Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-04-26, n. 201802509

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-04-26, n. 201802509
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201802509
Data del deposito : 26 aprile 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 26/04/2018

N. 02509/2018REG.PROV.COLL.

N. 06500/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6500 del 2010, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato A M, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. F P in Roma, via Orestano, 21;

contro

Ministero della Giustizia non costituito in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, sentenza n. 6151del 2009.


Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Vista la memoria difensiva dell’appellante;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla pubblica udienza del giorno 15 marzo 2018 il Cons. Silvia Martino;

Udito l’avvocato Manauzzi, come da verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Con ricorso innanzi al T.a.r. del Lazio l’odierno appellante, già ispettore di polizia penitenziaria, impugnava il decreto del Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria in data 10.1.2005 con il quale gli era stata irrogata la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio con decorrenza dal 12.11.1996, data della sospensione dal servizio.

I fatti traggono origine dall’arresto dell’odierno appellante, avvenuto in data 12.11.1996, per le imputazioni di associazione a delinquere, estorsione e delitti contro la p.a. e dalla relativa sospensione obbligatoria dal servizio con pari decorrenza 12.11.1996, adottata dall’amministrazione.

Da quella data la vicenda giudiziaria e disciplinare del ricorrente proseguiva con varie fasi sino alla definitiva sentenza della Cassazione penale, Sez. V, n. 1289 del 10.12.2003, la quale – rigettando l’appello avverso la sentenza in data 31 gennaio 2003 della Corte d’appello di Salerno – confermava la precedente condanna del ricorrente per corruzione e tentata estorsione.

L’impugnato decreto del Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria datato 10.1.2005, tenuto conto della definitiva condanna, irrogava al ricorrente la sanzione disciplinare della destituzione con decorrenza dal 12.11.1996, data della iniziale sospensione dal servizio.

2. Innanzi al T.a.r. del Lazio il sig. -OMISSIS- deduceva:

1) Nullità del procedimento disciplinare per violazione dell’art. 15, comma 5, del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 : il procedimento era stato avviato il 21.5.2004 con la notifica dell’avvio di procedimento;
pertanto il termine di 45 giorni per la conclusione dell’istruttoria scadeva il 5.7.2004;
tuttavia pur richiesta dal funzionario istruttore una proroga datata 3.7.2004, essa era stata evasa soltanto dopo la citata scadenza del 5.7.2004;
il relativo provvedimento era stato adottato il 13.7.2004, a termini ormai spirati.

2) Violazione dell’art. 12 del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 e lesione del diritto di difesa . In particolare il ricorrente lamentava:

- che sia nella contestazione di addebiti del 26.5.2004 sia nella nota datata 21.10.2004, recante la convocazione dinanzi al Consiglio centrale di disciplina, gli addebiti mossi erano indicati solo con l’elencazione di alcuni articoli del decreto legislativo n. 449/1992;

- che la motivazione del Consiglio centrale di disciplina individuava i fatti e le singole circostanze oggetto di contestazione e autonoma valutazione disciplinare in alcuni passaggi della sentenza in data 31 gennaio 2003 della Corte d’appello di Salerno (pagg. 1, 3, 17, 18), non rinvenibile nel fascicolo istruttorio e quindi non oggetto di adeguato contraddittorio in sede disciplinare;

3) Violazione dell’art. 15, commi 4 e 5, del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 ;

4) Decadenza dell’azione disciplinare per lo spirare del termine di cui all’art. 6, comma 4, del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 d.lgs.n. 449, e relativa violazione di legge : il procedimento disciplinare era stato riattivato il 21.5.2004 (data della contestazione degli addebiti) o, a tutto voler concedere, il 28.5.2004 (data della notifica della contestazione degli addebiti), sicché alla data del 30.11.2004 (data della deliberazione del Consiglio centrale di disciplina) i 90 giorni imposti dal citato art. 6, d.lgs. n. 449/1992 erano abbondantemente decorsi;

5) Violazione di legge. Improcedibilità del procedimento disciplinare e nullità di tutti gli atti compiuti per violazione dell’art. 120 del testo unico di cui al D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3 : sarebbe stato violato l’art. 120 del testo unico di cui al D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, laddove stabilisce che il procedimento disciplinare si estingue quando siano decorsi novanta giorni dall'ultimo atto senza che nessun ulteriore atto sia stato compiuto.

In particolare, dal 16.7.2004 (data della Relazione conclusiva dell’istruttore: nota prot. n. 1282/R.D. del 16.7.2004) al 27.10.2004 (data di notifica della convocazione dinanzi al Consiglio centrale di disciplina) nessun atto procedimentale sarebbe stato compiuto;

6) Nel merito : il ricorrente sosteneva di non aver commesso alcun atto tale da meritare l’infamante condanna riportata e l’ulteriore mortificazione di un provvedimento di destituzione;

7) In subordine, illegittima prosecuzione della sospensione cautelare : violazione dell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19.

Nella resistenza del Ministero della Giustizia, il T.a.r. respingeva tutti i motivi di ricorso, sulla scorta delle seguenti considerazioni.

In primo luogo, la notifica dell’avvio di procedimento risultava essere stata effettuata al ricorrente in Lariano, da parte della locale stazione dei carabinieri, in data 28.5.2004 e non il 21.5.2004;
sicché il termine di 45 giorni per la conclusione dell’istruttoria scadeva non il 5.7.2004 ma il 12.7.2004.

In particolare:

- la richiesta di proroga, datata 3.7.2004, era stata comunque effettuata nei termini;

- l’istruttoria si era conclusa, con il relativo invio degli atti e della Relazione conclusiva da parte del funzionario istruttore, in data 16.7.2004, e quindi – in ogni caso – entro il termine complessivo di 60 giorni (45 più i 15 di proroga), sia considerando la data di avvio del procedimento asserita in ricorso (21.5.2004) sia considerando la data di avvio risultante dalla citata notifica da parte dei Carabinieri di Lariano (28.5.2004).

In ogni caso, sul piano interpretativo, il T.a.r. riteneva che il termine di 45 giorni per la conclusione dell’istruttoria decorresse non dall’avvio del procedimento ma dalle giustificazioni - o dalla eventuale richiesta di accertamenti - dell’inquisito.

Sul piano del diritto di difesa, osservava che il ricorrente era ben consapevole degli addebiti mossigli ed oggetto di valutazione disciplinare.

In particolare, la citata comunicazione di avvio del procedimento disciplinare datata 26.5.2004 recava un chiaro rinvio alla sentenza in data 31 gennaio 2003 della Corte d’appello di Salerno, ai fatti ivi esposti e alla circostanza che quella sentenza d’appello era stata confermata dalla Corte di cassazione con la sentenza del 17.11.2003.

Il ricorrente era al corrente del contenuto della sentenza d’appello che lo aveva condannato;
e ne era in possesso, come risultava dalla nota del 16.6.2004 (allegato 6 al ricorso) da lui indirizzata al funzionario istruttore e recante tra l’altro: 1) richiesta di copia della sentenza della Corte di Cassazione del 17.11.2003 (e non già della sentenza di condanna in grado d’appello, pertanto - all’evidenza – in possesso del ricorrente e da lui ben conosciuta);
2) richiesta dei verbali d’udienza relativi alle deposizioni raccolte nel processo di primo grado (a riprova, dunque della ritenuta superfluità di dati relativi al processo d’appello);
3) nomina del difensore nel procedimento disciplinare.

Quanto al fatto che non fosse stata accolta la richiesta di acquisire i verbali delle deposizioni rese nel procedimento penale e la richiesta di nuova escussione di quelle deposizioni, il T.a.r. osservava che, correttamente, il funzionario istruttore aveva ritenuto la richiesta non solo tardiva, in quanto intervenuta oltre la scadenza dei termini di cui all’art. 12 del decreto legislativo n. 449/1992 ma anche inconferente sul piano disciplinare, essendo gli accertamenti dei fatti coperti da una sentenza penale irrevocabile.

Secondo il giudice di prime cure, non era stato neppure violato il termine decadenziale di cui all’art. 6, comma 4, del decreto legislativo n. 449/1992.

Tale disposizione prevede che la destituzione per condanne quali quella del ricorrente sia inflitta all'esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna e concluso nei successivi novanta giorni.

Il termine di novanta giorni invocato dal ricorrente doveva essere computato non dall’avvio o dalla prosecuzione del procedimento disciplinare ma dalla scadenza del precedente termine di centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione aveva avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna.

Il termine complessivo da rispettare, dunque, era di duecentosettanta giorni dalla data in cui l'amministrazione aveva avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna. Termine che risultava abbondantemente rispettato nel caso di specie, poiché la sentenza risultava pervenuta all’amministrazione il 4.5.2004 sicché il procedimento disciplinare:

- era stato avviato nel rispetto dei centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione aveva avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna, poiché quella notizia era pervenuta il 4.5.2004 ed il procedimento era stato attivato, a tutto voler concedere, il successivo 28.5.2004 (data della notifica della contestazione degli addebiti);

- era stato concluso nel rispetto dei complessivi duecentosettanta giorni dalla notizia della sentenza irrevocabile di condanna, poiché quella notizia, era stata ricevuta il 4.5.2004 ed il procedimento si è concluso con l’impugnato decreto del Capo Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria in data 10.1.2005.

Anche il motivo sub 5) veniva ritenuto infondato dal T.a.r. perché il termine invocato era stato interrotto dalla nota D.A.P. prot. n. 267884 – 2004 del 30.7.2004 con cui l’Ufficio disciplina aveva trasmesso al Consiglio centrale di disciplina il fascicolo del procedimento.

Nel merito, la sentenza rilevava poi che l’atto impugnato era stato fondato sulle risultanze in fatto, ormai incontestabili di una sentenza penale passata in giudicato e che nella propria motivazione l’amministrazione aveva dato conto in modo esauriente delle valutazioni che, in applicazione dell’art. 6 del decreto legislativo n. 449/1992, avevano indotto gli organi disciplinari a ritenere la condotta appurata incompatibile con l’ulteriore permanenza in servizio del ricorrente.

Quanto alla dedotta violazione dell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, il T.a.r. sottolineava che, nella vicenda de qua , si erano succedute diverse tipologie di sospensione:

- decreto di sospensione obbligatoria dal servizio in data 19.11.1996;

- decreto in data 5.12.1997, di tramutazione - in esito alla richiesta di rinvio a giudizio - della sospensione dal servizio, ai sensi dell’art. 7, comma 2, del decreto legislativo n. 449/1992, da obbligatoria a facoltativa (tipologia di sospensione, quest’ultima, per la quale, come indicato dalla Corte costituzionale (da ultimo sentenza n. 264 del 2003), non sussiste il limite di durata, nel permanere delle esigenze cautelari;

- ulteriore tramutazione della sospensione dal servizio, ai sensi dell’art. 7, comma 1, del decreto legislativo n. 449/1992, da facoltativa in obbligatoria (decreto in data 12.4.2001), per effetto del nuovo arresto del ricorrente nel medesimo procedimento penale;

- decreto in data 28.3.2003, di mantenimento della sospensione obbligatoria, ai sensi dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97, per effetto della sentenza di condanna del ricorrente emessa dalla Corte d’appello di Salerno in data 31.1.2003.

Pertanto il caso di specie aveva visto il succedersi, in esito ai vari e diversi accadimenti del procedimento penale, di altrettanto vari e diversi provvedimenti di sospensione, nessuno dei quali aveva superato il termine quinquennale di cui all’art. 9, comma 2, della legge n. 19/1990.

3. Il ricorso in appello del sig. -OMISSIS- è affidato ai seguenti motivi:

1) in relazione ai motivi di carattere procedimentale sostiene innanzitutto che non sarebbe corretto, come fatto dal TAR, fare riferimento alla data di richiesta della proroga da parte del funzionario istruttore, perché solo la concessione delle proroga impedisce lo scadere del termine. Neppure è certo che sia stato rispettato il termine complessivo di 60 giorni poiché l’unica data certa sarebbe quella del deposito del fascicolo presso il DAP, avvenuta il 23.7.2004. Non sarebbe poi condivisibile che i termini decorrano non già dall’avvio dell’istruttoria, ma dall’invio delle giustificazioni;

2) lamenta ancora la violazione del diritto di difesa atteso che non solo la sentenza della Corte d’appello, cui fa riferimento il TAR, non era agli atti del fascicolo istruttorio, ma i vizi dedotti avevano ben più ampia portata;

3) in relazione alla violazione dell’art. 15, commi 4 e 5 del d.lgs. n. 449 del 1992 sostiene oggi che le richieste respinte dal funzionario istruttore erano state in parte anticipate via fax il 16.6.2004 e quindi prima dello scadere del termine;

4) ribadisce che sarebbe stato violato il termine di cui all’art. 6, comma 4, del d.lgs. n. 449/92 e quello di cui all’art. 120 del Testo unico n. 3/57;

5) ribadisce altresì, nel merito, che il decreto sarebbe tautologico perché richiama non già condotte individuate in concreto bensì solo mediante indicazione della rilevanza penale delle stesse, mentre gli unici comportamenti specificati non risultano essere emersi nel corso dell’istruttoria disciplinare (“ rapporti tenuto all’esterno dal medesimo con soggetti dediti ad attività illecite con passate e possibili future esperienze carcerarie ”);

6) la sentenza appellata sarebbe altresì erronea nella parte in cui ha rigettato la censura relativa alla durata della sospensione cautelare.

4. Con la memoria conclusionale, l’appellante si è incentrato sul motivo relativo alla “ nullità del procedimento disciplinare per violazione dell’art. 15, comma 5 del d.lgs n. 449/92 ”.

Ritiene infatti che detto motivo sia assorbente rispetto alle altre doglianze (alle quali comunque non rinuncia).

In particolare, l’appellante concorda con il giudice di primo grado che la data a partire dalla quale decorre il termine di 45 giorni per la conclusione dell’istruttoria è quella della contestazione degli addebiti avvenuta con comunicazione notificata in data 28.05.2004.

In questo caso, a mente del richiamato art. 15, comma 5, l’istruttoria relativa al procedimento si sarebbe dovuta concludere in assenza di proroga il giorno 12.07.2004, come dallo stesso Tribunale ammesso.

Stabilisce sempre la medesima disposizione che detto termine su istanza motivata può godere di una (sola) proroga al massimo di 15 giorni. Perché si possa accedere alla proroga occorre che la relativa istanza venga inoltrata o meglio depositata, trattandosi di atto recettizio, prima della scadenza naturale del termine, e quindi, nel caso in esame, prima del 12.07.2004.

Sarebbe però del tutto immotivata l’affermazione del giudice di prime cure secondo cui la richiesta di proroga datata 3.07.2004 è stata comunque effettuata nei termini.

Al riguardo ha sottolineato che la trasmissione della stessa al Ministero da parte del Funzionario Istruttore, a valere quale deposito ai fini interruttivi del termine di 45 giorni, è avvenuta solo il 13 luglio 2004 a mezzo telefax (come attesta il timbro sull’istanza) e quindi il giorno dopo la scadenza del termine di cui all’art. 15 del d. lgs. n. 449/93.

In sostanza, l’atto datato 3 luglio è stato trasmesso solo il 13 luglio.

L’appellante ha richiamato poi la disciplina dei termini processuali secondo cui i termini prorogabili debbono essere eventualmente prorogati prima della scadenza e non certamente dopo, essendo principio consolidato che pure un termine ordinatorio, ove non prorogato ex a rt. 154 c.p.c. prima della scadenza, diventi perentorio.

Prosegue sottolineando che nella sentenza impugnata il giudice, nel rigettare il primo motivo di impugnazione, non fa mai alcun riferimento alla natura dilatoria del termine.

Sostiene dunque che, se il giudice di primo grado ha imbastito la decisione di rigetto senza fare riferimento alle diverse conseguenze nel caso di sua inosservanza, oggi detto rilievo risulterebbe inammissibile perché non sottoposto al contraddittorio delle parti attraverso impugnazione incidentale.

In sostanza, non avendo il T.a.r. argomentato sulla natura del termine di cui trattasi, deve ritenersi che lo abbia considerato perentorio, analogamente a quanto dalla stesso giudice argomentato in ordine al rispetto del termine per la definizione del procedimento disciplinare.

L’appello, infine, è stato trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 15 marzo 2018.

5. In via preliminare, rileva il Collegio che, in appello, è inammissibile la mera riproposizione dei motivi e delle domande svolte in primo grado, essendo specifico onere della parte appellante formulare una critica puntuale della motivazione della sentenza impugnata (Cons. Stato, Sez. III, sentenza n. 4722 dell’11 ottobre 2017;
id, Sez. VI, sentenza n. 2782 del 23.6.2016).

Inoltre, la riproposizione in appello di tutte le domande e le eccezioni, in rito ed in merito, sollevate nel giudizio di primo grado, eventualmente assorbiti o non esaminati dal Tar, è onere che va assolto mediante richiamo specifico dei motivi già articolati con il ricorso di primo grado, così da consentire alle controparti di esercitare con pienezza il proprio diritto di difesa e, al giudice dell'appello, di avere il quadro chiaro del thema decidendum devoluto nel giudizio di secondo grado, sul quale egli è tenuto a pronunciarsi;
di conseguenza un rinvio indeterminato alle censure assorbite ed agli atti di primo grado che le contenevano, privo della precisazione del loro contenuto è inidoneo ad introdurre nel giudizio d'appello i motivi in tal modo (solo genericamente) richiamati (Cons. St., sez. V, sentenza n. 4471 del 26 ottobre 2016).

A mente di tali coordinate interpretative, ritiene il Collegio che, nel caso di specie, l’unico tema compiutamente riemerso in appello sia soltanto quello relativo al rispetto del termine per la conclusione dell’istruttoria disciplinare di cui all’art. 15, comma 5, del d.lgs. n. 449 del 1992.

Per il resto, l’appellante si è limitato a riprendere, in maniera sintetica, il contenuto delle censure proposte innanzi al T.a.r. le quali però – come si evince dalla surriportata esposizione in fatto - sono state tutte puntualmente confutate dal giudice di primo grado con argomentazioni che, in questa sede, vengono comunque integralmente richiamate e condivise dalla Sezione.

Per quanto poi concerne la questione relativa all’applicazione dell’art. 15, comma 5, del d.lgs. n. 449 del 1992, rileva il Collegio che la memoria del 9.2.2018 contiene deduzioni intempestive nonché proposte in violazione del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione e della natura puramente illustrativa delle comparse conclusionali (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, sentenza n. 3806 del 31 luglio 2017).

Ad ogni buon conto, osserva quanto segue.

La parte appellante sostiene che - siccome il giudice di prime cure ha respinto il primo motivo sulla base di argomentazioni volte a dimostrare che il termine previsto per la conclusione dell’istruttoria sarebbe stato di fatto rispettato - egli avrebbe implicitamente condiviso il presupposto da cui muoveva la censura, ovvero che il superamento di tale termine determini la nullità dell’intero procedimento.

Sicché oggi sarebbe impedito a questo giudice, in sede di appello, di esprimere una valutazione diversa poiché sul punto l’amministrazione avrebbe dovuto proporre impugnazione incidentale.

Va tuttavia escluso, a parere del Collegio, che sulla questione di diritto della natura del termine di cui all’art. 15, comma 5, del d.lgs. n. 449 del 1992, vi sia una statuizione implicita.

Il giudicato interno può infatti formarsi su un capo non impugnato della decisione ma non già su un argomento, sia pure di rilievo, posto nella sentenza impugnata a sostegno della decisione medesima (Cass. civ., Sez. lavoro, sentenza 10 gennaio 1984, n. 183, richiamata da Cons. St., Sez. V, sentenza n. 2424 del 20 aprile 2000).

Nel caso di specie, sul capo controverso, vi era soccombenza esclusivamente del ricorrente e non del Ministero;
quest’ultimo, pertanto, non aveva onere di proporre appello, ancorché il capo predetto fosse motivato (peraltro puramente in fatto) con un argomento in linea con la prospettazione del ricorrente.

Per contro, una volta che il ricorrente ha proposto appello contro il capo suddetto, si è determinato l’effetto devolutivo proprio di tale forma di gravame, con la conseguenza che questo Consiglio risulta investito, sia pure nell'ambito del capo di decisione oggetto di censura, del riesame di tutte le questioni da questo stesso capo implicate e, quindi, della rinnovazione del relativo giudizio (Cass. civ., Sez. I, sentenza 14 maggio 1991, n. 5388, pur essa richiamata da Cons. Stato, sentenza n. 2424/2000, cit.).

In definitiva, il giudice di appello che, investito del riesame della controversia, confermi la decisione impugnata previa modificazione della relativa motivazione ponendo a fondamento della decisione argomenti diversi da quelli prospettati dalle parti e ritenuti dal primo giudice, non viola alcun giudicato interno che può formarsi soltanto in relazione al petitum e alla causa petendi , ma non anche alla ratio decidendi (Cass. civ., Sez. III, 12 maggio 1981 n. 3143).

5.1. Ciò posto, per giurisprudenza amministrativa assolutamente pacifica, il termine del procedimento disciplinare di cui all'art. 15, comma 5, del d. lgs. n. 449 del 1992, relativo alla conclusione della fase istruttoria, non ha carattere perentorio, non essendo il superamento dello stesso, in quanto riferito ad un atto endoprocedimentale, espressamente sanzionato dalla norma con la decadenza dal potere disciplinare o comunque con l’inefficacia degli atti compiuti dopo la sua scadenza, sicché l'eventuale accertamento del superamento del termine non cagiona l'illegittimità della sanzione disciplinare irrogata, essendo garanzia sufficiente per l'incolpato quella del termine perentorio fissato per l'intero provvedimento disciplinare.

In linea generale, nel pubblico impiego, termini perentori del procedimento disciplinare sono quelli fissati dal legislatore che statuiscono il tempo massimo entro cui lo stesso deve concludersi mentre gli ulteriori termini, volti a scandire le fasi interne al procedimento, hanno funzione meramente sollecitatoria (così, da ultimo, Cons. Stato, Sez. IV, sentenza n. 4586 del 3 ottobre 2017).

Va al riguardo ribadito il consolidato indirizzo della giurisprudenza che, nell’ambito del procedimento disciplinare, qualifica come perentori i soli termini posti a garanzia dei diritti di difesa dell'inquisito, quali quelli inerenti alla presentazione delle giustificazioni, alla presa visione degli atti dell'inchiesta, al preavviso di convocazione avanti alla commissione di disciplina.

I restanti termini assolvono funzione ordinatoria quanto alle cadenze temporali del procedimento e la loro inosservanza non esplica effetto invalidante in ordine all'atto che irroga la sanzione disciplinare (cfr. Cons. Stato A.p. n. 4 del 25 gennaio 2000;
Sez. VI^, n. 80 del 17 gennaio 2008;
id., n. 3963 del 4 luglio 2011).

Ha, quindi, carattere ordinatorio e non perentorio il termine di 45 giorni per la conclusione dell'inchiesta disciplinare, che per la complessità dell'istruttoria può richiedere tempi eccedenti la durata ritenuta dalla norma regolamentare in via generale congrua per la sua definizione (cfr. Cons. Stato, A.p. n. 10 del 27 giugno 2006;
Sez. VI^, n. 2506 del 3 maggio 2010).

Nel caso di specie, non ha quindi alcun rilievo invalidante la circostanza che la proroga dei termini per la conclusione dell’istruttoria sia stata accordata dopo la scadenza del primo termine di 45 giorni, anche perché, come sostanzialmente sottolineato anche dal giudice di prime cure, il superamento di detto termine non ha comportato alcuna violazione dei diritti di difesa dell’incolpato, a cui è stata data la possibilità di presentare le proprie giustificazioni e avanzare le proprie richieste istruttorie, ancorché poi disattese dal funzionario istruttore.

6. In definitiva, per quanto testé argomentato, l’appello deve essere respinto.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese in mancanza di costituzione dell’amministrazione appellata.

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