Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2020-08-27, n. 202005260

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2020-08-27, n. 202005260
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202005260
Data del deposito : 27 agosto 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 27/08/2020

N. 05260/2020REG.PROV.COLL.

N. 07292/2019 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL P I

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 7292 del 2019, proposto da
P A, V A, rappresentati e difesi dall’avvocato M E, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

COMUNE DI MARANO DI NAPOLI, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato R M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato M R in Roma, via F. Cesi, n. 72;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania n. 923 del 2019;


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Marano di Napoli;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 luglio 2020 il Cons. D S;

L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84 comma 5 del decreto-legge n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto della circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa;

L’avvocato R M, ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge 30 aprile 2020, n. 28, ha depositato istanza di passaggio in decisione;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

Ritenuto che il giudizio può essere definito con sentenza emessa ai sensi dell’art. 74 c.p.a.;

Rilevato in fatto che:

- la signora A P è proprietaria di un immobile sito nel Comune di Marano di Napoli in via Castel Belvedere n. 3, ricevuto per successione dal coniuge Carandente Carmine, il quale realizzava sull’immobile in questione un manufatto abusivo per il quale richiedeva permesso di costruire in sanatoria ai sensi della legge n. 724 del 1994;

- l’immobile è attualmente condotto in locazione dal signor Di Vano Antonio, titolare della ditta Ottimarket;

- la predetta istanza di condono veniva rigetta dall’Amministrazione comunale, con provvedimento n. 11477 del 4 aprile 2018, adducendo la mancata presentazione della documentazione necessaria a consentire la verifica della titolarità e del corretto inquadramento urbanistico-edilizio del manufatto;

- il diniego da ultimo citato veniva impugnato dai signori A P e D V A, lamentando la violazione dell’art. 36 del d.P.R. n. 380 del 2001, dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e dell’art.6 della legge n. 241 del 1990, nonché il difetto di integro contraddittorio e l’eccesso di potere;

- il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania, con sentenza n. 923 del 2019, respingeva il ricorso, rilevando quanto segue:

« 2. Nella fattispecie in esame la Sezione ritiene, ai fini della reiezione del ricorso e come peraltro anticipato in fase cautelare, di osservare come il diniego di sanatoria oggetto di impugnazione tragga origine dalla Legge n. 724 del 1994 che sostituì la documentazione necessaria ai fini della sanatoria con una dichiarazione resa dal richiedente ai sensi dell'art. 4 della legge 4 gennaio 1968, n. 15, così gravando sull'interessato l’onere di presentare, a corredo dell'istanza, oltre alla prova del versamento degli acconti dovuti in conto oblazione e oneri concessori, la prescritta dichiarazione circa la consistenza e le caratteristiche dell'opera abusiva. Nello specifico la superficie da condonare era pari a mq.146,64 come realizzata in assenza di licenza edilizia in zona sismica, con oblazione pari a £ 7.918.560 ed oneri concessori per £ 17.242.595;
risulta in atti che la documentazione è stata presentata il 16/4/2018, dopo che l’avvio del procedimento di diniego del 15/2/2018 era stato notificato il 1°/3/2018 ed il provvedimento impugnato risale al 6/4/2018.

2.1 Peraltro in tema questa stessa Sezione (3.9.2014, n.4682) ha avuto modo di affermare che la formazione del silenzio-assenso ai sensi dell'art. 39 della Legge n.724/1994 richiede non solo il decorso del termine concesso per l'adozione di un provvedimento negativo, ma anche precisi adempimenti quali il pagamento dell'oblazione, la dichiarazione sostitutiva della documentazione da allegare alla domanda, la documentazione fotografica, l'eventuale progetto di adeguamento statico e la denuncia catastale;
non ricorre neanche la perplessità del provvedimento, posto che gli atti repressivi degli illeciti edilizi e la stessa ordinanza n.11 del 7/6/2018 di cessazione dell’attività commerciale hanno natura doverosa e rigorosamente vincolata - essendone il presupposto costituito unicamente dalla constatata esecuzione dell'opera in difformità o assenza del titolo abilitativo (il che è in questa sede fuori discussione) - e che, in ogni caso, a ben vedere l'Amministrazione ha addotto con chiarezza la natura abusiva delle opere sanzionate. D’altronde il carattere vincolato dei provvedimenti repressivi in materia non richiede motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale, non essendo configurabile alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di illecito permanente che il tempo non può legittimare in via di fatto (cfr., ex multis, Cons. Stato, V, 8.4.2014, n. 1650;
VI, 5.8.2013, n. 4075;
IV, 28.12.2012, n. 6702).

2.2 Di riflesso, il fatto che l'attività repressiva dell'attività edilizia sprovvista di titolo abilitativo ha natura doverosa e vincolata comporta che è onere dell'interessato di chiedere il rilascio del permesso di costruire in sanatoria per accertamento di conformità - i cui requisiti, dunque, non debbono formare oggetto di accertamento di ufficio;
infatti la natura interamente vincolata del provvedimento esclude la necessaria ponderazione di interessi diversi da quelli pubblici tutelati e non richiede motivazione ulteriore rispetto alla dichiarata abusività. Per il resto il Collegio ritiene di far proprio quanto di recente ribadito dall’Adunanza Plenaria (17.10.2017, n.9), ovvero che il tempo trascorso (in ipotesi, anche rilevante) fra il momento della realizzazione dell’abuso e l’adozione dell’ordine di demolizione non determina l’insorgenza di uno stato di legittimo affidamento e non innesta in capo all’amministrazione uno specifico onere di motivazione, ciò in quanto il decorso del tempo, lungi dal radicare in qualche misura la posizione giuridica dell’interessato, rafforza piuttosto il carattere abusivo dell’intervento (Cons. Stato, VI, 27.3.2017, n. 1386;
6.3.2017, n. 1060). Il carattere del tutto vincolato dell’ordine di demolizione (che deve essere adottato a seguito della sola verifica dell’abusività dell’intervento) fa sì che esso non necessiti di una particolare motivazione circa l’interesse pubblico sotteso a tale determinazione;
infatti il provvedimento di demolizione non deve motivare in ordine a un ipotetico interesse del privato alla permanenza in loco dell’opus (Cons. Stato, VI, 21.3.2017, n.1267). Nemmeno occorre motivare in modo particolare un provvedimento con il quale sia ordinata la demolizione di un immobile abusivo quando sia trascorso un notevole lasso di tempo dalla sua realizzazione: infatti l’ordinamento tutela l’affidamento di chi versa in una situazione antigiuridica soltanto laddove esso presenti un carattere incolpevole, mentre la realizzazione di un’opera abusiva si concretizza in una volontaria attività del costruttore realizzata contra legem (in tal senso Cons. Stato, IV, 28.2.2017, n. 908;
VI, 13.12.2016, n. 5256). L’ordine di demolizione presenta un carattere rigidamente vincolato e non richiede né una specifica motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale alla demolizione, né una comparazione fra l’interesse pubblico e l’interesse privato al mantenimento in loco dell’immobile, ciò in quanto non può ammettersi l’esistenza di alcun affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il tempo non può in alcun modo legittimare (Cons. Stato, 28.2.2017, n. 908;
IV, 12.10.2016, n. 4205;
31.8.2016, n. 3750).

3. Gli ulteriori motivi di impugnazione, quali si prestano ad una trattazione congiunta, non sono meritevoli di positiva valutazione ove si consideri che la regolarità urbanistico-edilizia dell'immobile è prescritta per ogni attività commerciale, stante la stretta connessione esistente tra le relative discipline (cfr. in particolare la Legge regionale n. 1 del 2014);
il legittimo esercizio dell’attività commerciale è, dunque, ancorato non solo in sede di rilascio dei titoli abilitativi, ma anche per la intera sua durata di svolgimento, alla iniziale e perdurante regolarità sotto il profilo urbanistico-edilizio dei locali in cui essa viene posta in essere, con conseguente potere-dovere dell’Autorità amministrativa di inibire l'attività commerciale esercitata in locali rispetto ai quali sono stati adottati provvedimenti repressivi che accertano l’abusività delle opere realizzate ed applicano sanzioni che precludono in modo assoluto la prosecuzione di un’attività commerciale (Cons. Stato, VI, 23.10.2015, n. 4880). L’esercizio di tale potere ha carattere essenzialmente vincolato e privo di contenuti discrezionali, essendo da escludere qualsiasi possibilità logica e giuridica di ammettere la continuazione di un’attività commerciale in locali per i quali l’autorità amministrativa ha ordinato la demolizione;
non è neanche possibile che l’agibilità venga ammessa solo per una parte dell’immobile trattandosi di un requisito unico ed inscindibile, non suscettibile di essere frazionato per le parti in cui esso si compone, poiché l’utilizzo della parte abusiva si riflette sull’incompatibilità dell’attività nel complesso.

Come già accennato, un vizio meramente procedimentale relativo all’omissione della comunicazione di avvio del procedimento, in base all’art. 21-octies della legge n. 241 del 1990, non è idoneo a provocare l’annullamento di un atto il cui contenuto dispositivo non potrebbe essere diverso da quello contestato dalla società ricorrente. Inoltre la chiusura di un’attività a seguito di un’ingiunzione di demolizione dei relativi locali è sufficientemente sorretta dalla mera enunciazione dei presupposti di fatto e di diritto da cui scaturisce la determinazione, senza che possano avere considerazione la ponderazione degli interessi pubblici e privati coinvolti, ovvero l’affidamento generato dai titoli abilitativi caducati, che comunque non possono consentire la disapplicazione delle sanzioni inflitte per le opere abusive realizzate »;

- avverso la predetta sentenza, i signori A P e D V A hanno proposto appello riproponendo nella sostanza le medesime questioni già sollevate nel giudizio di primo grado, sia pure adattate all’impianto motivazione della sentenza gravata, e segnatamente:

i) con il primo motivo di appello viene dedotta l’omessa pronunzia da parte del giudice di prime cure in ordine alla mancata integrazione del contraddittorio da parte del provvedimento impugnato, nella parte in cui si rivolge solo alla ricorrente A P e non anche agli altri eredi del de cuius;

ii) con il secondo motivo di appello i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 39, comma 4, della legge n. 724 del 1994, nella parte in cui farebbe obbligo all’amministrazione comunale di richiedere l’integrazione della documentazione prima di poter pronunziarsi negativamente sull’istanza di permesso di costruire in sanatoria, censura sulla quale il giudice di prime cure non si sarebbe neppure espresso;

iii) con il terzo motivo di appello, complementare al secondo, viene censurata la violazione dell’art. 6, della legge n. 241 del 1990;

iv) con il quarto e il quinto motivo di appello ci si duole della circostanza che la sentenza impugnata si sarebbe espressa in ordine a motivi di ricorso non presenti nell’atto introduttivo del giudizio di prime cure;

- resiste in giudizio il Comune di Marano Di Napoli, insistendo per il rigetto del gravame;

- con ordinanza cautelare n. 5000 del 2019, la Sezione – ritenuto sussistente il fumus boni iuris e rilevato che dalla esecuzione della gravata sentenza derivasse un danno grave ed irreparabile con riferimento all’ordinanza n. 1 del 7 giugno 2018 di cessazione di tutte le attività commerciali svolte nell’immobile per cui è causa – ha sospeso l’esecutività della sentenza impugnata;

Ritenuto in diritto che:

- l’appello deve essere accolto;

- il Collegio, a conferma della delibazione cautelare, ritiene fondata la censura con la quale viene dedotta la mancata richiesta di integrazione documentale da parte del Comune prima dell’adozione del diniego di condono impugnato, in violazione dell’art. 39, comma 4, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, come modificato dal capo d), comma 37, dell’art. 2 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, il quale, al penultimo periodo, recita che: « La mancata presentazione dei documenti previsti per legge entro il termine di tre mesi dalla espressa richiesta di integrazione notificata dal comune comporta l’improcedibilità della domanda e il conseguente diniego della concessione o autorizzazione in sanatoria per carenza di documentazione »;

- la tesi dell’Amministrazione comunale – secondo cui la predetta disposizione introdotta dalla legge n. 662 del 1996 sarebbe inapplicabile nel caso in esame, in quanto l’istanza di permesso di costruire in sanatoria era stata presentata in data 1 marzo 1995, prima della novella legislativa che sarebbe quindi applicabile ai soli rapporti sorti successivamente alla sua entrata in vigore – è destituita di fondamento, in quanto non tiene conto delle regole che presiedono alla successione delle norme amministrative nel tempo;

- nei procedimenti amministrativi la corretta applicazione del principio tempus regit actum comporta infatti che la Pubblica amministrazione deve considerare anche le modifiche normative intervenute durante il procedimento, non potendo considerare l’assetto normativo cristallizzato in via definitiva alla data dell’atto che vi ha dato avvio, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento adottato al termine di un procedimento avviato ad istanza di parte deve essere valutata con riferimento alla disciplina vigente al tempo in cui è stato adottato il provvedimento finale, e non al tempo della presentazione della domanda da parte del privato, dovendo ogni atto del procedimento amministrativo essere regolato dalla legge del tempo in cui è emanato in dipendenza della circostanza che lo jus superveniens reca sempre una diversa valutazione degli interessi pubblici (cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato sez. III, 29 aprile 2019, n. 2768);

- nel caso in esame, poiché la domanda in sanatoria è stata scrutinata solo nell’anno 2018, sotto il vigore della nuova formulazione dell’art. 39, comma 4, della legge n. 724 del 1994, l’Amministrazione era quindi tenuta a chiedere, prima di determinarsi negativamente, l’integrazione della documentazione ritenuta mancante;

- peraltro, diversamente opinando, l’emanazione della novella del 1996 risulterebbe priva di “causa” normativa, dal momento che, alla data della sua entrata in vigore, era già scaduto il termine per la presentazione delle domande (1 marzo 1995);

- l’illegittimità sopra accertata consente di assorbire le restanti censure, aventi parimenti natura procedimentale, e quindi insuscettibili di garantire agli appellanti il conseguimento di utilità ulteriori;

- le spese di lite del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza, secondo la regola generale;

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