TAR Torino, sez. II, sentenza 2022-10-20, n. 202200872

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Torino, sez. II, sentenza 2022-10-20, n. 202200872
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Torino
Numero : 202200872
Data del deposito : 20 ottobre 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 20/10/2022

N. 00872/2022 REG.PROV.COLL.

N. 00404/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 404 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato C C O, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

ARPEA - Agenzia Regionale Piemontese per le Erogazioni in Agricoltura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato P C M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;
Regione Piemonte, non costituita in giudizio;

per l'annullamento

del provvedimento emesso da ARPEA e relativo alla “Chiusura del procedimento relativamente al recupero delle somme indebitamente percepite per la Domanda Unica. Legge 241/90 e s.m.i” trasmesso via P.e.c. in data -OMISSIS-;

di ogni altro atto presupposto, conseguente, o comunque connesso, ivi compresa la comunicazione di avvio del medesimo procedimento (prot. -OMISSIS-).


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio della ARPEA - Agenzia Regionale Piemontese per le Erogazioni in Agricoltura;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 ottobre 2022 il dott. Marcello Faviere e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il sig. -OMISSIS-, esercente attività agricola presso la propria azienda sita nel comune di -OMISSIS-, è destinatario di un provvedimento, meglio indicato in epigrafe, con cui la Agenzia Regionale Piemontese per le Erogazioni in agricoltura (ARPEA), dopo rituale procedimento amministrativo, ha disposto il recupero delle somme erogate a seguito di domande uniche in ambito PAC per le campagne dal 2010 al 2013 (per un importo pari ad euro 236.036,46).

La motivazione del provvedimento risiede nel fatto che l’amministrazione ha appreso, a seguito di segnalazione della Guardia di Finanza, della esistenza in capo al sig. -OMISSIS- di una sentenza di condanna emessa dal GIP del Tribunale di -OMISSIS- (in data -OMISSIS-), in applicazione dell’art. 444 c.p.p., per il reato di cui all’art. 260 del D.Lgs. n. 152/2006 (oggi versato nell’art., 452 quaterdecies e contemplato dall’art. 67, comma 8, del D.Lgs. n. 159/2011 e, prima ancora, dall’art. 10 della L. n. 575/1965, tra le ipotesi di reato ostative alla concessione di contributi pubblici).

Avverso il provvedimento è insorto l’interessato con ricorso notificato il 25.05.2020, ritualmente depositato avanti questo Tribunale, con il quale lamenta, in otto articolati motivi, violazione di legge ed eccesso di potere sotto plurimi profili.

Per resistere al gravame si è costituita la ARPEA (il 10.07.2020) che ha depositato documenti e memoria (il 19.08.2020), seguita dal deposito di memoria di replica del ricorrente (il 21.09.2022).

All’udienza pubblica del 12.10.2022 la causa è stata trattenuta in decisione.

2. Il ricorso è parzialmente fondato.

3. Con il primo motivo di ricorso si lamenta l’illegittimità del provvedimento con riferimento al fatto che la Procura Regionale della Corte di Conti del Piemonte ha contemporaneamente avviato un procedimento di recupero nei confronti del sig. -OMISSIS-, riguardante gli stessi contributi oggetto dell’atto impugnato. Tale duplicazione renderebbe il provvedimento illegittimo per eccesso di potere, ingiustizia manifesta e violazione del principio di proporzionalità.

La doglianza non persuade.

È pacifico in giudizio che la vicenda di cui si controverte è stata segnalata dalla Guardia di Finanza anche alla Procura Regionale presso la Corte dei Conti e che l’odierno ricorrente sia stato citato, ai sensi dell’art. 86 dell’allegato 1 del del D.Lgs. n. 174/2016 (Codice di Giustizia Contabile – C.G.C.), a comparire avanti la sezione giurisdizionale della Corte dei Conti per danno erariale.

Ciò premesso il collegio osserva che nel nostro ordinamento amministrativo contabile non sussiste alcuna incompatibilità tra il giudizio di cui sopra e qualsiasi azione amministrativa, esercitata anche nelle forme dell’autotutela, volta al recupero di somme indebitamente erogate.

In tema di contributi pubblici, peraltro, la giurisprudenza ha sancito l’esistenza di un vero e proprio dovere dell'amministrazione ad intervenire in via amministrativa. La stessa infatti, è tenuta a porre rimedio alle sfavorevoli conseguenze derivate all'erario per effetto di una erogazione non dovuta di contributi pubblici, non sussistendo alcun margine di apprezzamento discrezionale, giacché l'interesse pubblico all'adozione dell'atto sfavorevole è in re ipsa quando ricorre un indebito esborso di denaro pubblico con vantaggio ingiustificato per il privato (cfr. ex multis C.G.A.R.S., 30/03/2020, sent. n. 223).

Nello stesso ambito, del resto, sussiste la responsabilità erariale e, quindi, il dovere della Corte dei Conti di attivare i procedimenti di cui agli artt. 51 e ss. del c.g.c., nei confronti dei soggetti privati che, avendo percepito fondi pubblici, non ne avevano titolo o abbiano disposto della somma in modo diverso da quello programmato, poiché tra la P.A. che eroga un contributo e colui che lo riceve si instaura un rapporto di servizio, inserendosi il beneficiario dell'importo nel procedimento di realizzazione degli obiettivi pubblici (cfr. ex multis , Cass. Civ., Sez. Unite, 24/01/2022, ord. n. 1994).

Il rapporto tra giurisdizione contabile e azione amministrativa di secondo grado deve pertanto risolversi applicando gli ordinari principi del diritto amministrativo secondo i quali tra i due rimedi sussiste autonomia con riferimento alla attivazione e dalla chiusura dei relativi procedimenti, non costituendo l’esistenza dell’uno causa di improcedibilità dell’altro. Ciò non toglie, comunque, che il necessario coordinamento tra le due istanze di tutela dell’erario deve poi manifestarsi in sede di esecuzione del recupero, poiché sia l’azione amministrativa che quella giudiziale devono tenere di conto degli eventuali parziali o totali recuperi già avvenuti.

Per tale ragione il primo motivo di ricorso non è fondato.

4. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta violazione dell’art. 11 delle preleggi al c.c., dell’art. 2 c.p. e del generale principio di irretroattività della legge.

Il ricorrente sostiene che la revoca dei contributi non risulterebbe applicabile al caso di specie perché il reato per il quale lo stesso è stato condannato è stato commesso in un momento antecedente la data della sua inclusione tra le condanne legittimanti la richiesta di restituzione delle somme (vale a dire il -OMISSIS-).

Ciò deriva da una interpretazione costituzionalmente orientata dell’ordinamento poiché, in alternativa, si prospetterebbe una questione di compatibilità costituzionale delle norme applicabili al caso di specie.

In subordine il ricorrente evidenzia che il recupero non sarebbe possibile comunque per l’annata 2010 poiché la domanda unica per tale annata è stata presentata in data -OMISSIS-, vale a dire prima dell’entrata in vigore della disposizione sopra citata.

La ricostruzione di parte ricorrente non è condivisibile.

Il reato patteggiato dal ricorrente (“Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”, punito dall’allora vigente art. 260 del D.Lgs. n. 152/2006 versato, a decorrere dal 6.04.2018, all’art. 452-quaterdecies c.p.) è stato inserito tra le condotte di cui all’art. 51, comma 3bis c.p.p. a far data dal 7.09.2010 (data di entrata in vigore della L. n. 136/2010). La sentenza di condanna del ricorrente è del -OMISSIS-.

La disposizione di cui all’art. 67, comma 8, del D.Lgs. n. 159/2011 (già art. 10 della L. n. 575/1965) estende gli effetti preclusivi previsti per le misure di prevenzione (inclusa la impossibilità di ottenere “ contributi, finanziamenti o mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali ”) anche alle ipotesi di condanne previste per uno dei delitti di cui al citato art 51, comma 3 bis. A far data dal 7.09.2010, anche il reato di cui si controverte rientra tra quelli coperti dall’effetto preclusivo e sanzionatorio di cui alle citate disposizioni del codice antimafia.

Il momento rilevante per l’operatività del divieto di erogazione dei contributi di cui all’art. 67, comma 1 lett g) del D.Lgs. n. 159/2011 è quello della erogazione del contributo, da intendersi non tanto come materiale esborso del denaro ma come riconoscimento della relativa titolarità (vale a dire l’emanazione dei provvedimenti che riconoscono, in capo agli interessati, il titolo alla percezione delle somme). È a tale momento che occorre fare riferimento per determinare l’applicabilità del divieto.

Con riferimento alla prima censura ciò che rileva per l’applicazione delle norme di cui all’art. 67 citato non è il momento della commissione del reato (certamente antecedente l’entrata in vigore del divieto), ma la sussistenza degli effetti penali della condanna, tra i quali vi è indubbiamente anche il divieto di erogazione dei contributi pubblici e per il tempo di durata degli stessi.

Ciò risulta compatibile con il combinato dell’art. 11 delle preleggi del codice civile e dell’art. 25 Cost., giacché il divieto di irretroattività della legge penale sfavorevole opera in pieno con riferimento alla punibilità di comportamenti qualificati rilevanti solo da una legge entrata in vigore dopo la commissione del fatto.

La ratio delle sanzioni di cui all’art. 67 è invece radicalmente diversa giacché le stesse hanno uno scopo dichiaratamente preventivo e non mirano a punire la medesima condotta oggetto della sentenza penale.

Le misure di prevenzione antimafia a carattere interdittivo, in altri termini, possono attribuire rilievo anche a fatti (e reati) accaduti in un tempo precedente all'entrata in vigore della disciplina che le prevede, in considerazione della loro funzione preventiva e non afflittiva.

Nel caso di specie l’effetto interdittivo automatico conseguente alla condanna non persegue la finalità di completare il trattamento sanzionatorio correlato al reato, ma si collega esclusivamente all'interesse pubblico primario del contrasto alle organizzazioni criminali.

Anche la giurisprudenza, in tali circostanze, ha escluso l’applicazione dei principi costituzionali e convenzionali in materia di irretroattività delle norme penali laddove la finalità sia sostanzialmente preventiva e non punitiva (cfr. Consiglio di Stato sez. III, 18/10/2019, n.5291).

Il Collegio ritiene di non condividere la tesi, presentata in subordine dal ricorrente nonché oggetto anche del quarto motivo, per la quale l’amministrazione non avrebbe potuto aggredire i contributi 2010 in quanto la relativa domanda è stata presenta prima che il reato fosse inserito tra le ipotesi di cui al citato art. 51, comma 3bis cpp.

Come già evidenziato, ai fini di cui all’art. 67 del D.Lgs. 159/2011 e della efficacia temporale delle misure ivi previste, il momento rilevante non è quello di presentazione della domanda ma quello del riconoscimento del contributo.

Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, le ipotesi preclusive di sui all’art. 67 citato determinano una particolare forma di incapacità ex lege parziale e tendenzialmente temporanea, con la conseguenza che al soggetto - persona fisica o giuridica - è precluso avere determinati tipi di rapporto con la Pubblica Amministrazione (cfr. ex multis Cons. giust. amm. Sicilia, 08/03/2022, n. 294;
Cons. Stato Sez. III, 04/06/2021, n. 4293).

Orbene nel caso di specie tale situazione di incapacità, seppure temporanea, non presenta efficacia istantanea limitabile al momento di presentazione della domanda di contributo o agevolazione, ma perdura lungo tutta la durata del rapporto che, da quel momento, si instaura con la amministrazione.

L’efficacia durevole di tale incapacità postula la rilevanza, anche autonoma, di ogni momento del procedimento erogativo, incluso quello del riconoscimento giuridico dei contributi di cui si controverte.

Risulta, infine, coerente con tale ricostruzione la circostanza per cui l’Agenzia ha escluso il recupero per l’anno 2014, poiché se è vero che la relativa domanda è successiva alla riabilitazione del ricorrente (intervenuta al -OMISSIS-) è maggiormente vero che la erogazione del contributo sia successiva a tale momento.

Per quanto precede, quindi, il secondo motivo di ricorso non è fondato.

5. Con il terzo motivo si lamenta sostanzialmente eccesso di potere per travisamento dei fatti poiché il provvedimento che dispone il recupero delle somme non terrebbe in debita considerazione il fatto che il ricorrente non avrebbe mai materialmente percepito le somme di cui alle domande uniche per gli anni 2010-2013, in quanto la ARPEA avrebbe già operato plurime compensazioni. Il ricorrente porta a sostegno di tale tesi la ricostruzione effettuata dalla Guardia di Finanza (cfr. doc. n. 4 allegato al ricorso) nonché l’estratto conto elaborato dalla stessa ARPEA (cfr. doc. n. 5 allegato al ricorso).

La doglianza non merita accoglimento.

Il Collegio premette che nel motivo sono presenti censure circa l’inesattezza dell’ammontare del recupero vantato dalla ARPEA che però si presentano semplicemente dedotte e non supportate da alcun argomento di prova.

Il resto della censura si fonda sul non condivisibile assunto per il quale non avendo il ricorrente mai percepito materialmente le somme relative alle annate 2010-2013, in quanto già recuperate dalla Agenzia per compensare debiti pregressi, non vi potrebbe essere alcuna ulteriore azione di “recupero”.

Dal documento riepilogativo allegato al ricorso emerge che per le varie annate la Agenzia ha autorizzato, con specifici decreti, le somme relative a ciascuna annata (per il 2010: 67.496,14;
per il 2011: 55.972,50;
per il 2012: 46.197,40;
per il 2013: 60.548,50) e contemporaneamente ha disposto il recupero delle stesse somme erogando materialmente la relativa differenza. Dall’estratto conto allegato emerge chiaramente che i recuperi sono stati effettuati per debiti pregressi (vi è illustrata, nello specifico, la situazione al 2013).

Dagli atti di causa, pertanto, emerge che a seguito delle domande uniche presentate l’ente erogatore ha riconosciuto al ricorrente il diritto alla percezione di somme.

Il fatto che le stesse non siano state materialmente erogate, poiché oggetto di recupero in termini di cassa per compensare debiti pregressi, non esclude la spettanza delle stesse, l’insorgere del rapporto di credito e debito tra le parti e la disponibilità del diritto stesso.

Il provvedimento oggi impugnato nel revocare tale erogazione dispone il recupero di somme che quantomeno giuridicamente sono state riconosciute al ricorrente ed entrate nella sua giuridica disponibilità, tanto è vero che sono servite per compensare debiti pregressi sorti in capo al ricorrente stesso.

La compensazione praticata cautelativamente dalla ARPEA ha tutt’al più agevolato il ricorrente che non ha dovuto immediatamente restituire materialmente le somme ricevute. La ricostruzione di parte ricorrente non tiene in debito conto che i debiti aventi ad oggetto, fin dall’origine, somme di denaro (debiti di valuta) sono naturalmente obbligazioni generiche, ai sensi dell’art.1277 c.c.

Tali operazioni di pregresso recupero, ai fini che qui interessano, risultano neutre poiché il loro effetto compensativo genera inevitabilmente l’allocazione del rischio di insorgenza di futuri debiti (rilevanti in termini di cassa) in capo al beneficiario.

Da ciò discende che le compensazioni applicate tra le somme riconosciute a credito per le annate 2010-2013 e i debiti relativi ai periodi pregressi, operando esclusivamente in termini di cassa, non possono avere l’effetto di inibire l’insorgere del diritto di credito che deriva dalla revoca dei contributi per le annate 2010-2013.

Il terzo motivo pertanto è infondato.

6. Con il quarto ed il quinto motivo di ricorso, trattati congiuntamente per ragioni di connessione oggettiva, si lamenta violazione dell’art. 3 della l. n. 241/1990 e illogicità e irragionevolezza della motivazione nonché contraddizione con ulteriori provvedimenti.

Il ricorrente sostiene che l’amministrazione avrebbe correttamente escluso il recupero per l’annata 2014 (in quanto il reato si è estinto al -OMISSIS-, come da ordinanza del Tribunale di -OMISSIS- del -OMISSIS- cfr. doc. n. 3 allegato al ricorso) giacché la relativa domanda è stata presentata dopo la data di estinzione del reato.

Lo stesso principio non verrebbe però applicato per l’annata 2010, la cui domanda è stata presentata, come sopra evidenziato, prima che il reato commesso dal ricorrente venisse inserito tra quelli rilevanti per l’art. 67, comma 8 del D.Lgs. n. 159/2011 (già art. 10 della L. n. 575/1965).

Il provvedimento inoltre non illustrerebbe in che modo l’Agenzia perviene ai propri calcoli nonché i tassi di interesse applicati e sarebbe in contraddizione con ulteriori atti adottati dalla Guardia di Finanza e dalla Procura della Corte dei Conti.

Con il quinto motivo, in subordine ed in maniera alternativa rispetto al quarto motivo, il ricorrente censura il provvedimento nella misura in cui dispone il recupero delle somme percepite successivamente al -OMISSIS-.

Il quarto motivo è infondato mentre il quinto motivo è fondato.

Quanto al quarto motivo si è già avuto modo di evidenziare, scrutinando il secondo motivo, la legittimità di tale prelievo e la rilevanza del momento erogativo rispetto a quello di presentazione della domanda.

Il prelievo sulle somme imputate alla domanda unica per il 2010, pertanto, risulta legittimo in quanto le relative erogazioni sono successive all’entrata in vigore della norma che ha incluso il reato di cui all’art. 260 del D.Lgs. n. 152/2006 nel novero di quelli rilevanti per il citato art. 67 del D.Lgs. n. 159/2011 (già art. 10 della l. n. 575/1965).

Per tali ragioni il quarto motivo non è fondato.

Il Collegio sul punto evidenzia altresì che l’amministrazione, nelle proprie difese, deduce che il recupero dell’annata 2010 non sarebbe ascrivibile (come quelli per il periodo 2011-2013) alla revoca fondata sul citato art. 67 ma sarebbe solo il frutto di una operazione di compensazione con debiti pregressi.

Occorre rilevare che né dalla comunicazione di avvio del procedimento né dal provvedimento impugnato emerge quanto sostenuto nelle difese dell’amministrazione.

Nella comunicazione di avvio del procedimento (cfr. doc. n. 2 di parte resistente), infatti, l’Agenzia comunica che una parte del credito relativo all’annata 2010 è stato già oggetto di recupero e che tale somma viene decurtata dall’indebito relativo a tale annata. Ma nel prosieguo della comunicazione, nonché nel provvedimento finale, per tale annata viene disposto il recupero di euro 66.420,34 (pari alla somma in conto capitale, cui vengono aggiunti gli interessi) che va a sommarsi con le somme relative agli anni 2011-2013.

Con riferimento al quinto motivo occorre evidenziare che l’amministrazione, per giustificare il recupero delle quote relative all’anno 2010 ed in risposta alle osservazioni dell’interessato, motiva il provvedimento sulla base della rilevanza del momento della percezione del contributo (a discapito di quello di presentazione della domanda). Tale criterio non viene invece seguito per le somme inerenti l’annata 2013 ma erogate dopo il -OMISSIS- (momento in cui il reato del ricorrente si estingue e cessano i relativi effetti penali) e che l’amministrazione fa comunque rientrare nel proprio provvedimento di recupero.

Dal raffronto del documento di riepilogo dei pagamenti elaborato dalla Guardia di Finanza (cfr. doc. n. 4 di parte ricorrente), non contraddetto dalla amministrazione resistente, e il provvedimento impugnato emerge che l’amministrazione ha disposto il recupero dell’intero importo relativo al 2013 (pari a euro 60.548,50), incluse le quote disposte con decreti emessi successivamente alla data di estinzione del reato (nel documento citato risulta il decreto n. -OMISSIS-).

Parte ricorrente, in sostanza, ha fornito sufficienti elementi di prova - non confutati dall’amministrazione resistente nelle proprie difese - per dimostrare che la decisione della ARPEA risulta affetta, quantomeno per la parte relativa alla determinazione dell’importo dovuto per l’anno 2013 e limitatamente ai contributi disposti con provvedimenti successivi al -OMISSIS-, da contraddittorietà istruttoria e motivazionale e pertanto risulta parzialmente illegittima.

Il Collegio infine osserva che non possono essere condivise, in assenza di censure puntuali sulla ricostruzione della quantificazione delle somme da parte di ARPEA, le censure relative alla contraddizione tra le risultanze istruttorie della guardia di Finanza e della Procura della Corte dei Conti (che concludono per il recupero di una somma pari a euro 178.791,39) e quelle dell’amministrazione (che conclude per un recupero complessivo di euro 236.036,46) stante la già illustrata autonomia delle due istruttorie e dei poteri esercitati dalle diverse autorità.

In conclusione il quarto motivo infondato mentre il quinto motivo è fondato.

7. Con il sesto e l’ottavo motivo di ricorso, trattati congiuntamente per ragioni di connessione oggettiva, si articolano una serie di censure volte a dimostrare l’errata applicazione al caso di specie dell’art. 67, comma 8, del D.Lgs. n. 159/2011 sostenendo che:

- trattandosi di contributi P.A.C. la normativa di settore, di matrice comunitaria, non conterrebbe alcun requisito connesso alla inesistenza di reati assibilabili a quelli di cui all’art. 51, comma 3 bis c.p.p.;

- la normativa antimafia (cui ricondurre l’art. 67 citato che ha sostituito l’omologa previsione di cui all’art. 10 della L. n. 575/1965) mira a inibire la erogazione di contributi e fondi pubblici a soggetti condannati per reati di matrice associativa e di stampo mafioso;
la condanna riportata dal ricorrente non avrebbe tali caratteristiche;
l’inserimento del reato di cui all’art. 260 (“Attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti”) del D.Lgs. n. 152/2006, ad opera della L. n. 136/2010, a far data dal 7.09.2010, deve essere interpretato in senso costituzionalmente orientato ed in coerenza con l’intera previsione contenuta nella disposizione e rilevare solo se il reato è connesso con ipotesi delittuose di tipo associativo;
in alternativa si prospetterebbero profili di incostituzionalità della norma;

- tale lettura risulterebbe: a) coerente con la novella normativa, intervenuta a mezzo dell’art. 3 del DL n. 21/2018, che ha modificato l’art. 51, comma 3 bis sostituendo la previsione dell’art. 260 citato con l’inserimento dell’art. 452-quaterdecies tra quei reati che rilevano solo se connessi con le ipotesi di cui all’art. 416 c.p. (associazione per delinquere);
b) in linea con il principio del favor rei considerando che a partire dal 2018 chi viene condannato per i reati di cui all’art. 260 citato (oggi art. 452-quaterdecies) può usufruire di contributi pubblici;

Con l’ultima parte del sesto e con l’ottavo motivo il ricorrente sostiene la non equiparabilità della condanna ai sensi dell’art. 444 c.p.p. alle sentenze di cui all’art. 67, comma 8 del D.Lgs. n. 159/2011, sia perché in tali casi non è prevista la possibilità di comminare pene accessorie (quali la interdizione dai pubblici uffici, che impedisce la percezione di contributi pubblici) sia perché la stessa non può produrre effetti nei giudizi civili ed amministrativi.

Le doglianze non possono essere condivise.

Con riferimento al primo ordine di censure, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale, dal quale non vi è ragione di discostarsi, la portata del divieto di ottenere contributi pubblici di cui all’art. 67, comma 1 lett g) del D.Lgs. n. 159/2011 è ampia e non può che comprendere qualunque forma di contribuzione proveniente dalla Comunità Europea a prescindere dal settore di intervento. Questo Tribunale ha già avuto modo di evidenziare che “ ai sensi dell'art. 67, co. 1, lett. g) del D.Lgs. n. 159 del 2011, è preclusa al soggetto colpito dall'interdittiva antimafia ogni possibilità di ottenere contributi, finanziamenti e mutui agevolati ed altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati da parte dello Stato, di altri enti pubblici o delle Comunità Europee, per lo svolgimento di attività imprenditoriali, stante l'esigenza di evitare ogni esborso di matrice pubblicistica in favore di imprese soggette ad infiltrazioni criminali ” (T.A.R. Piemonte Torino Sez. I, 20/01/2020, n. 52, conformi: Cons. Stato Sez. III, 04/06/2021, n. 4293;
T.A.R. Calabria Reggio Calabria, 17/05/2022, n. 340;
Cons. giust. amm. Sicilia, 08/03/2022, n. 294).

Del resto è lo stesso D.Lgs. n. 159/2011 che annovera i fondi comunitari per l’agricoltura nell’ambito di applicazione dei requisiti connessi alla documentazione antimafia, cui la fattispecie dell’art. 67, comma 8, è assimilata (l’art. 83, al comma 3 bis prevede che: “ la documentazione di cui al comma 1 è sempre prevista nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli e zootecnici demaniali che ricadono nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei per un importo superiore a 25.000 euro o di fondi statali per un importo superiore a 5.000 euro ”). Ciò evidenzia, al di là delle disposizioni specifiche e della relativa decorrenza, la sostenibilità dell’orientamento giurisprudenziale di cui sopra anche per il caso dei contributi PAC.

Quanto al secondo ordine di censure, il Collegio è consapevole del dibattito giurisprudenziale circa la necessità o meno, in presenza di condanne per i reati di cui all’art. 260 citato (oggi 452 quaterdecies c.p.), di approfondimenti valutativi volti a verificare se il reato sia stato commesso nell’ambito di un più ampio contesto criminale di tipo associativo e dei dubbi di costituzionalità che l’automatismo applicativo di tale ipotesi ha sollevato (cfr. TAR Piemonte, Sez. I, 29/04/2021, ord. n. 448;
Cons. Stato, 13/11/2020, ord. n. 6614;
Corte cost., 10/05/2022, sent. n. 118).

Tali profili di costituzionalità non risultano rilevanti per il caso di specie proprio in considerazione del fatto che all’epoca dei fatti il reato di cui all’art. 260 citato era inserito testualmente nell’art. 52 c.p.p. come fattispecie a rilevanza autonoma che quindi, per il legislatore, assumeva un disvalore in sé a prescindere dalla connessione o meno con la fattispecie di cui all’art. 416 c.p.

Orbene, tale ipotesi di reato (oggi versata all’art. 452 quaterdecies c.p.) punisce coloro “ che al fine di conseguire un ingiusto profitto, con più operazioni e attraverso l'allestimento di mezzi e attività continuative organizzate, cede, riceve, trasporta, esporta, importa, o comunque gestisce abusivamente ingenti quantitativi di rifiuti ”. L’ambito oggettivo delle attività per le quali il ricorrente è stato condannato ed in cui il comportamento illecito è maturato fa immediatamente emergere la rilevanza ed il suo disvalore proprio con riferimento al rischio di infiltrazione della criminalità organizzata.

La stretta connessione tra tale tipologia di attività e l’alto rischio da infiltrazione mafiosa è stato ribadito più volte sia dalla giurisprudenza che dal legislatore.

Il trattamento dei rifiuti infatti (e nello specifico le “ attività di raccolta, di trasporto nazionale e transfrontaliero, anche per conto di terzi, di trattamento e di smaltimento dei rifiuti, nonché le attività di risanamento e di bonifica e gli altri servizi connessi alla gestione dei rifiuti ”) è annoverato dall’art. 1, comma 53, della L. n. 190/2012 tra le “ attività maggiormente esposte a rischio di infiltrazione mafiosa ”. Di conseguenza gli operatori che professionalmente operano in tali settori sono, a differenza della generalità delle imprese, periodicamente soggetti a controlli circa la perdurante insussistenza dei tentativi di infiltrazione mafiosa. La stessa legge n. 136/2010 che ha inserito il reato di cui al citato art. 260 del D.Lgs. n. 152/2006 nel novero dei richiami di cui all’art. 52, comma 3-bis cpp reca “Piano straordinario contro le mafie […]”.

Tale potenziale contiguità tra lo smaltimento dei rifiuti e la criminalità organizzata è stata sottolineata da un condivisibile orientamento giurisprudenziale secondo il quale “ il disvalore sociale e la portata del danno ambientale connesso al traffico illecito di rifiuti, di cui all'art. 260 del D.Lgs. n. 152 del 2006, costituiscono, già di per sé stessi, ragioni sufficienti a far valutare con attenzione i contesti imprenditoriali, nei quali sono rilevati, in quanto oggettivamente esposti al malaffare e, sempre più di frequente, al concreto pericolo di infiltrazioni delle associazioni criminali di stampo camorristico. Non a caso, infatti, l'art. 84, c. 4, lett. a), del D.Lgs. n. 159 del 2011 prevede che le situazioni relative ai tentativi di infiltrazione mafiosa, che danno luogo all'adozione dell'informativa, sono desunte, tra l'altro, dai provvedimenti che dispongono una misura cautelare o il giudizio o che recano una condanna, anche non definitiva, per taluni dei delitti di cui all'art. 51, c.

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