TAR Roma, sez. I, sentenza 2020-09-24, n. 202009762

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. I, sentenza 2020-09-24, n. 202009762
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 202009762
Data del deposito : 24 settembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/09/2020

N. 09762/2020 REG.PROV.COLL.

N. 01727/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1727 del 2016, proposto da
Enel Energia S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato V M, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Emilio de' Cavalieri, 7;

contro

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Autorità per l'Energia Elettrica il Gas e il Sistema idrico e Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui domiciliano “ex lege” in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti

Codacons, Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Carlo Rienzi e Gino Giuliano, con domicilio eletto presso l’Ufficio Legale Nazionale del Codacons in Roma, v.le Mazzini, 73;
Associazione Codici Onlus - Centro per i Diritti del Cittadino, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ivano Giacomelli e Carmine Laurenzano, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l’Ufficio Legale Codici, in Roma, viale G. Belluzzo, 1;
Federconsumatori, Tutela Noi Consumatori, Movimento Difesa del Cittadino, non costituiti in giudizio;

per l'annullamento

- della decisione n. 25697 del 4 novembre 2015, assunta all'esito del procedimento PS 9769 e notificata a mezzo PEC in data 2 dicembre 2015, con cui l’Autorità ha condannato Enel Energia S.p.A. al pagamento della sanzione amministrativa pecuniaria complessiva di € 2.150.000,00 (due milioni e centocinquantamila) ai sensi dell'art 27, comma 9, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206, per la pretesa violazione degli artt. 20, comma 2;
24;
25;
26, comma 1, lett. f);
49, comma 1, lett. h) e 51, comma 6, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206;

nonché di ogni altro atto connesso, consequenziale e/o presupposto, ed in particolare, ove occorre possa:

- della Nota AGCM prot. n. 49714 del 31 luglio 2015, recante “Comunicazione del termine di conclusione della fase istruttoria”;

- del parere endoprocedimentale dell’AEEGSI reso in data 30 ottobre 2015 ex art. 27, comma 1 bis, del d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 e avente ad oggetto “Richieste di parere ai sensi dell’articolo 27, comma 1 bis, del decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206 e successive modificazioni (rif. PS/9406;
PS/9578;
PS/9769;
PS/9815;
PS/9834;
PS/9999;
PS/10000)”.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, dell’Autorità per L'Energia Elettrica il Gas e il Sistema idrico, dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, del Codacons e dell’Associazione Codici Onlus - Centro per i Diritti del Cittadino, con la relativa documentazione;

Vista l’ordinanza collegiale di questa Sezione n. 2551/2017 del 17.2.2017;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visti l’art. 84 d. l. n. 18/2020, conv. in l. n. 27/2020, e l’art. 4 d.l. n. 28/2020, conv. in l. n. 70/2020;

Relatore nell'udienza del giorno 20 luglio 2020, tenutasi in collegamento da remoto in videoconferenza, il dott. I C, come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il Collegio rileva che si è già pronunciato sull’attuale contenzioso con ordinanza collegiale n. 2551/2017, la cui parte “in fatto” si riporta.

“1. L’oggetto della controversia e i fatti rilevanti.

1.1. Con provvedimento adottato nell’adunanza del 4 novembre 2015, l’Autorità Garante della Concorrenze e del Mercato (AGCM) deliberava che: a) due pratiche commerciali, come ivi descritte e poste in essere dalla Enel Energia s.p.a. (Impresa), erano ritenute “scorrette”, ai sensi degli artt. 20, comma 2, 24, 25, lett. d) e 26, lett. f) del d.lgs. 6.9.2005, n. 206 (Codice del Consumo), b) una condotta, sempre posta in essere dalla medesima società, aveva violato gli artt. 49, comma 1, lett. h), e 51, comma 6, del medesimo Codice del Consumo. Ne era quindi imposta “inibitoria” ed era irrogata la sanzione pecuniaria amministrativa di euro 2.150.000,00 totali.

In particolare, le due “pratiche” commerciali “scorrette” erano consistite nell’attivazione di forniture non richieste di energia elettrica e di gas naturale finalizzate all’acquisizione di clientela domestica e di “micro-imprese” sul “mercato libero” mentre la “condotta” sanzionata corrispondeva all’aver concluso - dopo la data del 13.6.2014, di entrata in vigore del d.lgs. 21.2.2014, n. 21, concernente “Attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei consumatori, recante modifica delle direttive 93/13CEE e 1999/44/CEE e che abroga le direttive 85/577/CEE e 97/7/CE” – contratti a distanza e fuori dai locali commerciali, in violazione del suddetto decreto legislativo.

1.2. L’AGCM, nel provvedimento, descriveva le fasi di avvio del procedimento (originato da numerose segnalazioni) e di acquisizione di documentazione, riportava le argomentazioni difensive dell’impresa, di cui era stata consentita la partecipazione procedimentale, illustrava i pareri dell’Autorità di settore (Autorità per l’Energia Elettrica, il Gas e il Sistema Idrico – AEEGSI) nonché dell’Autorità per le garanzie nelle Comunicazioni – AgCom.

Le valutazioni conclusive dell’AGCM, in sintesi, riportavano quanto segue.

1.3. In premessa, l’Autorità evidenziava che l’Impresa era una società operante nella vendita al dettaglio di energia elettrica e gas naturale a clienti domestici e non domestici di piccole dimensioni. Era quindi descritta l’evoluzione del mercato legato alla liberalizzazione delle suddette forniture (c.d. “mercato libero”), quale “mass market”, in cui i consumatori agiscono in condizioni di “razionalità limitata” e subiscono una forte inerzia dovuta a elevati costi di ricerca e di cambiamento percepiti e ove sono presenti un elevato livello di disinformazione e uno scarso livello di comprensione delle offerte, anche tra coloro i quali hanno abbandonato il regime di “tutela”. Tali ragioni configuravano il mercato di riferimento come “mercato push”, ove i nuovi potenziali clienti devono essere contattati singolarmente e convinti mediante mezzi di comunicazione particolari, quali vendite a domicilio o “teleselling” che, per la loro peculiarità, sono maggiormente idonei a vincolare consumatori non pienamente consapevoli o anche indotti in errore riguardo all’effettivo momento di instaurazione di un vincolo contrattuale.

1.4. Nel descrivere le condotte dell’Impresa – prese in considerazione distintamente perché non era riscontrato un carattere necessariamente e indissolubilmente congiunto dell’offerta di energia e/o gas naturale – l’AGCM rilevava che la violazione degli artt. 20, 24, 25, lett. d) e 26, lett. f) del Codice del Consumo era legata a profili di aggressività, concernenti le modalità della condotta mediante acquisizione di contratti di fornitura senza consenso effettivo del consumatore (assenza del medesimo o di manifestazione di volontà ovvero falsità della sottoscrizione) ovvero con comunicazione di informazioni ingannevoli e/o con omissione di informazioni rilevanti, al fine di ottenere un’adesione non consapevole alla proposta di contratto, e con imposizione di ostacoli all’esercizio del diritto di recesso nonché richiesta di pagamento di importi non dovuti. Le risultanze istruttorie, poi, evidenziavano anche il mancato rispetto dei requisiti di forma previsti dagli artt. 49, lett. h), 51, commi 6 e 7, 52 e 54 del Codice del Consumo, come modificato dal d.lgs. n. 21/2014, di recepimento della Direttiva 2011/83/UE (c.d. “consumer rights”).

1.5. Con ricorso a questo Tribunale, ritualmente notificato e depositato, l’Impresa chiedeva l’annullamento del provvedimento in questione, deducendo nove motivi di ricorso.

Con il primo, l’Impresa contestava il potere sanzionatorio esercitato dall’AGCM nella fattispecie, rilevandone la sua incompetenza, in quanto, anche in ragione delle disposizioni di origine comunitarie di cui alle direttive di settore 2009/72/CE e 2009/73/CE, la competenza a intervenire per sanzionare eventuali pratiche scorrette era esclusiva dell’AEEGSI e tale conclusione, avallata dalle disposizioni di cui al d.lgs. 1.6.2011, n. 94 in ordine alle competenze attribuite in via generale a detta Autorità di settore, non era concordante con l’interpretazione invece assunta dall’AGCM in virtù dell’entrata in vigore dell’art. 27, comma 1 bis, del Codice del Consumo (ai sensi del d.lgs. n. 21/2014), che regolava i rapporti di intervento tra diverse Autorità, e secondo la posizione assunta dalla Commissione europea in sede di avvio di avvio della procedura di infrazione n. 2013/2169 tuttora aperta.

Con il secondo motivo, in subordine, l’Impresa contestava l’incompetenza dell’AGCM ad intervenire perlomeno in relazione ai fatti avvenuti anteriormente al 13 giugno 2013, data di entrata in vigore del d.lgs. n. 21/2014 e quindi del richiamato art. 27, comma 1 bis, del Codice del Consumo.

Con il terzo motivo, era contestata nuovamente la competenza dell’AGCM a declinare la “diligenza professionale” concretamente esigibile dagli operatori economici, laddove fosse presente – come nel caso di specie – una puntuale ed esaustiva disciplina dettata dall’Autorità di settore.

Con il quarto motivo, l’Impresa censurava nel merito le conclusioni dell’AGCM in relazione alle modalità di vendita adottate nel primo contatto con il cliente, sia tramite “agenzia” terza sia nel c.d. “teleselling”, che erano poste sempre sotto stretto controllo, tanto in una fase “ex ante” quanto in una fase “ex post” (che erano compiutamente descritte), rispetto alla conclusione del contratto, escludendo così elementi oggettivi, di scorrettezza, e, soggettivi, di colpevolezza dell’Impresa.

Con il quinto motivo era evidenziato che l’Impresa aveva comunque implementato nel tempo le misure per innalzare la tutela degli utenti, secondo quanto approvato in precedenza dalla stessa AGCM, con consequenziale violazione del principio del legittimo affidamento e della certezza del diritto, e che comunque aveva dato luogo a un adeguato sistema di monitoraggio.

Con il sesto motivo, l’Impresa ribadiva la piena competenza, regolatoria e sanzionatoria, dell’AEEGSI in materia di reclami su forniture non richieste, derivante dall’applicazione delle direttive nn. 2009/72/CE e 2009/73/CE, in precedenza richiamate. Inoltre, per quanto riguardava la modalità di vendita tramite “teleselling” e la contestazione sulla concessione di un termine troppo breve per il ripensamento, l’Impresa evidenziava che tale contestazione era meramente ipotetica e non era stato richiamato nemmeno un caso concreto in cui ciò si era verificato.

Con il settimo motivo era contestata l’errata lettura dell’art. 12 della delibera AEEGSI n. 153/12 e dell’art. 66-quinquies del Codice del Consumo, che l’AGCM aveva proposto nel provvedimento impugnato per applicare l’art. 25, comma 1, lett. d) e l’art. 26, comma 1, lett. f), del medesimo Codice, ponendosi i rimedi di cui ai richiamati artt. 12 e 66-quinquies come alternativi, in virtù del principio di specialità previsto nell’art. 46, comma 2, del suddetto Codice. Ne emergeva, quindi, la violazione delle norme richiamate, del principio di certezza del diritto e, in subordine, quella dell’art. 3 l. n. 689/81, perché era stata sanzionata condotta non colpevole in quanto conforme ai canoni di diligenza imposti dalla normativa di settore.

L’ottavo motivo era volto a contestare l’estensione oggettiva del procedimento, in relazione alla asserita violazione di una norma entrata in vigore solo dal 13 giugno 2014, la cui contestazione non era stata esplicitamente comunicata in modo tale da consentire una piena difesa sul punto.

Con il nono motivo di ricorso, l’Impresa infine contestava la misura della sanzione, in relazione alla durata e alla gravità, come valutate dall’AGCM, nonché all’intensità dell’elemento soggettivo e al peso percentuale delle attenuanti, come riconosciuto.

1.6 Si costituivano in giudizio le tre Autorità nonché le due associazioni di consumatori indicate in epigrafe, illustrando in distinte memorie le proprie tesi orientate alla reiezione del ricorso.”

2. La rimessione alla Corte di Giustizia.

2.1 All’esito della pubblica udienza del 25 gennaio 2017, questa Sezione pronunciava l’ordinanza collegiale sopra richiamata, con la quale rimetteva alla Corte di Giustizia UE, ai sensi dell’art. 267 TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali:

“1) Se la “ratio” della direttiva “generale” n. 2005/29/CE, intesa quale “rete di sicurezza” per la tutela dei consumatori, nonché, nello specifico, il “Considerando n. 10”, l’art. 3, paragrafo 4,e l’art. 5, paragrafo 3, della medesima direttiva ostino a una norma nazionale che riconduca la valutazione del rispetto degli obblighi specifici previsti dalle direttive settoriali n. 2009/72/CE e n. 2009/73/CE a tutela dell’utenza nell’ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette, escludendo, per l’effetto, l’intervento dell’autorità di settore - nel caso di specie AEEGSI - a reprimere una violazione della direttiva settoriale in ogni ipotesi che sia suscettibile di integrare altresì gli estremi di una pratica commerciale scorretta o sleale;

2) Se il principio di specialità di cui all’art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE deve essere inteso quale principio regolatore dei rapporti tra ordinamenti (ordinamento generale e ordinamenti di settore), ovvero dei rapporti tra norme (norme generali e norme speciali) ovvero, ancora, dei rapporti tra autorità indipendenti preposte alla regolazione e vigilanza dei rispettivi settori;

3) Se la nozione di “contrasto” di cui all’art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE possa ritenersi integrata solo in caso di radicale antinomia tra le disposizioni della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e le altre norme di derivazione europea che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali, ovvero se sia sufficiente che le norme in questione dettino una disciplina difforme dalla normativa sulle pratiche commerciali scorrette, tale da determinare un concorso di norme in relazione a una stessa fattispecie concreta;

4) Se la nozione di norme comunitarie di cui all’art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE abbia riguardo alle sole disposizioni contenute nei regolamenti e nelle direttive europee, nonché alle norme di diretta trasposizione delle stesse, ovvero se includa anche le disposizioni legislative regolamentari attuative di principi di diritto europeo;

5) Se il principio di specialità, sancito al “Considerando 10” e all’art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE e gli artt. 37 della direttiva 2009/72/CE e 41 della direttiva 2009/73/CE ostino a una interpretazione delle corrispondenti norme di trasposizione nazionale per cui si ritenga che, ogni qualvolta si verifichi in un settore regolamentato, contenente una disciplina “consumeristica” settoriale con attribuzione di poteri regolatori e sanzionatori all’autorità del settore, una condotta riconducibile alla nozione di “pratica aggressiva”, ai sensi degli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29/CE, o “in ogni caso aggressiva” ai sensi dell’Allegato I della direttiva 2005/29/CE, debba sempre trovare applicazione la normativa generale sulle pratiche scorrette, e ciò anche qualora esista una normativa settoriale, adottata a tutela dei (medesimi) consumatori e fondata su previsioni di diritto dell’Unione, che regoli in modo compiuto le medesime “pratiche aggressive” e “in ogni caso aggressive” o, comunque, le medesime “pratiche scorrette/sleali”.

2.2 La Corte di Giustizia, con ordinanza della X Sezione del 14 maggio 2019 si pronunciava su quattro giudizi riuniti e relativi a cause promosse da Acea Energia SpA (C-406/17), Green Network SpA (C-407/17), Enel Energia SpA (C-408/17).

2.3 In particolare la Corte affermava che:

“… l’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, nonché l’articolo 3, paragrafo 2, della direttiva

2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, sui diritti dei consumatori, recante modifica della direttiva 93/13/CEE del Consiglio e della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 85/577/CEE del Consiglio e la direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale in forza della quale determinate condotte, come quelle controverse nei procedimenti principali, consistenti nella stipulazione di contratti di fornitura non richiesti dai consumatori o di contratti a distanza e di contratti negoziati fuori dei locali commerciali in violazione dei diritti dei consumatori, devono essere valutate alla luce delle rispettive disposizioni delle direttive 2005/29 e 2011/83, con la conseguenza che, conformemente a tale normativa nazionale, l’autorità di regolamentazione di settore, ai sensi della direttiva 2009/72/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, relativa a norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica e che abroga la direttiva 2003/54/CE, e della direttiva 2009/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, relativa a norme comuni per il mercato interno del gas naturale e che abroga la direttiva 2003/55/CE, non è competente a sanzionare siffatte condotte ”.

2.4. Il presente giudizio era quindi ritualmente riassunto avanti a questo Tribunale e le Autorità costituite e parte ricorrente depositavano memorie illustrative (la seconda anche “di replica”), insistendo nelle rispettive tesi;
all’udienza del 20 luglio 2020, la causa era trattenuta nuovamente in decisione con le modalità “da remoto” illustrate nel relativo verbale.

DIRITTO

Esaminando il merito della controversia dopo la pronuncia della Corte di Giustizia, il Collegio rileva l’infondatezza del gravame.

Per quanto riguarda il primo motivo di ricorso, il Collegio rileva che la stessa parte ricorrente, nella sua memoria per l’udienza del 20 luglio 2020, ha dichiarato di prendere atto delle conclusioni della Corte UE di cui alla su ricordata ordinanza del maggio 2019, per cui si evidenzia l’infondatezza della doglianza di incompetenza.

In realtà, come peraltro già osservato anche da questa Sezione (TAR Lazio, Sez. I, 3.2.20, n. 1418 e 19.9.19, n. 11097), la Corte UE, nella sentenza del 18 settembre 2018, ha affermato la prevalenza della disciplina di settore solo se sia individuabile un “contrasto” insanabile con quella di cui alla normativa generale (in Italia del “Codice del Consumo”), nel senso che la nozione di “contrasto” denota un rapporto, tra le disposizioni cui si riferisce, che va oltre la mera difformità o la semplice differenza, mostrando una divergenza che non può essere superata mediante una formula inclusiva che permetta la coesistenza di entrambe le realtà, senza che sia necessario snaturarle.

Dunque, secondo la Corte, il contrasto sussiste solo quando disposizioni di stretta derivazione UE, disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, impongono ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi “incompatibili” con quelli stabiliti dalla direttiva 2005/29, dando vita a una divergenza insanabile che non ammette la coesistenza di entrambi i plessi normativi.

Non essendo ravvisabile nessun contrasto nel caso in esame, di conseguenza, il rapporto tra le due discipline non è di specialità e le stesse possono trovare applicazione parallela.

Osserva il Collegio che le riportate conclusioni della Corte di Giustizia depongono, quindi, per l’affermazione di una specialità normativa “per fattispecie” e non “per settore”, configurando i rapporti tra i due corpi normativi in termini di complementarietà più che di specialità (TAR Lazio, Sez. I, 16.4.19, n. 4922).

In sostanza, la disciplina consumeristica non trova applicazione unicamente quando disposizioni estranee a quest’ultima, disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, impongono ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili con quelli stabiliti dalla direttiva 2005/29 (Tar Lazio, sez. I, 10.1.20, n. 261);
circostanza, questa, non rinvenibile nel caso di specie.

Passando a esaminare il secondo motivo di ricorso, se ne rileva ugualmente l’infondatezza.

Per quanto riguarda l’estensione interpretativa dell’art. 27, comma 1 bis, del Codice (nel testo inserito dall’art. 1, comma 6, lett. a), del d.lgs. n. 21/2014), si evidenzia che tale norma ha così disposto: “ Anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, che la esercita in base ai poteri di cui al presente articolo, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze ”.

Ebbene, sul punto l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 3/16) ha già chiarito che: “… La relazione illustrativa allo schema del citato d.lgs. n. 21-2014 evidenzia che la norma di modifica del codice del consumo con la quale si attribuisce in via esclusiva all'Antitrust, acquisito il parere dell'Autorità di settore, la competenza a intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, ha l'obiettivo di superare la citata procedura d'infrazione n. 2013-2069 avviata dalla Commissione europea con lettera di costituzione in mora del 18 ottobre 2013.

Ciò posto, alla luce di quanto appena detto, è evidente che tale norma ha una portata esclusivamente di interpretazione autentica, atteso che, come detto, anche alla luce di una corretta analisi ermeneutica delle sentenze dell'Adunanza Plenaria da 11 a 16-2012 e dell'applicazione dei principi da essa scaturenti è indubbia la competenza dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) ad applicare la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette nel caso oggetto del presente giudizio già in base alla normativa antecedente che l'art. 1, comma 6, lett. a), d. lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 si è limitata, per quanto qui rileva, soltanto a confermare .”

Questa Sezione di recente si è già pronunciata a conferma di tale conclusione, senza che gli argomenti di parte ricorrente nelle sue memorie ultime abbiano apportato elementi idonei a derogare a tale conclusione (TAR Lazio, Sez. I, n. 1418/20 cit. e 3.6.19, n. 7123).

La Corte di Giustizia ha anche osservato come il contrasto rilevante ai sensi dell’articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/Ce: a) deve riguardare norme dell’Unione e non norme nazionali e b) può ritenersi sussistente solo là dove disposizioni diverse rispetto a quelle della direttiva 2005/29/Ce, disciplinanti aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, impongono ai professionisti senza alcun margine di manovra obblighi incompatibili con quelli stabiliti da tale direttiva.

Anche il terzo motivo di ricorso non può trovare condivisione.

La disciplina di settore invocata dalla ricorrente, in realtà, non pone disposizioni più specifiche rispetto ai comportamenti sanzionati dalla competente AGCM, che integrano e gli estremi di una pratica commerciale scorretta e aggressiva.

Su quarto e quinto motivo di ricorso, in ordine alle modalità di “contatto” e “vendita” del prodotto, il Collegio osserva che il professionista che si avvale dell’opera di soggetti terzi è tenuto, in osservanza del canone di diligenza esigibile da operatori del settore, ad esercitare una assidua e puntuale attenzione sulla condotta di tali soggetti, in difetto di che il ricorso a soggetti terzi diventerebbe una esimente volta a porre il professionista al riparo da condotte che quest’ultimo assuma non riconducibili a fatto proprio.

Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa (TAR Lazio, Sez. I, 25.2.20, n. 2474 e 12.4.17, n. 4522;
Cons. Stato, Sez. VI, 22.7.14, nn. 3896 e 3897), il professionista è responsabile dell’attività svolta anche dai suoi agenti/promotori, sia qualora gli possa essere attribuita una “culpa in eligendo”, sia qualora gli possa essere imputata una “culpa in vigilando”, ovvero qualora non dimostri di avere posto in essere un sistema di monitoraggio effettivo e preventivo sui contenuti delle iniziative promo-pubblicitarie realizzate e diffuse da soggetti terzi, anch’essi interessati alla pratica commerciale, o non si sia dotato nell’ambito della propria organizzazione di un sistema di monitoraggio idoneo a consentire il puntuale adempimento del dettato legislativo.

Nel caso di specie, parte ricorrente si sofferma solo sulla sussistenza di un sistema di controlli, a lei riconducibile, operante “ex post” ma non in grado di arginare le condotte dei promotori che facevano sì che i consumatori erano indotti a una scelta commerciale non voluta o sufficientemente meditata, a nulla rilevando che la fornitura era attivata successivamente, dato che la buona fede del professionista deve essere sempre sussistente e verificabile anche nella fase di relazione prodromica al contratto.

Parimenti infondato è anche il sesto motivo di ricorso.

In tema di imputazione della responsabilità ad un professionista, infatti, rileva non già un profilo di responsabilità diretta nell’attivazione di contratti quanto il mancato impiego della diligenza (ordinariamente pretendibile da parte dell’operatore commerciale), la cui attuazione deve riguardare non soltanto le condotte direttamente poste in essere da quest’ultimo, ma anche le attività che siano state demandate ad altri (e che vengono, conseguentemente, nell’immediato interesse del mandante).

Non è, quindi, possibile fondare – come detto - la mancanza di responsabilità della ricorrente per l'operato di soggetti terzi, non potendosi ritenere ammissibile, quale esimente da responsabilità, l'evocazione di un autonomo ambito di operatività (in capo agli agenti) quale dirimente argomentazione per escludere qualsivoglia ascrivibilità in capo al committente delle azioni e/o omissioni poste in essere a danno della clientela (Tar Lazio, Sez. I, 23.1.20, n. 929 e 22.3.12, n. 2734).

La responsabilità da illecito amministrativo nel settore “consumeristico”, pertanto, deve essere riferita, in via diretta, al soggetto tenuto al rispetto dei menzionati obblighi e l'interposizione di uno o più soggetti nel rapporto fra l'operatore commerciale e la clientela non esclude la responsabilità dell'operatore, né attribuisce alla stessa natura oggettiva.

A ciò deve aggiungersi, in relazione al tempo concesso per un “ripensamento” successivo al contatto via “teleselling”, che l’assenza di segnalazioni non costituisce presupposto di validità dell’adozione di provvedimenti sanzionatori, potendo l’Autorità agire d’ufficio ai sensi dell’art. 66, comma 2, del Codice del consumo (TAR Lazio, Sez. I, 18.12.19, n. 14538).

Inoltre, è conclusione pacifica quella per la quale l’illecito di scorrettezza di cui al Codice del Consumo è un illecito “di pericolo”, che non richiede per la sua configurazione l’attualità di una lesione agli interessi dei consumatori, quanto, piuttosto, che una pratica sia idonea a produrla. Il bene giuridico tutelato, infatti, è soltanto indirettamente la sfera patrimoniale del consumatore: in via immediata, infatti, attraverso la libertà di scelta, si vuole salvaguardare il corretto funzionamento del mercato concorrenziale (Cons. Stato, Sez. VI, 12.3.20, n. 1751).

In ordine a quanto dedotto con il settimo motivo, il Collegio evidenzia che il grado di diligenza richiesto al professionista in ambito consumeristico non può essere parametrato solo alla luce degli obblighi imposti dall’Autorità di regolazione competente per il settore di riferimento.

Il sistema di tutela del consumatore prevede, infatti, che il rispetto della normativa di settore non esaurisca gli obblighi di diligenza gravanti sul professionista, il quale dovrà, in ogni caso, porre in essere quei comportamenti ulteriori che discendono comunque dall’applicazione del più generale principio di buona fede a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore sotto un profilo contrattuale (Cons. Stato, Sez. VI, 30.9.16, n. 4048 e Tar Lazio, Sez. I, 1.8.19 e 3.1.17, n. 62).

Infondato è anche l’ottavo motivo di ricorso e la contestata estensione oggettiva del procedimento, il Collegio osserva che il richiamo all’art. 51, comma 6, del Codice del Consumo è intervenuto in una fase procedimentale in cui era comunque consentito alla ricorrente di esprimere le sue difese sul punto.

Da ultimo, in ordine all’entità della sanzione di cui al nono motivo di ricorso, il Collegio rileva che la competenza dell’Autorità si estendeva anche al periodo anteriore all’entrata in vigore del d.lgs. n. 21/14, atteso quanto dedotto in relazione allo specifico motivo di ricorso.

Inoltre, in relazione alle ulteriori doglianze, il Collegio rileva che la quantificazione è avvenuta non in proporzione alla durata o alle singole norme ritenute violate ma, considerando il minimo e il massimo edittale, le dimensioni economiche e l’importanza del professionista, incidendo per una percentuale minima sul fatturato della ricorrente.

Invero, la somma irrogata non appare quantificata in violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità, alla luce del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, ai fini di una efficace funzione deterrente, la sanzione deve essere parametrata al fatturato realizzato dall’impresa (TAR Lazio, Sez. I, 3.2.20, n. 1418).

Osserva il Collegio che, nella ponderazione della sanzione da irrogare, l’Autorità, avuto riguardo a tutti i parametri di riferimento e dovendo garantire l’effettiva efficacia deterrente della sanzione pecuniaria, secondo criteri di proporzionalità ed adeguatezza, ha tenuto conto di tutte le circostanze caratterizzanti il caso di specie, ivi comprese le attenuanti, ed ha determinato la sanzione nell’esercizio di una discrezionalità sindacabile, in sede giurisdizionale, solo nei limiti del travisamento o della macroscopica illogicità o della manifesta mancanza di proporzione, nel caso di specie non ravvisabili (TAR Lazio, Sez. I, 30.6.20, n. 7335).

In ogni caso, deve rilevarsi che la norma non indica parametri fissi né impone un calcolo algebrico, lasciando viceversa all’Autorità un margine di apprezzamento discrezionale che, nel caso di specie, non appare male esercitato, per le ragioni sopra espresse.

Quanto alla invocata disparità di trattamento, il Collegio rileva come assertive le contestazioni in punto, atteso, da un lato, che non emerge dal ricorso la predicata identità di situazioni, e considerata, dall’altro, la fisiologica complessità e peculiarità delle valutazioni compiute in materia dall’Autorità, in relazione alle quali, pur in presenza di elementi di analogia, risulta ordinariamente esclusa l’identità dei casi, così che il richiamo a diverse percentuali di attenuante non è idoneo di per sé a tradursi, come “tertium comparationis”, in un vizio di legittimità della valutazione intervenuta nella presente fattispecie (TAR Lazio, Sez. I, 3.2.20, n. 1418;
21.1.19, n. 782;
9.1.15, n. 238 e 6.6.08, n. 5578).

Alla luce di quanto dedotto, pertanto, il gravame non può trovare accoglimento.

La peculiarità e la complessità della fattispecie consentono di compensare eccezionalmente le spese di lite tra tutte le parti costituite.

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