TAR Roma, sez. II, sentenza 2022-11-17, n. 202215256
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Pubblicato il 17/11/2022
N. 15256/2022 REG.PROV.COLL.
N. 14689/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio
(Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 14689 del 2019, proposto dalla società Immobiliare Corso Como s.r.l., rappresentata e difesa dagli Avvocati L L, F P e Prof. A B, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
contro
Roma Capitale, in persona del suo Sindaco
pro tempore
, rappresentata e difesa dall’Avvocato D R, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Città Metropolitana di Roma Capitale, in persona del suo legale rappresentante
pro tempore
, rappresentata e difesa dall’Avvocato S B, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Regione Lazio, in persona del suo Presidente
pro tempore
, non costituita in giudizio;
per l'annullamento
A) della nota di Roma Capitale – Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica – Direzione Pianificazione Generale – U.O. Espropri AS/rr pos. Prat. 1/1997 fasc. 202/2007 (prot. n. QI/146761 del 20 settembre 2019) notificata in data 1 ottobre 2019;
B) della relazione di stima fascicolo 202/2007 emessa dalla Commissione Provincia-le Espropri di Roma in data 26 aprile 2017 (conosciuta dalla ricorrente a seguito della notificazione del provvedimento sub. A);
C) del decreto definitivo di esproprio del Comune di Roma n. 8 del 16 marzo 2006 (non ancora conosciuto dalla ricorrente ma citato nel provvedimento di cui alla lettera G);
D) dell’ordinanza del Sindaco del Comune di Roma n. 352 del 20 novembre 2001 protocollo proponente n. 71346/01 protocollo s.d. n. 1862/01(conosciuto con accesso agli atti del 12 novembre 2019);
E) dell’ordinanza del Sindaco del Comune di Roma n. 203 dell’11 settembre 2003 protocollo proponente n. 51190 protocollo s.d. n. 1137 (conosciuto con accesso agli atti del 12 novembre 2019);
F) dell’ordinanza del Sindaco del Comune di Roma n. 61 del 3 marzo 2005 proto-collo proponente n. 12626 protocollo s.d. n. 5556 (conosciuto con accesso agli atti del 12 novembre 2019);
G) della comunicazione del Comune di Roma indirizzata alla Commissione Provinciale Espropri di Roma prot. n. 50930 del 17 agosto 2007;
H) di tutti gli atti della procedura espropriativa, inclusi i verbali di immissione nel possesso citati nel provvedimento di cui alla lettera G) che precede (alla data odierna non conosciuti dalla ricorrente);
NONCHE’ PER LA DECLARATORIA di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e istanza di retrocessione ex articoli 46, 47 e 48 D.P.R. n. 327/2001
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale e di Città Metropolitana di Roma Capitale;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 novembre 2022 il dott. Michele Tecchia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
FATTO
Con l’odierno ricorso notificato in data 27 novembre 2019 e depositato il giorno seguente, parte ricorrente espone anzitutto:
- di aver acquistato nel 2008 un’area censita al catasto terreni del Comune di Roma al foglio 921, particella 249, oggi catasto fabbricati particella 250 sub. 503 (nel prosieguo l’“Area”), in forza di decreto di trasferimento immobiliare n. 758 dell’11 novembre 2008 pronunziato dal Tribunale Civile di Roma in danno della società debitrice Erode Attico S.p.A. (decreto trascritto presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari in data 21 novembre 2008);l’Area costituisce pertinenza esclusiva di una villa, con dépendance, realizzata nella zona dell’Appia Antica, ed è costituita da due porzioni: a) la prima costituisce parte del giardino della villa;b) la seconda presenta un salto di quota ed è adiacente alla Chiesa di Sant’Urbano (questa seconda porzione è separata dalla prima da una bassa ringhiera in metallo di circa 90–100 centimetri);
- di aver scoperto soltanto nel 2019 (dopo che Roma Capitale le aveva notificato la relazione di stima dell’indennità definitiva di esproprio) che l’Area in questione era stata in realtà incisa da un decreto di esproprio del 2005 , e cioè in epoca anteriore rispetto alla data dell’11 novembre 2008 in cui la ricorrente aveva acquistato l’Area dalla Erode Attico S.p.A.;il provvedimento espropriativo (ordinanza del Sindaco n. 61 del 3 marzo 2005) interveniva in via ablatoria su plurime aree della zona dell’Appia Antica (ivi inclusa l’Area di cui si discorre) per la “ realizzazione del parco della Caffarella ”.
Sotto un profilo strettamente diacronico, pertanto, l’ordine degli eventi è stato il seguente:
(i) nel 2005 Roma Capitale espropriava l’Area ai danni dell’allora proprietaria della stessa (Erode Attico S.p.A.);
(ii) successivamente nel 2008 l’odierna ricorrente acquistava l’Area dalla società Erode Attico S.p.A. (ancorché quest’ultima non avesse titolo ad alienare alcunché, giusta atto di esproprio del 2005);
(iii) soltanto il 1° ottobre 2019 l’odierna ricorrente veniva a conoscenza dell’atto di esproprio intervenuto anteriormente rispetto al suo acquisto a titolo derivativo.
Con il ricorso in epigrafe, pertanto, parte ricorrente promuove due tipi di domande, instando:
- in primis per l’annullamento degli atti della procedura espropriativa giunti a conoscenza della ricorrente, e cioè la relazione di stima dell’indennità definitiva di esproprio notificata alla ricorrente in data 1° ottobre 2019, l’ordinanza sindacale n. 352 del 20 novembre 2001 recante l’atto di determinazione dell’indennità provvisoria di esproprio (nonché la successiva ordinanza sindacale n. 203 dell’11 settembre 2003 recante alcune modifiche integrative alla summenzionata indennità provvisoria), l’atto di esproprio recato dall’ordinanza sindacale n. 61 del 3 marzo 2005, il decreto definitivo di esproprio n. 8 del 16 marzo 2006;
- in secundis per la declaratoria di decadenza della dichiarazione di pubblica utilità e conseguente retrocessione ex articoli 46, 47 e 48 D.P.R. n. 327/2001.
Quanto alla prima domanda di caducazione degli atti della procedura espropriativa, essa è affidata ai seguenti motivi di gravame:
- PRIMO MOTIVO: violazione di specifiche “ norme e termini dettati dal D.P.R. n. 327/2001, posti a presidio dei diritti dei proprietari delle aree da sottoporre a procedura ablatoria. Si ricorda, infatti, che la Società è venuta a conoscenza del procedimento solo con i provvedimenti impugnati in questa sede, che risultano adottati in completo spregio alla procedura prevista dall’articolo 21 del D.P.R. n. 327/2001. Infatti: (a) la relazione della commissione è stata adottata ben oltre i 90 giorni previsti dall’art. 21, comma 15, del D.P.R. n. 327/2001 (dalla relazione impugnata risulta che la richiesta del Comune sarebbe stata effettuata il 3 settembre 2007 mentre la relazione è stata adottata in data 26 aprile 2017);(b) la relazione risulta indirizzata a Erode Attico S.p.A. e non ai proprietari dell’Area sin dal novembre 2008 (come impone l’art. 21 del D.P.R. n. 327/2001);(c) la relazione non contiene l’indicazione dell’ufficio ove è possibile prendere visione degli atti della procedura (cfr. art. 21, comma 10 del D.P.R. n. 327/2001)” (cfr. pag. 4 del ricorso);
- SECONDO MOTIVO: mancata esecuzione della procedura espropriativa, atteso che “ ancora oggi la procedura espropriativa in argomento non è mai stata eseguita. L’Area è, infatti, utilizzata pacificamente e senza alcuna turbativa nel possesso dalla ricorrente che: (a) l’ha acquistata nel novembre 2008 in forza di Decreto di Trasferimento di-sposto dal Tribunale di Roma;(b) l’ha inclusa nei progetti presentati all’amministrazione comunale per la riqualificazione del medesimo Immobile (cfr. Doc. 6). Nell’ambito di tale procedura l’amministrazione non ha mai eccepito l’assenza di titolo di proprietà di tale Area;(c) ne sostiene interamente i costi di manutenzione e fiscali (cfr. Doc. 3);(d) non è mai venuta a conoscenza di alcuna procedura ablatoria in quanto nessun decreto di esproprio è stato mai trascritto nei confronti del legittimo proprietario (cfr. Doc. 7) ” (cfr. pag. 5 del ricorso);
- TERZO MOTIVO: parziale carenza di interesse pubblico all’esecuzione dell’opera sull’Area in questione, atteso che “ L’ordinanza del Sindaco di Roma n. 203/2003 (conosciuta con l’accesso agli atti dello scorso 12 novembre 2019) statuisce in modo del tutto chiaro che l’unica area di interesse pubblico era quella di pertinenza dell’immobile denominato “Tempio di Sant’Urbano”. Tale qualità per le ragioni su esposte non può essere attribuita a tutta l’Area ma al limite alla sola porzione limitrofa al Tempio di Sant’Urbano ” (cfr. pag. 5 del ricorso).
Quanto alla seconda domanda di retrocessione dell’Area ex articoli 46, 47 e 48 D.P.R. n. 327/2001, essa riposa sulla seguente considerazione: “ gli articoli 46 e 47 stabiliscono che se l’opera pubblica non è realizzata entro 10 anni dall’esproprio (i.e., dieci anni dal 2005-06) il proprietario ha il diritto di chiedere la restituzione del bene non utilizzato. Come anticipato, l’Area in argomento costituisce pertinenza esclusiva della villa di proprietà della ricorrente ed è costituita da un giardino e da una fascia di rispetto a verde dalla vicina chiesa di Sant’Urbano. Ciò comporta che, a quanto a conoscenza della ricorrente, l’Area non è mai stata interessata da alcuna opera pubblica e, pertanto, si dovrà procedere – comunque – alla sua retrocessione. Qualora, nel corso del procedimento, venga dimostrato che l’Area sia stata interessata solo in parte (si assume per la porzione che potrebbe in astratto costituire pertinenza del Tempio di Sant’Urbano), la restante parte dovrà necessariamente essere retrocessa a favore della ricorrente ” (cfr. pag. 6 del ricorso).
Roma Capitale si è ritualmente costituita in giudizio, instando per la reiezione del gravame.
Si è inoltre costituita in giudizio anche Città Metropolitana di Roma Capitale, instando anch’essa (con memoria di stile) per la reiezione del ricorso e per la dichiarazione del proprio difetto di legittimazione passiva.
All’udienza pubblica del 9 novembre 2022, il Collegio – previa discussione della causa – ha introitato quest’ultima in decisione.
DIRITTO
Il ricorso è infondato e va quindi respinto.
Non senza prima procedere ad un breve inquadramento generale del petitum del ricorso de quo agitur .
Quest’ultimo contiene, infatti, due tipi di domande concettualmente distinte , e cioè da un lato la domanda di annullamento degli atti della procedura espropriativa sfociati nell’atto di esproprio dell’Area nel 2005 (ovverossia prima ancora che l’Area venisse acquistata dalla ricorrente, avendo quest’ultima acquistato l’Area soltanto nel 2008), e dall’altro lato la domanda di retrocessione in tesi fondata sulla mancata esecuzione dell’opera pubblica ( id est la realizzazione del parco della Caffarella) sull’Area in questione a valle dell’atto ablatorio del 2005.
La prima domanda riposa, quindi, su vizi del procedimento espropriativo che in tesi dovrebbero sfociare nella caducazione dell’atto ablatorio del 2005.
La seconda domanda riposa, invece, su circostanze successive rispetto a tale atto ablatorio, circostanze che – lungi dal determinare l’annullamento ex tunc dell’atto espropriativo del 2005 – dovrebbero invece condurre ad una retrocessione del bene da Roma Capitale alla ricorrente.
Ciò in coerenza con il consolidato insegnamento giurisprudenziale a rigore del quale “ la retrocessione presuppone un valido ed efficace decreto di espropriazione, attribuendo al proprietario dell’immobile espropriato, ma non utilizzato per la realizzazione dell’opera pubblica a causa di un fatto verificatosi ex post, un diritto potestativo di riacquisto del bene, il cui esercizio, lungi dal dare luogo alla caducazione del precedente acquisto coattivo risolvendo la relativa espropriazione, ne postula la perdurante operatività, non eliminandone gli effetti, ma producendone di nuovi e parzialmente contrari, ovvero ponendo solo le condizioni per un nuovo trasferimento a titolo derivativo con effetto ex nunc (Sez. 1, n. 16904 del 11/11/2003, Rv. 568033 – 01)” (cfr. ex multis Corte Cassazione, ordinanza n. 25825 del 23 settembre 2021).
In sintesi, quindi, la domanda caducatoria mira ad elidere l’atto espropriativo con sentenza costitutiva di annullamento avente efficacia ex tunc, mentre la domanda retrocessoria mira, invece, ad accertare che l’atto espropriativo è stato eliso con efficacia ex nunc da una successiva retrocessione del bene da Roma Capitale al privato, retrocessione che:
- opererebbe ipso iure con la scadenza infruttuosa del termine di ultimazione dei lavori di realizzazione dell’opera pubblica, in caso di retrocessione totale ;
- si realizzerebbe con un provvedimento amministrativo retro-agente in caso di retrocessione parziale .
Identificato il fuoco del petitum , occorre ora esaminare partitamente le due domande.
SULLA DOMANDA DI ANNULLAMENTO DEGLI ATTI ESPROPRIATIVI
Con il primo motivo di gravame posto a sostegno della domanda caducatoria, parte ricorrente censura la violazione della “ procedura prevista dall’articolo 21 del D.P.R. n. 327/2001” , e cioè del procedimento di determinazione definitiva dell’indennità di espropriazione, sostenendo in particolare che “ (a) la relazione della commissione è stata adottata ben oltre i 90 giorni previsti dall’art. 21, comma 15, del D.P.R. n. 327/2001 (dalla relazione impugnata risulta che la richiesta del Comune sarebbe stata effettuata il 3 settembre 2007 mentre la relazione è stata adottata in data 26 aprile 2017);(b) la relazione risulta indirizzata a Erode Attico S.p.A. e non ai proprietari dell’Area sin dal novembre 2008 (come impone l’art. 21 del D.P.R. n. 327/2001);(c) la relazione non contiene l’indicazione dell’ufficio ove è possibile prendere visione degli atti della procedura (cfr. art. 21, comma 10 del D.P.R. n. 327/2001)”
Il Collegio rileva - in accoglimento dell’eccezione sollevata in proposito da Roma Capitale - che il motivo è infondato, atteso che esso censura la violazione di norme di legge non applicabili al caso di specie.
Il Testo Unico Espropriazioni del 2001 (DPR n. 327 del 2001) nel quale è inserita la disposizione di legge di cui si stigmatizza la violazione ( id est il comma 15 dell’art. 21), trova infatti applicazione ai soli procedimenti espropriativi per i quali la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera sia intervenuta dopo il 30 giugno 2003.
Ciò in forza del combinato disposto delle norme transitorie degli artt. 57 e 59 del summenzionato Testo Unico, i quali prevedono quanto segue:
- “ le disposizioni del presente testo unico non si applicano ai progetti per i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, sia intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità ed urgenza. In tal caso continuano ad applicarsi tutte le normative vigenti a tale data ” (cfr. art. 57 del DPR 327 del 2001);
- “ le disposizioni del presente testo unico entrano in vigore a decorrere dal 30 giugno 2003 ” (cfr. art. 59 del DPR 327 del 2001).
In sintesi, quindi, tutte le procedure espropriative rispetto alle quali la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera sia intervenuta prima della data di entrata in vigore del DPR 327/2001 (e cioè prima del 30 giugno 2003) non soggiacciono a detto DPR bensì alla disciplina di legge previgente, ossia alla legge n. 2359 del 1865 recante la normativa generale in materia di “ espropriazioni per causa di utilità pubblica ”, nonché ad altre discipline speciali eventualmente vigenti nel periodo pregresso in questione.
Venendo quindi al caso di specie, gli stessi atti avversati dall’odierna ricorrente attestano che la dichiarazione di pubblica utilità dell’opera era intervenuta ben prima del 30 giugno 2003.
Ed infatti, l’ordinanza sindacale n. 352 del 20 novembre 2001 (con cui è stata determinata l’indennità provvisoria di esproprio ai sensi “ dell’art. 11 della legge n. 865 del 1971 ”) - rientrante nel novero dei provvedimenti oggi impugnati e depositata sub Allegato D del ricorso - esplicita in premessa, a pag. 3, che “ gli interventi previsti, con il richiamato accordo di programma, sono stati dichiarati di pubblica utilità e per l’espropriazione delle aree e per l’attuazione del piano si è fatto rinvio al termine massimo di cui all’art. 16, 5° comma, legge n. 1150/42, fissato con deliberazione della Giunta Comunale n. 934/97 al 24 giugno 2006 ”.
Indi, risulta per tabulas che in data 20 novembre 2001 l’opera pubblica di cui si discorre ( id est la realizzazione del parco della Caffarella) era già stata dichiarata di pubblica utilità.
Ciò trova ulteriore conferma nell’ordinanza sindacale n. 61 del 3 marzo 2005 recante l’effetto espropriativo - anch’essa rientrante nel perimetro degli atti impugnati dalla ricorrente - ove si fa esplicito riferimento da un lato alla “ legge 25 giugno 1865 n. 2359 ” (che per l’appunto detta la disciplina generale in materia di espropriazioni nel periodo anteriore all’entrata in vigore del DPR n. 327 del 2001) e dall’altro lato all’“ art. 57, co. 1, del D.P.R. 327/01 ” (che come visto esclude l’applicazione del nuovo Testo Unico nei confronti delle procedure ablatorie la cui dichiarazione di pubblica utilità sia intervenuta prima del 30 giugno 2003).
Gli atti di causa dimostrano, quindi, non soltanto che la procedura espropriativa de qua è estranea all’alveo applicativo del DPR n. 327 del 2001, ma anche che tale estraneità emerge dagli stessi atti impugnati.
Ne discende che la lamentata violazione dell’art. 21, comma 15, del D.P.R. n. 327/2001 (anche in combinato disposto con l’art. 21, comma 10, del D.P.R. n. 327/2001) - quand’anche accertata - non potrebbe comunque mai sfociare nell’annullamento degli atti impugnati, atteso che la norma di cui si invoca l’applicazione è inapplicabile al caso di specie.
Ciò a fortiori ove si consideri che la disposizione contenuta nell’art. 21, comma 15, del D.P.R. n. 327/2001 – a rigore della quale l’indennità di esproprio va determinata entro 90 giorni a cura di una commissione all’uopo istituita dalla Regione nel solo caso in cui il privato espropriato ometta di designare il perito di sua fiducia nell’ambito della procedura principale affidata ad un collegio di tre periti (uno dei quali nominato dal Presidente del Tribunale) – è propria e tipica del D.P.R. n. 327/2001.
Ne discende che il primo motivo di gravame va respinto in quanto infondato.
Parimenti infondato è il secondo motivo dedotto a sostegno della domanda di annullamento degli atti espropriativi.
Con tale motivo, infatti, parte ricorrente – lungi dal dedurre profili censori astrattamente idonei ad inficiare la legittimità degli atti espropriativi e a determinarne quindi la caducazione – sottopone all’attenzione del Collegio alcuni elementi cronologicamente successivi rispetto all’atto di esproprio del 2005, in tesi comprovanti la mancata esecuzione dell’opera di pubblica utilità.
A supporto del secondo motivo di gravame parte ricorrente afferma, infatti, che “ l’Area è, infatti, utilizzata pacificamente e senza alcuna turbativa nel possesso dalla ricorrente che: (a) l’ha acquistata nel novembre 2008 in forza di Decreto di Trasferimento disposto dal Tribunale di Roma;(b) l’ha inclusa nei progetti presentati all’amministrazione comunale per la riqualificazione del medesimo Immobile (cfr. Doc. 6). Nell’ambito di tale procedura l’amministrazione non ha mai eccepito l’assenza di titolo di proprietà di tale Area;(c) ne sostiene interamente i costi di manutenzione e fiscali (cfr. Doc. 3);(d) non è mai venuta a conoscenza di alcuna procedura ablatoria in quanto nessun decreto di esproprio è stato mai trascritto nei confronti del legittimo proprietario (cfr. Doc. 7) ” (cfr. pag. 5 del ricorso).
Orbene, il dedotto pacifico ed indisturbato possesso dell’Area da parte della ricorrente nel periodo successivo al suo acquisto occorso nel 2008 (nonché al provvedimento di esproprio del 2005), non integra alcun vizio della sequenza procedimentale sfociata nell’esproprio del 2005.
Non è stata dedotta, infatti, alcuna infruttuosa scadenza né del termine di efficacia del vincolo preordinato all’esproprio, né del termine di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità o di altri atti prodromici all’ordinanza di esproprio.
È stata al contrario dedotta – con riferimento al periodo successivo all’esproprio – la mancata esecuzione dell’opera pubblica sull’Area in questione.
Non si discorre, quindi, di vizi inficianti la legittimità dell’atto di esproprio, bensì semmai di circostanze afferenti alla diversa tematica della retrocessione dell’Area per mancata utilizzazione di quest’ultima in fase di esecuzione dell’opera pubblica dopo l’atto di esproprio (tematica rispetto alla quale si rinvia a quanto si dirà più avanti).
Ne discende, quindi, che anche il secondo motivo di annullamento degli atti espropriativi non può essere accolto.
Va a questo punto esaminato il terzo motivo di gravame, con cui parte ricorrente si duole del fatto che l’espropriazione dell’Area sarebbe sorretta da un interesse pubblico soltanto parziale, atteso che “ l’ordinanza del Sindaco di Roma n. 203/2003 … statuisce in modo del tutto chiaro che l’unica area di interesse pubblico era quella di pertinenza dell’immobile denominato “Tempio di Sant’Urbano”. Tale qualità per le ragioni su esposte non può essere attribuita a tutta l’Area ma al limite alla sola porzione limitrofa al Tempio di Sant’Urbano ” (cfr. pag. 5 del ricorso).
L’ordinanza sindacale n. 203 del 2003 citata dalla ricorrente – con cui Roma Capitale ha integrato l’atto determinativo dell’indennità provvisoria di esproprio – non statuisce affatto che l’unica area di pubblico interesse è quella “ di pertinenza dell’immobile denominato “Tempio di Sant’Urbano”.
Al contrario, tale ordinanza stabilisce (cfr. pag. 2):
- che le aree occorrenti per la realizzazione del parco della Caffarella, per le quali è stata dichiarata la pubblica utilità, sono state inizialmente previste con deliberazione di Giunta Comunale numero 934 del 21 marzo 1997, successivamente integrata con deliberazione Giunta Comunale numero 3705 del 23 ottobre 1998, il tutto in esecuzione di un accordo di programma del 19 aprile 1996;
- e che soltanto “ successivamente, con deliberazione della Giunta Comunale n. 483 del 9 maggio 2000 è stato promosso il procedimento di espropriazione per pubblica utilità anche per l’immobile denominato “Tempio di S. Urbano” compreso nella realizzazione del Parco della Caffarella – a successiva integrazione dei procedimenti già avviati ”.
In sintesi, l’area dichiarata di pubblico interesse è stata dapprima individuata con l’accordo di programma del 19 aprile 1996 (e con le successive delibere di Giunta Comunale del 1997 e 1998) per una superficie ben più estesa rispetto a quella di stretta pertinenza del Tempio di S. Urbano, e poi ampliata – con la successiva delibera di Giunta Comunale del 2000 - allo specifico immobile del Tempio di S. Urbano.
Non appare condivisibile, pertanto, l’assunto difensivo secondo cui l’unica area dichiarata di pubblico interesse sarebbe stata quella “ di pertinenza dell’immobile denominato “Tempio di Sant’Urbano” , atteso che tale circostanza non emerge affatto dagli atti di causa.
Ciò a fortiori se si considera che l’opera pubblica de qua consiste nella realizzazione di un parco pubblico e non nella realizzazione di un’area archeologica.
Anche il terzo motivo di ricorso va quindi respinto, con conseguente reiezione della domanda di annullamento degli atti impugnati.
SULLA DOMANDA DI RETROCESSIONE
In disparte la questione (purtuttavia non trascurabile) dell’ammissibilità di un’azione di retrocessione esercitata da parte di un soggetto diverso rispetto a quello originariamente inciso dal provvedimento di esproprio (va infatti rammentato che la società ricorrente non collima con il soggetto originariamente colpito dal provvedimento di esproprio), il Collegio ritiene - in omaggio al criterio della “ragione più liquida” - che la domanda di retrocessione sia comunque da respingere perché infondata.
A tal fine, corre l’obbligo di richiamare, in apice, il consolidato insegnamento giurisprudenziale sulla distinzione tra retrocessione totale e retrocessione parziale del bene espropriato.
Orbene, è ormai ius receptum che “ mediante l’istituto della retrocessione il proprietario espropriato può, in tutto o in parte, ottenere nuovamente i propri beni, laddove all’esito del procedimento espropriativo se ne sia nei fatti palesata la mancata finalizzazione effettiva all’intervento pubblico in ragione del quale erano stati occupati (cfr., da ultimo, Cons. Stato, sez. II, 30 marzo 2020, n. 2159). Si distingue peraltro tra retrocessione totale e parziale (Cons. Stato, sez. IV, 28 settembre 2020, n. 5654;sez. II, 30 marzo 2020, n. 2159;sez. II, 9 dicembre 2019, n. 8387), a seconda del livello di attuazione del complessivo intervento per cui è intervenuta l’espropriazione, secondo quanto previsto dalla dichiarazione di pubblica utilità. In particolare: a) la retrocessione totale presuppone la definitiva inutilità del bene o la mancata attuazione dell’intera opera o finalità pubblica, per fattori sopravvenuti, difficoltà attuative o anche per errori di programmazione o di realizzazione, con la conseguenza che, ove la parte ne manifesti la volontà, non vi è ragione di non restituirle un bene, destinato ad essere inutilizzato, quanto meno per le finalità originarie;b) si ha, invece, la retrocessione parziale nel caso in cui l’opera pubblica o di pubblica utilità sia stata realizzata e sia residuata solo una parte del bene, con la conseguenza che in capo al proprietario dello stesso bene espropriato sorge un interesse legittimo pretensivo ad ottenerne la restituzione, subordinato tuttavia ad una valutazione discrezionale dell’Amministrazione circa l’attuale utilità della stessa porzione alla realizzazione dell’interesse pubblico. Inoltre, secondo la recente giurisprudenza civile (cfr. Cass. civ., sez. I, 7 settembre 2020, n. 18580), la valutazione dell’effettiva esecuzione dell’opera pubblica o di interesse pubblico dovrebbe essere compiuta con riferimento all’intero complesso di beni interessati dalla dichiarazione di pubblica utilità e non riguardo ai fondi di proprietà del privato, con la conseguenza che, quando l’opera programmata non abbia poi in concreto riguardato qualcuno di tali fondi o porzioni, ma sia stata comunque eseguita anche se in termini ridotti, la loro mancata utilizzazione non fa sorgere il diritto alla retrocessione, tutelabile innanzi al giudice ordinario, ma l’interesse legittimo all’inservibilità dei beni, cui soltanto consegue il diritto alla restituzione: in correlazione a tale interesse legittimo, sussiste il potere dell’Amministrativo di disporre che il bene rimanga nel proprio patrimonio ” (cfr. ex multis Cons. St., sez. IV, 5 maggio 2021, n. 3522).
Inoltre, con specifico riferimento alla retrocessione parziale, il consolidato insegnamento del Consiglio di Stato ha chiarito che “ la retrocessione parziale (già prevista dagli artt. 60 e 61 della legge 2359 del 1865 e ora prevista dall’art. 47 del d.P.R. n. 327 del 2001) si configura quando, dopo l’esecuzione totale o parziale dell’opera pubblica, alcuni dei fondi espropriati non abbiano ricevuto la prevista destinazione e rispetto ad essi può ancora esercitarsi una valutazione discrezionale circa la convenienza di utilizzarli in funzione dell’opera realizzata, sicché tali beni possono essere restituiti solo se l’Amministrazione abbia dichiarato che essi non servono più alla realizzazione dell’opera nel suo complesso (Cons. St., sez. IV, n. 22 del 2019);la pretesa restituzione (come chiarito dalla stessa giurisprudenza amministrativa) è subordinata, dunque, ad una valutazione discrezionale dell’amministrazione, ovvero a una determinazione amministrativa (in positivo) di inservibilità dei fondi espropriati all’opera pubblica;il che, sotto distinto profilo, implica l’impossibilità di basare la legittimità della pretesa restitutoria sul solo mancato utilizzo nel tempo del bene, inferendo per ciò stesso e solo l’illogicità di una diversa scelta amministrativa - la valutazione in ordine all’esistenza di un persistente interesse pubblico all’attuazione dello strumento costituisce oggetto di una valutazione ampiamente discrezionale dell’Amministrazione, sindacabile in sede giurisdizionale solo in presenza di vizi di illogicità o irragionevolezza o di travisamento del fatto (in fattispecie insussistenti)” (cfr. ex multis Cons. St., sez. IV, 9 febbraio 2022 n. 934) .
In sintesi, quindi, si ha retrocessione totale in caso di mancata attuazione “dell’intera opera pubblica ” (dunque, nel caso di specie, nell’astratta ipotesi in cui il Parco della Caffarella non fosse mai stato realizzato), con conseguente inutilità di tutti i terreni privati eventualmente espropriati per la realizzazione di tale opera.
Si ha, invece, retrocessione parziale nel caso in cui l’opera pubblica sia stata concretamente realizzata, ma senza utilizzare tutti i terreni privati originariamente espropriati, con la conseguenza che alcuni di essi sono stati impiegati per l’esecuzione dell’opera pubblica ed altri no.
Nella prima fattispecie (retrocessione totale) tutti i soggetti privati espropriati vantano un diritto soggettivo perfetto alla retrocessione degli immobili espropriati ai loro danni, diritto che può certamente formare oggetto di un’azione di accertamento positivo in sede giudiziaria.
Nella seconda fattispecie (retrocessione parziale), invece, i soggetti privati a cui sono stati espropriati i rispettivi terreni (poi non concretamente utilizzati nell’esecuzione dell’opera pubblica) vantano un mero interesse legittimo pretensivo alla restituzione di detti terreni, di talché detta restituzione è possibile soltanto se - e nella misura in cui - intervenga a monte un provvedimento amministrativo discrezionale con cui viene dichiarata l’inservibilità dei fondi espropriati rispetto all’opera pubblica.
Tale dichiarazione di inservibilità deve essere adottata con provvedimento espresso o comunque con un comportamento provvedimentale chiaro ed “inequivoco” (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 16 giugno 2022 n. 4922).
In tal senso si sono già espresse le Sezioni unite della Corte di Cassazione civile, laddove, con la sentenza 5 giugno 2008, n. 14826, hanno affermato che, ove non vi sia stata la dichiarazione di inservibilità dei beni per l’esecuzione dell’opera pubblica necessaria per la retrocessione parziale prevista dagli art. 60 e 61 della legge 25 giugno 1865 n. 2359 (applicabili ratione temporis alla fattispecie in esame), è possibile riconoscere valore equipollente ad essa ad un comportamento dell’amministrazione dal quale possa desumersi la scelta di mettere in vendita dei beni, in quanto non più necessari alla realizzazione dell’opera per la quale essi furono espropriati.
Tornando al caso di specie, quindi, non è revocabile in dubbio che:
- l’opera pubblica di cui si discorre ( id est la realizzazione del parco pubblico della Caffarella) c’è stata;
- l’Area rivendicata dalla ricorrente è soltanto uno dei tanti terreni originariamente espropriati per detta opera;
- il ricorso è basato sull’assunto che l’Area in questione non sarebbe mai stata interessata (in tutto o in parte) dai lavori del Parco della Caffarella.
In base a tali coordinate, pertanto, la domanda di retrocessione de qua va chiaramente sussunta nel paradigma della retrocessione c.d. parziale .
Ma se così è, appare evidente che non può essere il Giudice Amministrativo adìto - se non a pena di violazione del divieto di esercizio di poteri amministrativi ancora non esercitati (cfr. art. 34 comma 2 c.p.a.) - ad accertare la retrocessione parziale dell’Area.
Come già visto, infatti, la retrocessione parziale presuppone l’adozione di una determinazione amministrativa di inservibilità del terreno espropriato rispetto all’opera pubblica già realizzata, determinazione che nel caso di specie non è mai stata adottata e che non può certamente inferirsi dal “ solo mancato utilizzo nel tempo del bene” da parte dell’Amministrazione espropriante (cfr. Cons. St., sez. IV, 9 febbraio 2022 n. 934).
Ciò a fortiori in un caso, come quello di specie, in cui l’opera consiste nella destinazione a parco pubblico di una vasta zona rurale, rispetto alla quale la mera inerzia amministrativa non può certamente equivalere, da sola considerata, a dichiarazione positiva di inservibilità dell’Area rispetto a detto parco.
Né la presenza di un’ inequivocabile manifestazione amministrativa di inservibilità dell’Area può inferirsi dalla documentazione versata in atti con l’Allegato n. 6 del ricorso, atteso che: (i) tale documentazione promana in larga parte dall’Ente Parco e dal Ministero dei Beni Culturali e del Turismo, id est da amministrazioni comunque diverse rispetto all’autorità espropriante competente ad adottare la determinazione di inservibilità dell’Area (ossia Roma Capitale);(ii) le due uniche missive effettivamente imputabili a Roma Capitale – peraltro riferite al solo giardino privato della villa (quindi non a tutta l’Area) – attestano soltanto l’autorizzazione all’abbattimento di alcuni esemplari arborei e il rilascio di un parere tecnico della Soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali favorevole alla modifica della tipologia di recinzione, trattandosi quindi di valutazioni tecniche da cui non può inferirsi alcuna volontà amministrativa finale di Roma Capitale di dismettere l’Area (o anche soltanto una sua parte) e di considerarla inservibile rispetto al parco della Caffarella, tanto più ove si consideri la successiva notifica in data 1° ottobre 2019 della relazione di stima dell’indennità di esproprio da parte del Dipartimento competente dell’Amministrazione comunale (Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica – Direzione Pianificazione Generale – U.O. Espropri).
Va da sé che in mancanza di qualsivoglia atto amministrativo attestante l’inservibilità dell’Area de qua , anche la richiesta di retrocessione parziale azionata nel presente giudizio non può essere accolta, ferma ed impregiudicata la possibilità per la ricorrente di instare nei confronti di Roma Capitale per l’adozione di tale atto, nonchè la piena potestà discrezionale di Roma Capitale di determinarsi su tale istanza.
Ne discende, conclusivamente, che il ricorso va respinto in quanto infondato.
Va dichiarato infine il difetto di legittimazione passiva di Città Metropolitana di Roma Capitale e Regione Lazio, non essendo gli atti impugnati riconducibili a tali amministrazioni.
Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo in favore di Roma Capitale.
Sussistono invece giustificati motivi per disporre la compensazione delle spese di lite nei confronti di Città Metropolitana di Roma Capitale, stante l’assenza di attività defensionale effettiva da parte di quest’ultima. Nulla invece sulle spese in relazione alla Regione Lazio, non essendosi costituita in giudizio.