendiati in un preciso corredo motivazionale;

- tale nota era, dunque, idonea ad incidere negativamente sulla sfera giuridica dei destinatari “sostanziali” della stessa, ossia gli odierni ricorrenti i quali, avendone preso cognizione mediante il relativo deposito agli atti del giudizio, avrebbero dovuto impugnarla (per come peraltro preannunciato in occasione dell’udienza camerale del 28.01.2020);

- la mancata impugnazione del provvedimento di cui alla nota in parola aveva determinato il definitivo consolidamento degli effetti confermativi – e non già meramente confermativi - delle statuizioni demolitorie di cui all’ordinanza n. 3, prot n. 16431, del 31.10.2018 nonché del provvedimento prot. n. 16537 del 9.04.2018 di rigetto dell’istanza prot. n. 58085 del 27/12/2018, con conseguente improcedibilità tanto del ricorso principale quanto dei motivi aggiunti, per sopravvenuta carenza di interesse.

3. I ricorrenti in primo grado hanno appellato la sentenza pronunciata dal Tar, deducendone l’erroneità con l’articolazione di tre motivi di impugnazione.

3.1 In particolare, con il primo motivo si deduce che con la nota n. 2413/20 cit. il Comune, oltre a richiamare la documentazione presentata e allegata all’istanza ex art. 34, comma 2, DPR n. 380/01, aveva rilevato che le opere abusive erano state realizzate in epoca molto più recente rispetto alla data di costruzione del fabbricato principale e in appoggio al fabbricato preesistente e che, pertanto, le opere non potevano contribuire ad apportare alcuna funzione collaborativa con le strutture portanti del fabbricato preesistente.

Secondo la prospettazione attorea, quanto alla prima considerazione svolta dal Comune, il portico risalirebbe all’agosto 2010, risultando effettivamente successivo al fabbricato principale;
quanto alla seconda considerazione, il Comune non avrebbe espresso una posizione conclusiva del procedimento, limitandosi ad un’interlocuzione interna con l’Avvocatura, senza peraltro dare rilievo alla perizia tecnica allegata all’istanza ex art. 34, comma 2, DPR n. 380/01, di cui lo stesso Tar aveva riconosciuto il pregio probatorio tanto da ordinare al Comune il riesame della situazione generale del manufatto.

Si tratterebbe, comunque, di una nota priva dei caratteri dell’atto conclusivo del procedimento, assumendo mera natura endoprocedimentale, tenuto conto pure:

- della mancata indicazione del termine e dell’autorità dinnanzi al quale sarebbe stato possibile ricorrere, con conseguente emersione di un’omissione apprezzabile per concedere la rimessione in termini;

- dell’intestazione e della formula “ si ritiene ” presente nell’atto, tipica di un atto interlocutorio.

Per l’effetto, si sarebbe stati in presenza di una mera comunicazione interna diretta all’Avvocatura, non comportante alcun arresto procedimentale, come tale non immediatamente impugnabile in giudizio.

3.2 Con il secondo motivo di appello si ribadisce la natura non provvedimentale della nota in parola, carente dell’indicazione del termine di impugnazione e dell’Autorità dinnanzi alla quale poter ricorrere, nonché inserita in un procedimento interlocutorio interno tra l’Ufficio Edilizia Privata e l’Avvocatura comunale, senza indirizzamento ai ricorrenti.

Emergerebbe, dunque, un atto di natura endoprocedimentale, non immediatamente impugnabile in giudizio, attesa la mancanza di un effetto lesivo.

3.3 Con il terzo motivo di appello si chiede, in via subordinata, la concessione della rimessione in termini per errore scusabile, tenuto conto che la nota mancava della necessaria indicazione del termine e dell’Autorità cui era possibile ricorrere;
il che avrebbe dovuto indurre il Tar a concedere la rimessione in termini per provvedere agli adempimenti processuali richiesti.

In particolare, i ricorrenti invocano il comportamento equivoco dell’Amministrazione, che aveva impiegato nell’ambito della nota l’inciso “si ritiene” e non si rivolgeva all’Avvocatura ai fini del deposito in giudizio della posizione assunta.

4. L’Amministrazione comunale si è costituita in giudizio, resistendo al ricorso e svolgendo argomentate controdeduzioni con memoria del 10 maggio 2021.

5. La Sezione ha accolto la domanda cautelare proposta dagli appellanti con ordinanza n. 2548 del 2021.

6. Il Comune intimato ha insistito nelle proprie conclusioni con memoria del 27 dicembre 2021.

7. L’appellante ha depositato in data 25 gennaio 2022 note di udienza chiedendo la decisione della controversia.

8. Nell’udienza pubblica del 27 gennaio 2022 il Collegio ha rilevato d’ufficio una questione di inammissibilità dell’appello per mancata riproposizione delle censure articolate nel ricorso e nei motivi aggiunti di primo grado. La causa è stata, quindi, trattenuta in decisione.

9. L’appello è inammissibile per difetto di interesse al ricorso.

10. Al riguardo, in via preliminare, si osserva che gli atti e i fatti compiuti e occorsi durante l’udienza, cui le parti sono onerate a partecipare, devono ritenersi legalmente conosciuti da tutte le parti, a prescindere dalla effettiva presenza in udienza dei relativi difensori (Consiglio di Stato, sez. IV, 3 ottobre 2017, n. 4587).

10.1 Nell’udienza del 27 gennaio 2022 il Collegio, ai sensi dell’art. 73, comma 3, c.p.a., ha rilevato d’ufficio una questione di inammissibilità del ricorso in appello per la mancata riproposizione delle censure svolte con il ricorso principale e i motivi aggiunti in prime cure: tale questione, in quanto rilevata in udienza, deve ritenersi legalmente conosciuta da tutte le parti processuali, ivi compresa la parte appellante non presente in udienza.

10.2 Non potrebbe diversamente argomentarsi valorizzando l’avvenuto deposito, a cura del ricorrente, di note di udienza sostitutive della discussione.

Difatti, pure richiamando il protocollo d’intesa sullo svolgimento delle udienze e delle camere di consiglio in presenza presso gli uffici giudiziari della giustizia amministrativa alla cessazione dello stato di emergenza, concluso tra il Presidente del Consiglio di Stato, l’Avvocatura dello Stato, il Consiglio Nazionale Forense, il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma e le Associazioni specialistiche degli avvocati amministrativisti, l’idoneità del deposito di note difensive a determinare la sostituzione della discussione è subordinata (ai sensi di quanto previsto nel relativo Protocollo), da un lato, al deposito di una richiesta di passaggio in decisione della causa senza la preventiva discussione presentata da tutte le parti costituite interessate, dall’altro, al rispetto del termine delle ore 12:00 antimeridiane del giorno libero antecedente a quello dell’udienza. Qualora, invece, la richiesta sia depositata soltanto da alcuna delle parti costituite, l’udienza di discussione si tiene e della partecipazione all’udienza stessa si dà atto a verbale e nel provvedimento con l’inserimento di apposita formula.

Per l’effetto, le parti possono nutrire un affidamento sul trattenimento in decisione della causa senza discussione orale - maturato sulla base delle rassicurazioni fornite dall’Amministrazione giudiziaria attraverso la sottoscrizione del relativo Protocollo di Intesa, suscettibile di giustificare il comportamento in conformità assunto dalla parte processuale e utilmente valorizzabile per evitare decadenze processuali altrimenti poste dalla disciplina positiva (al pari di quanto avviene per ogni rassicurazione promanante dall’Amministrazione procedente, idonea a giustificare eventuali errori in cui sia incorsa la parte che sulle stesse abbia prestato affidamento – cfr. Consiglio di Stato Sez. VI, 23/08/2021, n. 5985) - soltanto nelle ipotesi in cui tutte le parti costituite interessate abbiano tempestivamente depositato la relativa istanza di passaggio in decisione.

Nel caso di specie, invece, da un lato, l’Amministrazione comunale, parte interessata alla discussione (assumendo la veste di parte principale, resistente all’avverso ricorso), non soltanto non aveva depositato istanza di passaggio in decisione dell’odierna controversia, ma ha pure presenziato alla relativa udienza;
dall’altro, in ogni caso, il ricorrente aveva depositato un’istanza di passaggio in decisione tardiva, una volta scadute le ore 12:00 del giorno libero antecedente a quello di celebrazione dell’udienza (risultando dal fascicolo informativo il relativo deposito eseguito alle ore 16:26 del 25.1.2022 e, dunque, oltre le ore 12:00 del giorno libero antecedente all’udienza fissata per il giorno 27.1.2022).

Ne deriva che la discussione della controversia avrebbe ben potuto svolgersi senza produrre alcun effetto a sorpresa in danno delle parti, con conseguente riaffermazione del principio per cui ogni atto e fatto occorso durante la discussione, quale il rilievo ufficioso della questione di inammissibilità del ricorso in appello, deve ritenersi legalmente conosciuto da tutte le parti onerate a presenziare.

10.3 Non potrebbe neppure rilevarsi che nella specie risultava necessario sottoporre alle parti la questione di rito in esame con ordinanza ex art. 73, comma 3, c.p.a., al fine di consentire uno svolgimento del contraddittorio in via cartolare (con assegnazione di termini per il deposito di memorie difensive): una tale disciplina trova applicazione nelle ipotesi in cui non vi sia stata la discussione della causa o, comunque, qualora la questione emerga dopo il passaggio in decisione;
in relazione a fattispecie, dunque, in cui non sia stato possibile indicare alle parti la questione rilevata d’ufficio ai fini del contraddittorio orale.

Nel caso in esame, come osservato, si è celebrata l’udienza di discussione e la questione è stata indicata a verbale, al fine di sollecitare un contraddittorio che avrebbe potuto svolgersi, per esigenze di concentrazione, immediatezza ed oralità, soltanto in udienza dinnanzi al Collegio, come prescritto dall’art. 73, comma 3, c.p.a.

10.4 Alla luce di tali considerazioni, considerato che nella specie il Collegio ha rilevato la questione di inammissibilità dell’appello in udienza, nonché che non risultavano impedimenti oggettivi ostativi alla presenza fisica in udienza del difensore dell’appellante, precisata l’irrilevanza del deposito tardivo di note di udienza, peraltro a cura di una soltanto delle parti interessate alla discussione, deve ritenersi che la questione di inammissibilità dell’appello, per effetto del rilievo ufficioso, componga il thema decidendum su cui è chiamato a statuire questo Consiglio.

11 Ciò premesso, si osserva che, secondo quanto statuito dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 11 del 2018, alle cui considerazioni si rinvia, anche ai sensi dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.):

- l’erronea dichiarazione di irricevibilità, inammissibilità o improcedibilità del ricorso di primo grado non costituisce, di per sé, un caso di annullamento con rinvio, in quanto la chiusura in rito del processo, per quanto erronea, non determina, ove la questione pregiudiziale sia stato oggetto di dibattitto processuale, la lesione del diritto di difesa, né tanto meno un caso di nullità della sentenza o di rifiuto di giurisdizione;

- nei casi in cui non si applica l’art. 105 c.p.a., la possibilità per il giudice di appello di pronunciarsi sulla domanda o sulle domande non esaminate in primo grado o erroneamente dichiarate irricevibili, inammissibili o improcedibili, presuppone necessariamente che, ai sensi dell’art. 101, comma 2, tali domande siano oggetto di rituale riproposizione, operando, altrimenti, la presunzione di rinuncia stabilita dallo stesso articolo, con conseguente inammissibilità per difetto di interesse dell’appello proposto senza assolvere all’onere di riproposizione.

L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso di specie conduce alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso in appello per difetto di interesse.

12. Alla stregua di quanto riportato nella descrizione dei fatti di causa, gli odierni ricorrenti sono risultati soccombenti in prime cure, in quanto destinatari di una sentenza di improcedibilità del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti.

Il Tar, infatti, ha ritenuto che:

- in pendenza del giudizio e in ottemperanza di un ordine impartito dal Collegio, l’Amministrazione si fosse rideterminata in relazione al rapporto amministrativo in contestazione, ponendo in essere un nuovo provvedimento di conferma in senso proprio, idoneo a sostituire le pregresse determinazioni – già censurate con ricorso principale e motivi aggiunti - nella regolazione della fattispecie concreta;

- tale provvedimento, in quanto immediatamente lesivo, avrebbe dovuto essere tempestivamente impugnato dai ricorrenti.

- l’omessa impugnazione dell’atto sopravvenuto, posto in essere in ottemperanza del remand cautelare, avrebbe consolidato in sede amministrativa un assetto di interessi incompatibile con la realizzazione della pretesa sostanziale azionata dai ricorrenti, con conseguente integrazione di una causa di improcedibilità del ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

I ricorrenti hanno impugnato la sfavorevole pronuncia resa dal Tar articolando tre specifiche censure, incentrate:

- sull’impossibilità di qualificare la nota n. 2413/20 cit. quale atto lesivo posto in essere nella fase di riedizione del potere, avente natura provvedimentale e rilevanza esterna, produttivo di effetti lesivi in capo ai ricorrenti;

- sulla erronea considerazione della nota de qua quale atto, assunto all’esito di una rinnovata istruttoria, lesivo degli interessi dei ricorrenti, autonomamente impugnabile a pena di improcedibilità del ricorso di primo grado;

- sulla mancata concessione della rimessione in termini per errore scusabile, tenendo conto che la stessa nota era mancante della necessaria indicazione del termine e dell’Autorità cui era possibile ricorrere.

I ricorrenti, dopo avere svolto tali specifiche censure contro la sentenza gravata, enunciando le ragioni per le quali il Tar non avrebbe potuto dichiarare l’improcedibilità del ricorso e dei motivi aggiunti di primo grado, hanno concluso, chiedendo a questo Consiglio di “ annullare e/o riformare la sentenza del TAR Lazio, Rm, Sez. II quater, 30 luglio 2020, n. 8899, nei termini di cui al presente gravame e precisamente nella parte in cui ritiene il ricorso improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse per non aver impugnato la nota depositata nel giudizio di Prime Cure da controparte, prot. n. 2413 del 17.01.20, a firma del Dirigente dell’Edilizia privata dell’Amministrazione avversa, assumendo le decisioni ritenute pertinenti, ed anche statuendo – se del caso – sull’applicazione dell’istituto dell’“errore scusabile”, ex art. 37 c.p.a., donde adottare le indicazioni giustiziali di pertinenza ”.

13. Il ricorso in appello, pur articolato in specifiche censure contro la decisione gravata, non reca la espressa riproposizione dei motivi di ricorso, articolati in primo grado con l’atto introduttivo del giudizio e con i motivi aggiunti, non esaminati nel merito dal Tar;
né, al riguardo, potrebbe valorizzarsi la descrizione dei fatti di causa operata nel ricorso in appello, nella parte dedicata al “ Fatto, impugnativa di Primo Grado ed excursus giudiziale ”, tenuto conto che la riproposizione deve avvenire, ai sensi dell’art. 101, comma 2, c.p.a. espressamente ”.

Occorre, a tali fini, che la parte ricorrente dedichi un’apposita parte del ricorso alla riproposizione delle censure non esaminate in prime cure, in tale modo manifestando la volontà non solo di censurare la sentenza gravata, deducendone l’erroneità, ma anche di ottenere in sede di gravame la decisione sulle domande esperite in prime cure e all’uopo espressamente riproposte in appello.

Non potrebbe, invece, esigersi dal Collegio di appello un’estrapolazione dei motivi di censura dalla sintesi degli eventi processuali appositamente svolta dal ricorrente, recata in una parte dell’atto processuale diversa da quella, espressamente destinata allo svolgimento dei motivi di impugnazione, destinata a delineare il thema decidendum del giudizio.

Come del resto precisato da questo Consiglio, “ l’inammissibilità dei motivi di ricorso non consegue solo al difetto di specificità ma anche alla loro mancata indicazione, "distintamente", in apposita parte dedicata a tale elemento del ricorso (sia esso di primo grado o d'appello), di cui i motivi costituiscono il nucleo essenziale e centrale. Lo scopo della disposizione è di incentivare la redazione di ricorsi dal contenuto chiaro e di porre argine ad una prassi in cui i ricorsi, non di rado, oltre ad essere poco sintetici, non contengono una esatta suddivisione tra 'fatto' e 'motivi', con il conseguente rischio che trovino ingresso i c.d. 'motivi intrusi', ossia i motivi inseriti nelle parti del ricorso dedicate al fatto, che, a loro volta, ingenerano il rischio della pronuncia di sentenze che non esaminino tutti i motivi per la difficoltà di individuarli in modo chiaro e univoco e, di conseguenza, incorrano in un vizio revocatorio (Consiglio di Stato, sez. VI, 4 gennaio 2016, n. 8) ” (Consiglio di Stato, sez. I, 14 dicembre 2020, n. 2037;
sulla necessaria suddivisione fra fatto e motivi, al fine di evitare i c.d. motivi intrusi, cfr. anche Consiglio di Stato, sez. V, 14 aprile 2021, n. 2940).

Deve, dunque, darsi continuità all’indirizzo giurisprudenziale di questo Consiglio (sez. V, 28 agosto 2021, n. 6041 e la giurisprudenza ivi citata), secondo cui:

- l'art. 40 c.p.a., relativamente al "contenuto del ricorso" introduttivo della lite dinanzi al giudice amministrativo, impone che l'atto contenga, a pena di inammissibilità, i "motivi specifici" su cui lo stesso si fonda (art. 40, comma 2, in relazione al comma 1, lettera d);

- i principi di specificità e distinzione - che, pur non imponendo l'uso di formula sacramentali, obbediscono alla logica di una puntuale e rigorosa individuazione della causa petendi , ai fini della perimetrazione della 'domanda' proposta - trovano applicazione anche nel giudizio di appello, nel senso che le domande "assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado" che non siano riproposte "espressamente" dalla parte interessata si intendano rinunziate (art. 101, comma 2, c.p.a.);

- con l'uso dell'avverbio "espressamente", il codice di rito amministrativo ha chiaramente inteso recepire il tradizionale e rigoroso orientamento giurisprudenziale, in base al quale l'onere di riproposizione in appello esige, per il suo rituale assolvimento, che la parte indichi specificamente ciò che intende sia devoluto alla cognizione del giudice di secondo grado, al fine di consentire a quest'ultimo una compiuta conoscenza delle relative questioni ed alle controparti di contraddire consapevolmente sulle stesse;

- per tal via, la riproposizione in appello di una domanda o di una censura non delibata dal giudice di primo grado richiede " la precisa enucleazione contenutistica della stessa, affinché il relativo portato argomentativo sia autonomamente percepibile dagli atti del giudizio, senza che sia necessario compulsare il fascicolo di prime cure " (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 10 ottobre 2019, n. 6908).

14. L’applicazione di tali coordinate ermeneutiche attesta l’inammissibilità dell’appello.

Avuto riguardo al caso di specie, gli appellanti, come osservato, si sono limitati a descrivere gli eventi che hanno dato luogo all’odierno giudizio di appello, provvedendo, nella parte in “ diritto ”, a censurare la sola erronea dichiarazione di improcedibilità del ricorso e dei motivi aggiunti di primo grado, senza riproporre espressamente i motivi di ricorso articolati con l’atto introduttivo del giudizio e con i motivi aggiunti, ai fini di una loro devoluzione alla decisione del Collegio.

Ne deriva che, anche ove le censure impugnatorie, riguardanti la declaratoria di improcedibilità pronunciata dal primo giudice, fossero in ipotesi accolte, i motivi di ricorso non esaminati in primo grado e non espressamente riproposti non potrebbero essere decisi dal Collegio, stante la presunzione di rinuncia posta dall’art. 101, comma 2, c.p.a.

Pertanto, dovendo il giudizio tendere ad una pronuncia che consenta alla parte di conseguire un’utilità concreta ed attuale sul piano sostanziale, stante l’impossibilità di statuire sulla legittimità degli atti impugnati in prime cure in assenza della rituale riproposizione dei motivi di doglianza articolati dinnanzi al Tar, l’accoglimento dell’appello, incentrato sul solo profilo processuale - dell’erronea dichiarazione di improcedibilità pronunciata dal primo giudice - non potrebbe essere di utilità per le parti ricorrenti, non consentendo comunque di rimuovere il vulnus discendente dai provvedimenti amministrativi censurati dinnanzi al Tar.

Di conseguenza, l’appello deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse al ricorso.

15. Soltanto per mera completezza - sebbene la relativa questione non componga (per le ragioni svolte) il thema decidendum dell’odierno giudizio - tenuto conto di quanto riportato dai ricorrenti nella descrizione dei fatti di causa e di quanto descritto nella sentenza gravata con riferimento all’applicazione dell’art. 34 DPR n. 380/01 al caso di specie e alla sua idoneità a determinare l’illegittimità dell’ordine di demolizione e degli atti amministrativi assunti a sua conferma, si osserva come la giurisprudenza di questo Consiglio sia orientata a ritenere ( ex multis , Consiglio di Stato, Sez. VI, 3 gennaio 2022, n. 1) che la possibilità di sostituire la sanzione demolitoria con quella pecuniaria debba essere valutata dall'amministrazione competente nella fase esecutiva del procedimento, successiva ed autonoma rispetto all'ordine di demolizione: fase esecutiva, nella quale le parti possono dedurre in ordine alla situazione di pericolo di stabilità del fabbricato, presupposto per l'applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria, con la conseguenza che tale valutazione non rileva ai fini della legittimità del provvedimento di demolizione.

L’art. 34 DPR n. 380/01, infatti, ha valore eccezionale e derogatorio e non compete all'amministrazione procedente di dover valutare, prima dell'emissione dell'ordine di demolizione dell'abuso, se essa possa essere applicata, piuttosto incombendo sul privato interessato la dimostrazione, in modo rigoroso e nella fase esecutiva, della obiettiva impossibilità di ottemperare all'ordine stesso senza pregiudizio per la parte conforme.

Per l’effetto, soltanto una volta avviata l’esecuzione, alla stregua dei lavori di ripristino imposti dall’ordine demolitorio, potrebbe documentarsi la sussistenza di un rischio per la stabilità dell’intero edificio derivante dalla demolizione della parte difforme;
tali difficoltà, tuttavia, non potrebbero influire sulla legittimità del pregresso ordine di demolizione e dei successivi atti assunti in sua conferma (tesi a riaffermare, con effetto sostitutivo, la volontà dispositiva già manifestata dall’Amministrazione con la determinazione confermata).

Di conseguenza, i ricorrenti non avrebbero potuto (in ogni caso) fondatamente valorizzare la pretesa impossibilità di rimozione delle opere difformi per ottenere l’annullamento dell’ordine di demolizione, né avrebbero potuto con successo contestare la decisione dell’Amministrazione di confermare la demolizione in luogo dell’applicazione della sanzione pecuniaria.

La possibilità di irrogare la sanzione pecuniaria ex art. 34 DPR n. 380/01 non avrebbe, infatti, potuto implicare l’illegittimità dell’ordine demolitorio (o degli atti assunti in sua conferma), ma avrebbe presupposto proprio la validità e l’efficacia della sanzione ripristinatoria, atteso che soltanto durante la sua materiale esecuzione sarebbe stato effettivamente possibile verificare se l’ordine di demolizione (comunque legittimamente assunto) fosse eseguibile - stante la possibilità di procedere al materiale ripristino dello status quo anteriore all’abuso - ovvero se, alla luce delle emergenze proprie della fase esecutiva, fosse necessario fare luogo all’applicazione della sanzione pecuniaria.

16. Alla luce delle considerazioni svolte, l’appello deve essere dichiarato inammissibile per difetto di interesse.

La particolarità della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese del grado di giudizio.

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