Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-03-24, n. 202102493

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-03-24, n. 202102493
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202102493
Data del deposito : 24 marzo 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/03/2021

N. 02493/2021REG.PROV.COLL.

N. 06005/2011 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6005 del 2011, proposto dalla Edilhouse s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore , rappresentata e difesa dall’avvocato Antonio D’Aloia, con domicilio eletto presso lo studio Graziadei in Roma, via Antonio Gramsci, n. 54;

contro

il Comune di Parma, in persona del Sindaco pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato A R, con domicilio eletto presso lo studio di questi in Roma, viale delle Milizie, n. 1;

e con l'intervento di

ad opponendum :
Condominio di via Marmolada n. 2 di Parma, in persona dell’amministratore pro tempore , rappresentato e difeso dall’avvocato Adriano Giuffrè, con domicilio eletto presso lo studio di questi in Roma, via dei Gracchi, n. 39;

per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia - Romagna, sezione staccata di Parma, sezione prima, n. 154/2011, resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Parma;

visto l’atto d’intervento del Condominio di via Marmolada n. 2 di Parma;

visti tutti gli atti della causa;

relatore, nell’udienza pubblica del giorno 29 settembre 2020, il consigliere Francesco Frigida e dati per presenti, ai sensi dell’articolo 84, comma 5, del decreto - legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge 24 aprile 2020, n. 27, gli avvocati Antonio D’Aloia e A R;

ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il Comune di Parma, a seguito di un sopralluogo effettuato dai propri tecnici, ha riscontrato, mediante il verbale di accertamento prot. gen. n. 73180 del 22 aprile 2010, che, con riferimento al condominio odierno interveniente, in alcuni locali posti al piano seminterrato, a fronte della licenza edilizia n. 473 del 1953, recante la destinazione di quei locali a “cantina”, erano stati eseguiti senza titolo i lavori di « demolizione in breccia di parete portante al fine di ottenere una porta per accedere all’originario vano cantine comune », di « demolizione di due paretine divisorie che limitavano altrettante cantine », di « tamponamento dell’apertura che consentiva l’accesso alle due cantine sopradescritte », di « cambio di destinazione d’uso dei locali da cantina ad abitazione » e ha segnalato l’impossibilità di recuperare i predetti locali ad uso civile abitazione, siccome contraddistinti da « piano di calpestio al di sotto della quota stradale ».

Di conseguenza il Comune di Parma, tramite la nota prot. gen. n. 87203 del 17 maggio 2010, ha rappresentato alla società odierna appellante, proprietaria dei locali de quibus , l’avvio del procedimento sanzionatorio per il « cambio di destinazione d’uso con opere di locali da cantina ad abitazione » e con successivo provvedimento prot. gen. n. 162536 del 15 settembre 2010, le ha ordinato, ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. n. 380 del 2001, la rimozione delle opere abusive e il ripristino dello stato dei luoghi entro i successivi sessanta giorni.

2. Avverso i tre citati atti dell’amministrazione comunale (verbale di accertamento, avviso di avvio del procedimento sanzionatorio, ordine di riduzione in pristino), la società interessata ha proposto il ricorso di primo grado n. 237 del 2010 dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia - Romagna, sezione stacca di Parma.

2.1. Il Comune di Parma si è costituito nel giudizio di primo grado, resistendo al ricorso.

3. Con l’impugnata sentenza n. 154 del 25 maggio 2011, il T.a.r. per l’Emilia - Romagna, sezione stacca di Parma, sezione prima, ha respinto il ricorso e ha compensato tra le parti le spese di lite.

4. Con ricorso ritualmente notificato e depositato – rispettivamente in data 30 giugno 2011 e in data 13 luglio 2011 – la società interessata ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza, articolando cinque motivi, di cui il primo ripropositivo di tutti i motivi del ricorso di primo grado.

5. Il Comune di Parma si è costituito in giudizio, resistendo al gravame.

6. Con atto notificato in data 10 agosto 2011 e depositato in data 11 agosto 2011, è intervenuto in giudizio ad opponendum il condominio in cui si trovano i locali oggetto del contendere, chiedendo il rigetto dell’impugnazione.

7. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica del 29 settembre 2020.

8. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e in diritto.

9. Innanzi tutto il Collegio osserva che l’ordinanza della Corte di cassazione, terza sezione civile, n. 26291 del 17 ottobre 2019, versata in atti dall’appellante in data 4 dicembre 2019, pronunciata in una controversia intervenuta tra il condominio e la società, non ha rilievo nel presente giudizio, in quanto a differenza di quanto sostenuto da quest’ultima, la dichiarata inammissibilità, da parte della Corte di cassazione, della censura, proposta dal condominio, diretta a far dichiarare che i locali oggetto di giudizio, al fine della determinazione del danno da infiltrazioni di acqua, non sarebbero stati destinati ad abitazione, bensì a cantine, non comporta il definitivo accertamento del fatto che tali locali non sarebbero da lungo tempo utilizzati come cantine, ma come appartamento. con l’ordinanza citata non modifica in alcun modo la materia del contendere essendo rilevante, non il momento in cui l’utilizzo, non corrispondente al titolo edilizio, è iniziato, ma, quando l’Amministrazione ne abbia avuto piena conoscenza.

10. Con il primo motivo d’impugnazione, l’appellante ha riproposto in blocco i cinque motivi del ricorso di primo grado. Al riguardo si sottolinea che il primo, il terzo, il quarto e il quinto motivo del ricorso originario sono sostanzialmente sovrapponibili al secondo, al terzo, al quarto e al quinto motivo di gravame e, pertanto, la loro analisi è assorbita dalla valutazione di questi ultimi, mentre il secondo motivo del ricorso originario non trova corrispondenza in singoli motivi dell’impugnazione, con la conseguenza che il rinvio operato dal primo motivo d’impugnazione è di fatto utile soltanto per riproporre tale motivo.

Ciò posto, si rileva che, mediante il secondo motivo del ricorso di primo grado (richiamato, come precisato, attraverso il primo motivo di gravame), la società ha sostenuto la violazione degli articoli 10 e 33 del d.P.R. n. 380/2001, nonché della legge regionale dell’Emilia - Romagna n. 31/2002 e l’eccessività della sanzione. In particolare, ad avviso dell’appellante, il T.a.r. avrebbe errato nel reputare applicabile al caso di specie la disposizione di cui all’art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380/2001 e la conseguente necessità di permesso di costruire, poiché non vi sarebbe stato alcun aumento di volumetria e di unità immobiliari né di volumetria e conseguentemente non sarebbe stato possibile emanare l’ordine la demolizione di cui all’art. 33 del medesimo d.P.R., bensì eventualmente le sanzioni pecuniarie di cui all’art. 37. Il che sarebbe confermato dalla legge regionale dell’Emilia - Romagna n. 31/2002 (abrogata dalla legge regionale n. 14/2018, ma vigente al momento del provvedimento repressivo) che prevedeva che i cambi di destinazione senza opere sono soggetti solo a denuncia di inizio attività (art. 26, comma 2: « Il mutamento di destinazione d'uso senza opere conforme alle previsioni urbanistiche comunali e non connesso a interventi di trasformazione dell'immobile è soggetto a denuncia di inizio attività »).

Tale doglianza – strettamente embricata con la successiva, sicché le motivazioni di cui infra al punto 11 vanno riferite anche ad essa – è infondata, in quanto vi è stato un aumento delle unità abitative attraverso opere di alterazione della struttura;
inoltre la licenza comunale aveva previsto che l’allora immobile costruendo avrebbe dovuto consistere in otto unità abitative, mentre, attraverso i lavori oggetto di causa, ne è stata aggiunta una nona.

11. Tramite il secondo motivo d’impugnazione, la società interessata ha sostenuto l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui il T.a.r. ha reputato l’intervento edilizio per cui è causa come ristrutturazione edilizia e non ha ritenuto sussistente la violazione degli articoli 10 e 33 del d.P.R. n. 380/2001, 1 della legge n. 689/1981 (divieto di retroattività delle sanzioni amministrative) e 1 e 3 della legge n. 241/1990, nonché l’eccesso di potere per difetto di istruttoria e di motivazione.

In particolare, ad avviso dell’appellante, la fattispecie de qua non rientrerebbe nel perimetro applicativo di cui agli articoli 10, comma 1, lettera c) e art. 33 del d.P.R. n. 380/2001, non trattandosi di ristrutturazione edilizia, bensì di manutenzione straordinaria o risanamento conservativo;
inoltre occorrerebbe tenere in considerazione che i lavori sono stati effettuati nell’immediatezza del rilascio della licenza edilizia e che erano stati divisati dall’allora proprietario fin dalla presentazione di denuncia di opere delizie del 1953;
comunque negli anni cinquanta del secolo scorso il mutamento di destinazione edilizia sarebbe stato libero, non necessitando di titolo.

Siffatte doglianze sono infondate.

Del tutto correttamente, infatti, il T.a.r. ha affermato che « l’esecuzione di opere edilizie che incidano sulla struttura di un edificio preesistente e ne comportino il mutamento di destinazione d’uso va qualificata come ristrutturazione edilizia non già come manutenzione straordinaria o risanamento conservativo (v. TAR Liguria, Sez. I, 8 febbraio 2006 n. 103), tale dovendosi considerare anche il caso in cui il risultato dell’intervento di variazione dell’edificio preesistente consista nella realizzazione di nuove unità abitative (v. TAR Liguria, Sez. I, 18 settembre 2003 n. 1024) » . Sul punto il Collegio reputa che la trasformazione di una cantina in abitazione sia una ristrutturazione edilizia, poiché la cantina e l’abitazione hanno natura differente: pertinenziale la prima e di unità immobiliare autonoma la seconda;
la predetta trasformazione, invero, comporta l’aumento un aumento delle unità immobiliari dell’edificio e un conseguente aumento del carico urbanistico. Non si è trattato di « modestissimi interventi », come dedotto dalla società interessata, in quanto, vi è stata una non trascurabile modificazione dei locali mediante l’eliminazione di alcune pareti divisorie e l’apertura e chiusura di porte e accessi;
ad ogni modo, ai fini della distinzione tra ristrutturazione e manutenzione, è determinante più che l’aspetto quantitativo quello qualitativo e, pertanto, a prescindere dalla vastità delle opere, il cambiamento della destinazione d’uso comporta ex se una ristrutturazione. Ne deriva la necessità di un titolo edilizio, mancante nel caso di specie, cosicché legittimamente il Comune di Parma ha applicato gli articoli 10, comma1, lettera c), e 33 del d.P.R. n. 380/2001, senza che sia altresì riscontrabile alcun difetto d’istruttoria e di motivazione.

Si evidenzia peraltro che, a differenza di quanto sostenuto dall’appellante, negli anni cinquanta del ventesimo secolo nel Comune di Parma il mutamento della destinazione d’uso non era libero, in quanto all’epoca, prima dell’emanazione del decreto ministeriale (Ministero per i lavori pubblici) 2 aprile 1968, n. 1444, era vigente il regolamento edilizio comunale n. 11 del 9 novembre 1929, che, all’art. 12 (richiamato nella licenza comunale n. 473/1953), per cui « chiunque intenda intraprendere nuove fabbriche o apportare modificazioni alle già esistenti (…) o variare opere già approvate (…) deve farne preventiva denuncia all’autorità comunale accompagnata dai disegni e progetti ».

La circostanza che il regolamento edilizio non prevedesse le conseguenze dell’abuso è irrilevante, giacché il regime sanzionatorio applicabile agli abusi edilizi è quello in vigore al momento dell’irrogazione della sanzione e non quello dell’epoca di realizzazione dell’abuso (che tra l’altro è un illecito permanente), attesa la natura ripristinatoria della sanzione dell’ordine di demolizione, non sussumibile nel quadro delle pene afflittive, che soggiacciono al divieto di retroattività, ma al principio generale tempus regit actum , dovendosi aver riguardo non alla data dell’abuso edilizio, ma a al momento in cui l’amministrazione accerta l’illecito (cfr., ex aliis , Consiglio di Stato, sezione V, sentenza 12 ottobre 2018, n. 5887), il che nel caso di specie è avvenuto nel 2010.

Va inoltre sottolineato che il dedotto inserimento nella denuncia di opere delizie inoltrata al Comune di Parma nel 1953 dall’allora proprietario del fabbricato, recasse a matita o a penna, sulla planimetria del piano seminterrato la dicitura « app. vani 5, h. 2,74 » e l’accatastamento, fin dal 1956, come unità abitativa è del tutto ininfluente, poiché il titolo edilizio è soltanto la licenza comunale n. 473/1953, dove i locali seminterrati sono qualificati come cantina, non avendo rilievo le intenzioni dell’originario proprietario.

12. Con il terzo motivo d’impugnazione, l’appellante ha lamentato l’erroneità della sentenza impugnata laddove il T.a.r. ha escluso la rilevanza nel caso di specie dell’affidamento del privato per il decorso di un lungo periodo di tempo tra l’abuso edilizio e l’ordinanza repressiva, nonché della mancata specifica motivazione sulle ragioni di interesse pubblico sottese all’ordine di riduzione in pristino.

Il suddetto motivo è infondato. Del tutto correttamente, infatti, il collegio di primo grado ha affermato che « l’ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato che non richiede uno specifico apprezzamento delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di quest’ultimo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione, non potendo neppure ammettersi l’esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare ». Ed invero, alla luce di quanto chiarito dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato con la sentenza n. 9 del 2017, « il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell’abuso. Il principio in questione non ammette deroghe neppure nell’ipotesi in cui l’ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell’abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell’onere di ripristino »;
la giurisprudenza ha successivamente si è conformata costantemente e univocamente a siffatto principio (cfr., ex aliis , Consiglio di Stato, sezione II, sentenze 13 novembre 2020, n. 7015, 9 ottobre 2020, n. 6023, e 24 luglio 2020, n. 4725;
Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze 3 novembre 2020, n. 6771, e 26 ottobre 2020, n. 6498).

13. Tramite il quarto motivo di gravame, l’appellante censurato la sentenza impugnata nella parte in cui il T.a.r. ha considerato non sussistente la violazione degli articoli 3 della legge n. 241/1990 e 33 e seguenti del d.P.R. n. 380/2001 e l’eccesso di potere per insufficienza di motivazione e indeterminatezza del contenuto del provvedimento.

Segnatamente la società interessata ha sostenuto che l’amministrazione comunale avrebbe dovuto vagliare se il ripristino dello stato dei luoghi potesse mettere in pericolo la stabilità del fabbricato e, al verificarsi di tale ipotesi, sostituirlo con una sanzione pecuniaria, così come previsto dall’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001.

Questa doglianza è infondata, in quanto, come puntualmente specificato dal T.a.r., il primo atto del procedimento di repressione degli abusi edilizi è l’ordine di demolizione, affinché l’interessato provveda all’eliminazione del manufatto abusivo, mentre, soltanto nel caso di inerzia di questi, l’amministrazione comunale può procedere direttamente alla demolizione oppure infliggere la sanzione pecuniaria, in base alla natura e della gravità della violazione. Ne deriva che al momento dell’emanazione dell’ordine di riduzione in pristino il Comune non doveva valutare gli effetti della demolizione sulla stabilità dell’immobile, essendo questa valutazione procrastinata ex lege al successivo momento della scelta tra demolizione diretta e sanzione pecuniaria.

In tal senso si è espressa ripetutamente la giurisprudenza amministrativa, precisando che l’applicabilità della sanzione pecuniaria può essere decisa dall’Amministrazione solo nella fase esecutiva dell’ordine di demolizione e non prima (cfr. Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze 10 gennaio 2020, n. 254, 19 febbraio 2018, n. 1063, 10 novembre 2017, n. 5180, e 21 novembre 2016, n. 4855). In sostanza, la valutazione circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire, con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l’accertamento delle conseguenze derivanti dall’omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell’incidenza della demolizione sulle opere non abusive, dimodoché la verifica di cui all’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 380/2001 va compiuta su segnalazione della parte privata durante la fase esecutiva e non dall’amministrazione procedente all'atto dell'adozione del provvedimento sanzionatorio (cfr. Consiglio di Stato, sezione VI, sentenze 10 gennaio 2020, n. 254, e 13 maggio 2016, n. 1940).

14. Con il quinto motivo d’impugnazione, l’appellante ha contestato la sentenza impugnata laddove il T.a.r. ha ritenuto non annullabile l’ordine di demolizione in presenza della lamentata elusione dell’obbligo di avviso di avvio del procedimento, recato dall’art. 7 della legge n. 241/1990.

Sul punto la società ha dedotto l’amministrazione ha inviato l’avviso un mese dopo il sopralluogo da cui è scaturito il provvedimento repressivo e, pertanto, la comunicazione sarebbe stata di fatto inutile e sarebbe stata inviata solo per fornire una copertura formale ad una decisione già determinata, mentre sarebbe stato indispensabile, ai fini dell’utilità della partecipazione procedimentale, informare l’interessata prima della verifica dello stato dei luoghi.

Il suddetto motivo è infondato, poiché, a prescindere dalla questione della conformità dell’ iter procedimentale alla ratio del citato art. 7, l’ordine di demolizione, come evidenziato dal T.a.r., è un provvedimento vincolato e, quindi, anche ritenendo come omesso l’avviso (il che comunque non è), questo vizio non ridonderebbe in un’illegittimità del provvedimento in virtù dell’art. 21- octies , comma 2, della legge n. 241/1990.

In proposito si osserva che, in linea generale, il fine dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento deve essere individuato nella necessità di provocare la collaborazione dell’interessato, sicché, qualora la partecipazione dello stesso non avrebbe potuto avere alcuna influenza rispetto al provvedimento finale, deve ritenersi che non sussista tale obbligo di comunicazione (cfr., ex aliis , Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 3 dicembre 2018, n. 6824, e 13 agosto 2018, n. 4918);
l’obbligo de quo , invero, viene meno (e si risolve in un aggravio procedimentale) qualora nessuna effettiva influenza potrebbe avere la partecipazione del privato rispetto alla portata non discrezionale del provvedimento finale, come prevede l’art. 21-octies, comma 2, della legge n. 241/1990 (cfr. Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 18 maggio 2015, n. 2509).

Con specifico riferimento all’ordine di demolizione di opere abusive, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che « in relazione alla natura affatto vincolata del potere sanzionatorio repressivo, estrinsecato attraverso il provvedimento che ingiunge la demolizione delle opere edilizie abusive, non è dovuta, anche a prescindere dall’applicazione dell’art. 21 octies della legge n. 241/1990, la comunicazione d’avvio del procedimento » (Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 20 maggio 2014, n. 2568;
nello stesso senso cfr., ex aliis , Consiglio di Stato, sezione IV, 25 giugno 2013, n. 3471;
Consiglio di Stato, sezione VI, 5 agosto 2013, n. 4075).

15. In conclusione l’appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza impugnata.

16. In applicazione del principio della soccombenza, al rigetto dell’appello segue la condanna dell’appellante al pagamento delle spese di lite del presente grado di giudizio, che, tenuto conto dei parametri stabiliti dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55 e dall’art. 26, comma 1, del codice del processo amministrativo, si liquidano in euro 2.000 (duemila), in favore di ciascuna delle altre due parti in causa, per un totale di euro 4.000 (quattromila), oltre agli accessori di legge (I.V.A., C.P.A. e 15% a titolo di rimborso di spese generali), se dovuti.

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