TAR Roma, sez. 5B, sentenza 2023-04-14, n. 202306473
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Pubblicato il 14/04/2023
N. 06473/2023 REG.PROV.COLL.
N. 11464/2018 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Quinta Bis)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 11464 del 2018, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato F G, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;
per l'annullamento
del diniego dell’istanza di concessione della cittadinanza italiana (-OMISSIS-);
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero dell'Interno;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza smaltimento del giorno 10 marzo 2023 il dott. Gianluca Verico e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1.- In data 31.12.2010 il ricorrente ha presentato istanza per la concessione della cittadinanza italiana ai sensi dell'art. 9, comma primo, lettera f) della legge 5 febbraio 1992, n. 91.
Il Ministero dell’Interno, previa comunicazione del preavviso di diniego ex art. 10- bis Legge n. 241/1990, con decreto del 12.04.2018 ha respinto la domanda dell’interessato ritenendo che non vi fosse coincidenza tra l’interesse pubblico e quello del richiedente alla concessione della cittadinanza, ponendo a fondamento del rigetto l’esistenza, a carico dell’istante, di un decreto penale di condanna del 18.08.2007 per il reato previsto e punito dall’art. 186, comma 2, del d. lgs. n. 285/1992 (guida in stato di ebbrezza) e rilevando, altresì, nella motivazione del diniego, che la circostanza dedotta - in sede di osservazioni al preavviso di rigetto ex art. 10 bis - della risalenza e dell’avvenuta estinzione del reato non fanno venir meno la valutazione di inopportunità alla concessione della cittadinanza anche tenuto conto del fatto che “ alla luce della recente giurisprudenza amministrativa, i precedenti penali sono suscettibili di valutazioni sul piano amministrativo che prescindono dagli esiti processuali ”.
Avverso il predetto decreto di rigetto ha quindi proposto ricorso l’interessato, deducendone l’illegittimità per i seguenti motivi di diritto:
I. “ Violazione di legge con riferimento all'art. 3, 1° comma della legge n. 241/1990 ”, in quanto il solo ed automatico riferimento al precedente penale a carico del richiedente non sarebbe sufficiente a sostenere, sotto il profilo motivazione, il diniego impugnato;
II. “ Eccesso di potere sotto il profilo della contraddittorietà intrinseca ”, atteso che la contraddittorietà intrinseca, ossia interna al medesimo provvedimento, si rivela nel fatto che, dopo avere affermato di fondare la reiezione sull’(unico) precedente penale costituito dalla guida in stato di ebbrezza, poche righe dopo, il provvedimento afferma, invece, di fondare la reiezione su “ un complesso di situazioni e comportamenti ”, quindi una pluralità di situazioni che non però non è in alcun modo illustrata nel provvedimento;
III. “ Violazione di legge con riferimento all’art. 9, 1° comma lett. f della legge n. 91/1992 ”, tenuto conto che l’unico reato posto a fondamento del diniego è stato dichiarato estinto prima del decreto di rigetto, pertanto il potere discrezionale di cui dispone l’Amministrazione sarebbe stato esercitato in modo irragionevole e sproporzionato;
IV. “ Incompetenza e/o violazione di legge con riferimento all'art. 9 legge n. 91/1992 e con riferimento all'art. 1, 1° comma lett. aa) legge n. 13/1991 previa eventuale disapplicazione e/o invalidazione dell'art. 5, 1° comma D.P.R. n. 572/1993. In alternativa con la disapplicazione e/o invalidazione, il ricorrente impugna, come atto presupposto, l'art. 5, 1° comma del D.P.R. n. 572/1993 per violazione di legge con riferimento all'art. 9 della legge n. 91/1992, all'art. 1, 1° comma lett. aa) della legge n. 13/1991 e con riferimento all'art. 4 delle Disposizioni sulla legge in generale ”.
Lamenta il ricorrente che:
- se la concessione della cittadinanza viene pronunciata con un d.P.R. allora anche il diniego dovrebbe assumere la stessa forma, di modo che non potrebbe essere adottato con un decreto del Ministro dell’Interno che, in quest’ottica, sarebbe quindi incompetente;
- laddove dovesse intendersi competente il Ministro dell’Interno a norma dell’art. 5, 1° comma del D.P.R. n. 572/1993, allora si impugna tale disposizione regolamentare in quanto contraria alla norma primaria;
V. “ Violazione di legge con riferimento all'art. 9 legge n. 91/1992 ”, poiché nella specie non vi è stato il parere del Consiglio di Stato. In particolare, se l’art. 9 dispone che il provvedimento di concessione debba essere preceduto dal parere del Consiglio di Stato, allora anche il diniego dovrebbe essere preceduto dal parere, prospettando in quest’ottica una illegittimità costituzionale per violazione degli artt. 3, 97, 1° comma e 100, 1° comma della Costituzione;
VI. “ Violazione di legge con riferimento all'art. 4, 1° comma legge n. 13/1991 ”, atteso che l’art. 4, 1° comma della legge n. 13/1991 espressamente stabilisce che anche per gli atti di cui all’art. 2 della medesima legge, ossia per quelli per i quali viene meno la necessità del decreto presidenziale, resta fermo il previo parere del Consiglio di Stato.
L’Amministrazione intimata si è costituita in giudizio per resistere al ricorso, depositando memorie e documenti.
In vista della discussione, le parti hanno depositato ulteriori memorie e documenti e all’udienza straordinaria di smaltimento del 10 marzo 2023 la causa è passata in decisione.
2.- Il ricorso è infondato e va, pertanto, respinto.
Per ragioni di ordine logico, occorre innanzitutto esaminare il quarto motivo, a mezzo del quale viene dedotto il vizio di incompetenza, nonché il quinto e il sesto motivo, trattandosi di censure riguardanti la presunta illegittimità della norma primaria e secondaria.
2.1- Deve, anzitutto, ritenersi manifestamente infondato il quarto motivo, considerato che l’art. 5, comma 1, del d.P.R. n. 572/1993 (“ Regolamento di esecuzione della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza ”) dispone espressamente che “ l'autorità competente a respingere con proprio provvedimento motivato l'istanza prodotta ai sensi dell'art. 9 è il Ministro dell'interno ”.
Detta disposizione regolamentare, contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, non può ritenersi affatto contrastante con le disposizioni di legge di rango primario né con la ratio legis ivi sottesa.
Più in particolare, il richiamato art. 9, comma 1, della legge n. 91/1992 dispone che “ la cittadinanza italiana può essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno ”.
La concessione della cittadinanza - dunque l’accoglimento della relativa istanza presentata dal richiedente – è un atto, come meglio si dirà, che attribuisce definitivamente uno status , il che comporta rilevantissime conseguenze per il patrimonio giuridico del richiedente e sui suoi diritti all'interno dello Stato. Tale concessione può peraltro comportare conseguenze altrettanto rilevanti, anche gravemente perniciose per l'interesse nazionale in caso di infelice concessione, ed è proprio per la notevole rilevanza di tale riconoscimento che il legislatore, all’art. 9, ha demandato al Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno, la concessione della cittadinanza (Cons. Stato, sez. I, parere, 16/06/2022, n. 943).
Per converso, il diniego dell’istanza di concessione della cittadinanza non determina alcuna conseguenza definitiva, considerato che l’art. 5, comma 2, del sopracitato d.P.R. n. 572/1993 prevede che “ L'istanza di cui al comma 1 può essere riproposta dopo un anno dall'emanazione del provvedimento stesso ”.
Anche quest’ultimo rilievo, pertanto, concorre a supportare la legittimità del quadro normativo innanzi delineato, che attribuisce al solo Ministero dell’Interno la competenza a respingere le domande di cittadinanza presentate ai sensi del sopracitato art. 9 della legge n. 91/1992.
2.2- Per le medesime considerazioni sopra illustrate deve essere rigettato anche il quinto motivo di diritto, con il quale si deduce l’illegittimità costituzionale del ridetto art. 9 laddove non prevede che anche il diniego della cittadinanza debba essere preceduto dal parere del Consiglio di Stato.
Sul punto, peraltro, assume rilievo assorbente la considerazione che, anche ai fini dell’adozione del decreto del Presidente della Repubblica di concessione della cittadinanza, non deve ritenersi più necessario il previo parere del Consiglio di Stato alla luce dell’art. 17, comma 26, della legge n. 127/1997 (recante “ Misure urgenti per lo snellimento dell'attività amministrativa e dei procedimenti di decisione e di controllo ”, c.d. Legge Bassanini bis), che prevede espressamente che “ E' abrogata ogni diversa disposizione di legge che preveda il parere del Consiglio di Stato in via obbligatoria. Resta fermo il combinato disposto dell'articolo 2, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400, e dell'articolo 33 del testo unico delle leggi sul Consiglio di Stato, approvato con regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054 ”. Infatti, il precedente comma 25 enumera i casi in cui rimane obbligatoria la richiesta di parere al Consiglio di Stato, ma tra tali ipotesi non è contemplata la fattispecie in esame riguardante la concessione della cittadinanza.
2.3- Alla stregua dei rilievi da ultimo esposti consegue l’infondatezza anche del sesto motivo, atteso che il ricorrente evoca l’art. 4, comma 1, della legge n. 13/1991 (recante la “ Determinazione degli atti amministrativi da adottarsi nella forma del decreto del Presidente della Repubblica”) , il quale prevede che “ per gli atti amministrativi di cui all'articolo 2, resta fermo il previo parere del Consiglio di Stato ove richiesto dalle norme vigenti alla data dell'entrata in vigore della presente legge”.
Nella fattispecie in esame, come si è già chiarito, non è richiesto, “ dalle norme vigenti ”, il previo parere del Consiglio di Stato.
Ne consegue che la mancanza di tale parere non può inficiare la legittimità del diniego impugnato per le tutte le ragioni innanzi descritte.
3.- Ciò posto, anche i primi tre motivi di diritto, da esaminarsi congiuntamente perché strettamente connessi, non sono suscettibili di positiva valutazione.
3.1- Il Collegio reputa utile, in funzione dello scrutinio delle doglianze formulate nell’atto introduttivo del giudizio, una premessa di carattere teorico in ordine al potere attribuito all’amministrazione in materia, all’interesse pubblico protetto e alla natura del relativo provvedimento alla luce della giurisprudenza in materia, nonché dei precedenti dalla Sezione (cfr., ex multis , TAR Lazio, Roma, Sez. V bis, n. 2943, 2944, 2945, 3018, 3471, 4280 e 5130 del 2022).
Ai sensi dell'articolo 9 comma 1 lettera f) della legge n. 91 del 1992, la cittadinanza italiana " può " essere concessa allo straniero che risieda legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.
L'utilizzo dell'espressione evidenziata sta ad indicare che la residenza nel territorio per il periodo minimo indicato è solo un presupposto per proporre la domanda a cui segue "una valutazione ampiamente discrezionale sulle ragioni che inducono lo straniero a chiedere la nazionalità italiana e delle sue possibilità di rispettare i doveri che derivano dall'appartenenza alla comunità nazionale" (cfr., tra le tante, Consiglio di Stato sez. III, 23/07/2018 n. 4447).
Il conferimento dello status civitatis , cui è collegata una capacità giuridica speciale, si traduce in un apprezzamento di opportunità sulla base di un complesso di circostanze, atte a dimostrare l'integrazione del richiedente nel tessuto sociale, sotto il profilo delle condizioni lavorative, economiche, familiari e di irreprensibilità della condotta (Consiglio di Stato sez. VI, 9 novembre 2011, n. 5913;n. 52 del 10 gennaio 2011;Tar Lazio, sez. II quater, n. 3547 del 18 aprile 2012).
L'interesse pubblico sotteso al provvedimento di concessione della particolare capacità giuridica, connessa allo status di cittadino, impone che si valutino, anche sotto il profilo indiziario, le prospettive di ottimale inserimento del soggetto interessato nel contesto sociale del Paese ospitante (Tar Lazio, sez. II quater, n. 5565 del 4 giugno 2013), atteso che, lungi dal costituire per il richiedente una sorta di diritto che il Paese deve necessariamente e automaticamente riconoscergli ove riscontri la sussistenza di determinati requisiti e l'assenza di fattori ostativi, rappresenta il frutto di una meticolosa ponderazione di ogni elemento utile al fine di valutare la sussistenza di un concreto interesse pubblico ad accogliere stabilmente all'interno dello Stato comunità un nuovo componente e dell'attitudine dello stesso ad assumersene anche tutti i doveri ed oneri.
In altri termini, il provvedimento di concessione della cittadinanza in esame “ è atto squisitamente discrezionale di ‘alta amministrazione’, condizionato all'esistenza di un interesse pubblico che con lo stesso atto si intende raggiungere e da uno ‘ status illesae dignitatis’ (morale e civile) di colui che lo richiede ” (Consiglio di Stato, sez. III, 07/01/2022, n. 104).
Pertanto, l’anzidetta valutazione discrezionale può essere sindacata in questa sede nei ristretti ambiti del controllo estrinseco e formale;il sindacato del giudice, infatti, non si estende al merito della valutazione compiuta dall'Amministrazione, non potendo dunque spingersi al di là della verifica della ricorrenza di un sufficiente supporto istruttorio, della veridicità dei fatti posti a fondamento della decisione e dell'esistenza di una giustificazione motivazionale che appaia logica, coerente e ragionevole (cfr., ex multis , Consiglio di Stato sez. III, 16 novembre 2020, n. 7036;nonché, TAR Lazio, sez. V bis, n. 2944/2022 su prospettive e limiti dell’applicazione del principio di proporzionalità in tale materia).
Quanto, in particolare, all’onere motivazionale, la giurisprudenza ha più volte precisato che l'ampiezza e la profondità dell'obbligo di motivazione del provvedimento di diniego della concessione della cittadinanza devono correlarsi allo stadio del procedimento penale, alla natura del reato commesso, nonché alla circostanza che esso sia stato commesso a distanza di tempo dal momento in cui l'istanza di concessione della cittadinanza viene proposta. Questi profili incidono anche sul livello di discrezionalità dell'amministrazione per la quale la valutazione della condotta penalmente rilevante deve costituire, a norma di legge, uno degli elementi rilevanti ai fini della decisione sulla concessione della cittadinanza, con la conseguenza che, “ nel caso di sentenza penale e, a fortiori , di sentenza passata in giudicato l'ampiezza e l'intensità dell'obbligo motivazionale relativo al diniego di concessione di cittadinanza può essere minore rispetto a quello che deve, invece, caratterizzare un diniego in presenza di una mera comunicazione di notizia di reato o di una denuncia, della quale il ricorrente potrebbe non essere al corrente ” (Consiglio di Stato sez. I, 04/04/2022, n.713;cfr., in senso conforme, Cons. Stato, Sez. II, 31 maggio 2021, n. 4151).
3.2- Tanto premesso, il Collegio ritiene che, nel caso concreto, il Ministero abbia legittimamente esercitato il potere discrezionale di cui dispone, assolvendo adeguatamente all’onere di motivazione e senza venir meno ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità nel bilanciamento degli interessi, essendo pervenuta ad un giudizio di inaffidabilità e mancata integrazione del richiedente nella comunità nazionale alla luce del precedente penale emerso a suo carico che non appare affetta dai vizi di eccesso di potere denunciati, in quanto volto ad assicurare preminente tutela ai principi fondamentali della convivenza sociale e dell’ordine pubblico.
Invero, il Ministero ha motivato il diniego, seppure sinteticamente, ravvisando l’assenza della coincidenza tra l’interesse pubblico e quello del richiedente alla concessione della cittadinanza italiana in ragione del predetto decreto penale di condanna per guida in stato di ebbrezza del 2007.
Si tratta di un giudizio logicamente condivisibile, anche alla luce delle emergenze sociali che assumono maggiore disvalore e allarme nella nostra comunità nazionale.
Del resto, la guida in stato di ebbrezza commessa in violazione dell’art. 186 del d. lgs. n. 285/1992 (c.d. Codice della strada) effettivamente provoca un forte allarme sociale ed è connotato da un particolare disvalore rispetto ai principi fondamentali della convivenza all’interno dello Stato, anche perché posto a presidio della sicurezza pubblica. Si tratta di un fatto di reato che denota una insensibilità al rispetto delle norme del codice della strada, insensibilità che è stata causa, negli ultimi anni, di un enorme numero di incidenti stradali, tanto da indurre il legislatore ad un generale inasprimento delle pene per i reati stradali con la legge n. 94/2009 (c.d. “Pacchetto sicurezza”) e, più di recente, anche ad introdurre una fattispecie autonoma per la diversa ipotesi dell’omicidio stradale (previsto e punito dall’art. 589-bis c.p. inserito con la Legge n. 41/2016) al fine di aggravare il trattamento sanzionatorio dei conducenti che, al momento del fatto, si trovino in stato di ebbrezza o di alterazione conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti (cfr., di recente, TAR Lazio, sez. V bis, n. 4469/2022).
Sul punto, la Sezione ha recentemente evidenziato (TAR Lazio, sez. V bis, n. 3677/2023) che “ la mancanza addebitata non consiste nel consumo di sostanze (alcooliche o stupefacenti) in sé considerato, quanto, piuttosto, nel fatto di mettersi alla guida in uno stato alterato dall’assunzione di tali sostanze (cd. stato di ebbrezza), mettendo in tal modo a repentaglio l’incolumità altrui (soprattutto delle fasce più deboli della popolazione che finiscono per essere le vittime più frequenti degli incidenti che ne conseguono: bambini, anziani, portatori di handicap etc. come risulta dai recenti fatti di cronaca) ”.
In questa prospettiva, valga anche richiamare il recente parere Cons. St., n. 702/2022 che ha avuto modo di ribadire che “ il reato di guida in stato di ebbrezza, oltre a provocare un forte allarme sociale, pur se non grave con riferimento alla pena edittale, è connotato da un particolare disvalore rispetto ai principi fondamentali della convivenza all'interno dello Stato, essendo posto come tutela anticipata della pubblica incolumità, e pertanto giustifica il diniego della domanda di concessione della cittadinanza per residenza ” (cfr. Cons. St., sez. I, parere n. 653/2022;n. n. 960/2022;n. 1225/2022;1145/2022, 1138/2022).
3.3- Inoltre, per quanto riguarda la dedotta risalenza del fatto di cui al decreto penale di condanna del 2007, occorre osservare che il reato è stato commesso in quell’arco temporale (il decennio anteriore all’istanza nonché il lasso temporale successivo fino all’adozione del provvedimento finale) che costituisce il “periodo di osservazione” in cui devono essere maturati i requisiti per la cittadinanza, ai sensi dell'art. 9 legge n. 91 del 1992, inclusi quelli dell’irreprensibilità della condotta, salve le fattispecie di particolare gravità che possono essere apprezzate nel loro particolare valore “sintomatico” (violenza e maltrattamenti) anche oltre il decennio (Consiglio di Stato sez. VI - 10/01/2011, n. 52;TAR Lazio, sez. II quater, n. 10678/13) e persino ove sia intervenuta la riabilitazione (TAR Lazio, sez. II quater, 1833/2015, con riferimento al reato di resistenza a pubblico ufficiale;vedi anche TAR Lazio, sez. I ter, n. 5917/21;Consiglio di Stato sez. III n. 7122/2019).
3.4- Valga infine aggiungere che, contrariamente a quanto eccepito dal ricorrente, non pare assumere alcuna portata dirimente l’intervenuta estinzione del reato prima del diniego di concessione della cittadinanza, in quanto tale circostanza, dedotta in sede di osservazioni al preavviso di diniego ex art. 10 bis , è stata debitamente tenuta in considerazione dall’Amministrazione - come emerge espressamente dalla motivazione del gravato provvedimento - che ha ciò nondimeno ritenuto di valutare sfavorevolmente il “fatto storico” nell’ambito del giudizio prognostico sull’affidabilità e sulla compiuta integrazione del richiedente nella comunità nazionale.
Del resto, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale, il comportamento dell'istante, nonostante l’estinzione del reato, rimane valutabile come fatto storico e, pertanto, può essere, come accaduto nel caso in esame, ragionevolmente considerato come indicativo di una personalità non incline al rispetto delle norme penali e delle regole di civile convivenza, e tale da giustificare il diniego di riconoscimento della cittadinanza italiana.
Al riguardo, infatti, si è condivisibilmente precisato che, ai fini della concessione della cittadinanza, non si deve tenere conto solamente dei fatti penalmente rilevanti, ma si deve valutare anche l'area della prevenzione dei reati e di qualsivoglia situazione di astratta pericolosità sociale, con accurati apprezzamenti sulla personalità e sulla condotta di vita del naturalizzando, al fine di valutare quale sia la probabilità che questi possa arrecare in futuro pregiudizio alla sicurezza dello Stato, anche considerato che “ le valutazioni volte all'accertamento di una responsabilità penale si pongono su di un piano assolutamente differente ed autonomo rispetto alla valutazione del medesimo fatto ai fini dell'adozione di un provvedimento amministrativo, sicché può darsi la possibilità che le risultanze fattuali oggetto della vicenda penale vengano valutate negativamente, sul piano amministrativo, anche a prescindere dagli esiti del parallelo iter giudiziale ” (cfr., da ultimo, Consiglio di Stato sez. III, 14/02/2022, n.1057).
D’altronde, tale conclusione rappresenta il precipitato applicativo del più generale principio della c.d. pluriqualificazione dei fatti giuridici, invocato dalla giurisprudenza amministrativa anche in relazione alla circostanza della riabilitazione pronunciata dal giudice penale. Difatti, mentre sul piano penale gli effetti della riabilitazione sono chiaramente diretti ad agevolare il reinserimento nella società del reo, in quanto eliminano le conseguenze penali residue e fanno riacquistare all’interessato la capacità giuridica persa in seguito alla condanna, viceversa, sul piano amministrativo, la valutazione che l’Amministrazione è chiamata a compiere per concedere lo status di cittadino ha riguardo principalmente all’interesse pubblico alla tutela dell’ordinamento.
Ne consegue che, nel riconoscere la cittadinanza ai sensi dell'art. 9 della l. n. 91 del 1992, pur se intervenuta la riabilitazione, l’Amministrazione è chiamata, comunque, a prendere in considerazione il “fatto storico” per il particolare valore sintomatico che può assumere in quel procedimento (Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1788/2009, n. 4862/2010;sez. III, n. 7022/2019;T.A.R. Lazio sez. II quater, n. 10590/12;10678/2013).
In altre parole, nell’esaminare la domanda di cittadinanza di chi ha commesso un reato, l’Amministrazione è chiamata ad effettuare la delicata valutazione discrezionale in ordine alla effettiva e complessiva integrazione dello straniero nella società e l’interesse del richiedente deve essere comparato con l’interesse pubblico, al pari di quando deve decidere se revocare la cittadinanza già concessa, dovendo tener conto dell’interesse della collettività sotto il profilo più generale della tutela dell’ordinamento, ovvero con lo scopo di “ proteggere il particolare rapporto di solidarietà e di lealtà tra esso e i propri cittadini nonché la reciprocità di diritti e di doveri, che stanno alla base del vincolo di cittadinanza” (Corte di giustizia UE, causa Rmann, punto 51).
Si tratta di principi comuni a diversi Stati, ai quali spetta in via esclusiva la competenza di determinare le condizioni e le modalità per l’acquisto della cittadinanza (in particolare per naturalizzazione), secondo un principio cardinale del diritto internazionale pubblico consuetudinario, richiamato anche dagli organismi internazionali e comunitari ove, incidentalmente, investono la materia (come nel caso richiamato, in cui la decisione di uno Stato Membro di revocare la cittadinanza concessa ad un cittadino di altro Stato incideva, per conseguenza, sulla cittadinanza comunitaria che da quella dipendeva).
Il richiamo al principio di proporzionalità in quell’occasione è stato determinato dal fatto che il soggetto veniva privato di uno status già acquisito e esposto alle conseguenze sfavorevoli (espulsione) della perdita di una situazione tendenzialmente destinata a durare nel tempo, mentre l’applicazione del medesimo principio risulta meno “giustificata” nel caso in cui invece si tratti di concedere la cittadinanza, in cui il richiedente ha una mera aspettativa all’acquisizione di tale status . Orbene, in tale prospettiva, nella ponderazione dei contrapposti interessi in gioco nel procedimento di naturalizzazione, occorre considerare che il diniego della cittadinanza non preclude all’interessato di ripresentare l’istanza nel futuro (già dopo un anno dal primo rifiuto), per cui le conseguenze discendenti dal provvedimento negativo sono solo temporanee, e, peraltro, non comportano alcuna “interferenza nella vita privata e familiare del richiedente”, dato che l’interessato può comunque continuare a rimanere in Italia e condurre la propria esistenza alle medesime condizioni. Nell’operare il bilanciamento degli interessi pubblici e privati in gioco, va considerato che il sacrificio dell'interesse del privato consiste nel non conseguire immediatamente il pieno riconoscimento di tutti i diritti, consistenti nella sostanza nei diritti politici che consentono di partecipare all’autodeterminazione della vita del Paese mediante l’esercizio del diritto di elettorato (oltre che nel diritto di incolato e limitazione dell’estradizione), essendo il conseguimento di tale posizione differito al momento in cui si possono ritenere maturati in capo ad esso tutti i requisiti richiesti. Mentre, nel caso di accoglimento dell’istanza, le conseguenze sono tendenzialmente irreversibili ed interessano l’intera collettività in quanto il soggetto viene ad essere ammesso stabilmente nella comunità nazionale in via definitiva, con diritto di partecipazione alla determinazione delle scelte politiche. In tale prospettiva non può ritenersi sproporzionato, ove si considerino le gravità delle conseguenze per la generalità dei consociati, il provvedimento che nega la cittadinanza, in via di precauzione adeguatamente avanzata, a quei soggetti di cui si dubita che possano assicurare il rispetto dei valori fondamentali, quali la vita e la incolumità delle persone, la fiducia ed il riguardo per le Istituzioni dello Stato di cui entra a far parte, ed altri beni riconosciuti e tutelati dalla Costituzione (TAR Lazio, sez. V bis, n. 2944/2022).
Pertanto, si richiede che l’istante sia non solo materialmente in condizioni di effettivo inserimento nella società italiana, ma che sul piano dei valori mostri, indefettibilmente, una convinta adesione ai valori fondamentali dell'ordinamento di cui egli chiede di far parte con il riconoscimento della cittadinanza.
Da quanto esposto consegue che, nel caso di specie, l’intervenuta estinzione del reato non elide la rilevanza sintomatica del fatto storico in ragione dei rilievi innanzi descritti, residuando in capo alla P.A. ogni valutazione discrezionale in merito alla richiesta concessione della cittadinanza.
4.- In ultima analisi, considerato che il provvedimento di concessione della cittadinanza rappresenta un atto eminentemente discrezionale di "alta amministrazione” suscettibile di essere sindacato solo nei ristretti ambiti del controllo di legittimità – escluso ogni sindacato sostitutivo - ritiene il Collegio che la valutazione dell’Amministrazione sia esente da vizi di illogicità o irragionevolezza.
La tesi dell'istante non tiene conto dell'amplissima discrezionalità, informata anche a criteri di precauzione di profilo oggettivo (Cons. St., sez. III, 11 maggio 2016, n. 1874) e di cautela (Cons. St., sez. III, 29 marzo 2019, n. 2102;6 settembre 2018, n. 5262), che - come già osservato - caratterizza il provvedimento di concessione della cittadinanza italiana, in quanto atto che attribuisce definitivamente uno status che comporta rilevanti conseguenze per il patrimonio giuridico del richiedente e sui suoi diritti all'interno dello Stato;tale concessione può però comportare conseguenze altrettanto rilevanti, anche gravemente perniciose per l'interesse nazionale in caso di infelice concessione (T.A.R. Lazio sez. I - Roma, 05/05/2021, n. 5261). Proprio per la rilevanza di tale riconoscimento, l'art. 9, l. n. 91 del 1992 demanda al Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell'interno, la concessione della cittadinanza.
Peraltro, considerato che, nel caso di accoglimento dell’istanza, le conseguenze sono tendenzialmente irreversibili ed interessano l’intera collettività in quanto il soggetto viene ad essere ammesso stabilmente nella comunità nazionale in via definitiva (con diritto di partecipazione alla determinazione delle scelte politiche), non appare sproporzionato il provvedimento che nega la cittadinanza, in via di precauzione adeguatamente avanzata, a quei soggetti di cui si dubita che possano assicurare il rispetto dei valori fondamentali, quali la vita e la incolumità delle persone, la fiducia ed il riguardo per le Istituzioni dello Stato di cui entra a far parte, ed altri beni riconosciuti e tutelati dalla Costituzione.
Nel caso di specie, il diniego risulta fondato essenzialmente sul precedente penale sopra indicato che appare idoneo a sorreggere adeguatamente il giudizio di inaffidabilità e non compiuta integrazione del ricorrente nel tessuto sociale, con conseguente esito negativo sulla concessione della cittadinanza.
Del resto, la valutazione del Ministero dell'Interno è avvenuta sulla base di accertamenti il cui esito, in termini di prognosi di idoneità allo stabile inserimento nella comunità nazionale con il conferimento della cittadinanza, rientra negli apprezzamenti di merito non sindacabili dinanzi al giudice amministrativo, se non per evidente travisamento dei fatti ed illogicità, vizi che non risultano sussistere nel caso di specie.
Né la natura di alta amministrazione del provvedimento gravato consente a questo giudice di sostituire valutazioni di merito, riservate all'Autorità amministrativa preposta, con altre, attesi i vincoli al sindacato giurisdizionale in questa materia.
Si rende opportuno osservare, inoltre, che la difesa della parte ricorrente non contesta la sussistenza dei fatti sopra indicati, ma si limita ad invocare la sussistenza della residenza in Italia da oltre un decennio e l’asserito inserimento nel contesto sociale, ritenendo che tali circostanze siano sufficienti al rilascio della cittadinanza; tali argomentazioni difensive, tuttavia, non appaiono idonee a scalfire il giudizio svolto dall’Amministrazione.
L’istante, infatti, non offre elementi che possano integrare meriti speciali, atteso che lo stabile inserimento, anche nella realtà economica, se, per un verso, rappresenta una condizione del tutto ordinaria, in quanto costituisce solo il presupposto per conservare il titolo di soggiorno, per altro verso rappresenta soltanto il prerequisito per la concessione della cittadinanza alla stregua di quanto sopra osservato.
Difatti, il conferimento della cittadinanza italiana per naturalizzazione presuppone l'accertamento di un interesse pubblico da valutarsi anche in relazione ai fini propri della società nazionale e non già sul semplice riferimento dell'interesse privato di chi si risolve a domandare la cittadinanza per il soddisfacimento di personali esigenze.
Il riconoscimento della cittadinanza, per sua natura irrevocabile (salvi i casi di revoca normativamente previsti), si fonda su determinazioni che rappresentano un'esplicazione del potere sovrano dello Stato di ampliare il numero dei propri cittadini (Cons. Stato, Sez. III, 7 gennaio 2022, n. 104) e, pertanto, presuppone che " nessun dubbio, nessuna ombra di inaffidabilità del richiedente sussista, anche con valutazione prognostica per il futuro, circa la piena adesione ai valori costituzionali su cui Repubblica Italiana si fonda " (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 14 febbraio 2017, n. 657).
D’altronde, la particolare cautela con cui l'Amministrazione valuta la rilevanza di condotte antigiuridiche è compensata dalla facoltà di reiterazione dell’istanza che l’ordinamento riconosce al richiedente una volta mutate le condizioni oggettive sottese all'esito negativo originario.
In conclusione, il provvedimento appare adeguatamente motivato e scevro dalle dedotte censure, pertanto il ricorso proposto deve essere respinto.
5.- Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.