TAR Roma, sez. 1B, sentenza 2015-06-05, n. 201507905

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. 1B, sentenza 2015-06-05, n. 201507905
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201507905
Data del deposito : 5 giugno 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 10614/2008 REG.RIC.

N. 07905/2015 REG.PROV.COLL.

N. 10614/2008 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima Bis)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 10614 del 2008, proposto da:
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avv. S A, con domicilio eletto presso Antonio Lombardo in Roma, Circ.ne Trionfale, 27;

contro

Ministero della Difesa, rappresentato e difeso per legge dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

per l'annullamento

del Decreto del Ministero della Difesa del 14.4.2008 con cui è stata disposta la perdita del grado per rimozione.


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l'art. 52 D. Lgs. 30.06.2003 n. 196, commi 1 e 2;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 31 marzo 2015 la dott.ssa Floriana Rizzetto e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;


Il Maresciallo a.s.UPS dell'Arma dei Carabinieri ricorrente impugna, chiedendone l’annullamento, il Decreto del Ministero della Difesa - Direzione Generale per il Personale Militare del 14.4.2008 con cui è stata disposta a decorrere dal 28.01.2005 la perdita del grado per rimozione conseguentemente alla condanna per peculato militare continuato (per essersi indebitamente appropriato della somma pari a €. 2.368,56 corrispondente all’importo di fatture per una fornitura di GPL da riscaldamento mai eseguita) – che comporta “di diritto” la rimozione dal grado ai sensi dell’art. 219 del codice penale militare di pace - pronunciata con sentenza del Tribunale Militare di Palermo con sentenza di condanna n. 45 del 5.7.2005 confermata dalla Corte d’Appello e divenuta irrevocabile il 22.9.2007.

Il ricorso è affidato ai seguenti motivi: 1) Illegittimità della retroattività della perdita di grado: Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 37, 60 e 61 della Legge 31.07.1954 n. 599;
2) Violazione dei termini sul procedimento disciplinare ed estinzione del medesimo procedimento: violazione e/o falsa applicazione dell'art. 9 co. 2 della L. n. 19/1990 in combinato disposto con l’art. 38 co. 1 della legge n. 1168/1961 come modificato dalla sentenza della C.Cost. 375/2000;
3) Eccesso di potere per carenza della motivazione, irragionevolezza e sproporzione tra fatto commesso e sanzione adottata;
4) “Difetto di legittimazione” del Comandante Militare per il territorio dell’Esercito”

Si è costituita in giudizio l’Amministrazione intimata con rapporto difensivo e relativa documentazione.

Con memoria depositata in vista della trattazione del merito il ricorrente ha replicato alle controdeduzioni della PA e formulato le proprie conclusioni

Con ordinanza n. 5529 del 26.11.2008 è stata respinta l’istanza di sospensiva per difetto del prescritto fumus boni iuris.

All’udienza pubblica del 31.3.2015 il patrono del ricorrente ha chiarito che il quarto motivo di censura è stato introdotto nel ricorso solo per errore e, con tale precisazione, la causa è trattenuta in decisione.

Va in via preliminare disattesa la tesi del ricorrente secondo cui le controdeduzioni dell’Amministrazione resistente sarebbero inammissibili in quanto irritualmente proposte con memoria difensiva anziché con ricorso per motivi aggiunti. Il rilievo è inconferente dato che il ricorso per motivi aggiunti è lo strumento processuale utilizzato dalla parte ricorrente per impugnare atti amministrativi adottati successivamente a quello originariamente gravato oppure ad introdurre nuove censure avverso l’atto impugnato, mentre la memoria scritta costituisce lo strumento processuale utilizzato dall’amministrazione resistente per illustrare le proprie argomentazioni difensive.

Nel merito il ricorso è infondato.

Con il primo motivo il ricorrente lamenta l’illegittimità del provvedimento impugnato, adottato il 14.4.2008, con cui la decorrenza degli effetti della perdita del grado è stata fatta retroagire al 28.01.2005 dato che a quella data la sentenza di condanna della Corte di Appello di Napoli non era ancora divenuta irrevocabile (il passaggio in giudicato è avvenuto solo in data 22.9.2007) e comunque era intervenuta l’acquisizione del diritto alla pensione privilegiata a seguito del riconoscimento dell’inidoneità al servizio da parte della Commissione Medico Ospedaliera di Messina (verbale della seduta del 28.1.2005).

La censura è infondata.

La perdita del grado per rimozione per motivi disciplinari è stata comminata al ricorrente ai sensi del combinato disposto degli artt. 37 e 60 n. 6 della legge n. 599/1954 a seguito della sentenza di condanna dal Tribunale Militare di Palermo per peculato militare continuato pubblicata il 5.7.2005, confermata dalla Corte d’Appello e divenuta irrevocabile il 22.9.2007, che comporta “di diritto” la rimozione dal grado ai sensi dell’art. 219 del codice penale militare di pace, come rammentato nella medesima pronuncia.

L’Art. 60 tra le cause che comportano la perdita del grado prevede, al co. 1 n. 6 la rimozione come sanzione disciplinare (ora riportato all’art. 865 del d.lvo n. 66/2010) e al successivo n. 7) lett. a), la condanna per un reato per cui il codice penale militare importi la pena accessoria della rimozione (ora riportato all’art. 866 del d.lvo n. 66/2010), tra i quali rientra, appunto, quello sopraindicato.

Il successivo art. 61 al comma 2 prevede una decorrenza differenziata per le due diverse ipotesi sopraindicate, stabilendo che la perdita del grado decorre “dalla data del decreto” nel caso in cui la perdita del grado sia disposta per rimozione disciplinare (cioè quello contemplato dal co. 1 n. 6 dell’art. 60 sopracitato) ed invece “dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza” nel caso di perdita del grado per condanna penale (cioè quello contemplato dal co. 1 n. 7 dell’art. 60 sopracitato). Il successivo comma 2 dell’art. 61 precisa altresì che “qualora ricorra l'applicazione del secondo comma dell'art. 37”, la perdita del grado per le cause sopraindicate “decorre dalla data in cui il sottufficiale ha cessato dal servizio permanente”. (ora art. 866 del d.lvo n. 66/2010 il cui co. 5 positivizza l’orientamento giurisprudenziale in materia Cons. Stato, sez. IV, n. 251/2005;
sez. IV;
n. 5025/2000;
sez. IV, n. 888/1999).

L’art. 37, a sua volta, stabilisce al primo comma che “Il sottufficiale, nei cui riguardi si verifichi una delle cause di cessazione dal servizio permanente previste dal presente capo, cessa dal servizio anche se si trovi sottoposto a procedimento penale o disciplinare” ed al secondo comma che “Qualora il procedimento si concluda con una sentenza o con un giudizio di Commissione di disciplina che importi la perdita del grado, la cessazione del sottufficiale dal servizio permanente si considera avvenuta, ad ogni effetto, per tale causa e con la medesima decorrenza con la quale era stata disposta”. La norma è riprodotta dall’art. 923 del d.lvo n. 66/2010 che, nel richiamare le diverse cause che determinano la cessazione del rapporto di impiego (tra cui, l'infermità, il transito nell'impiego civile e la perdita del grado), precisa al comma 5 che: "Il militare cessa dal servizio, nel momento in cui nei suoi riguardi si verifica una delle predette cause, anche se si trova sottoposto a procedimento penale o disciplinare. Se detto procedimento si conclude successivamente con un provvedimento di perdita del grado, la cessazione dal servizio si considera avvenuta per tale causa".

Ed è appunto in applicazione della normativa soprarichiamata che il provvedimento impugnato ha stabilito la decorrenza nei termini contestati dal ricorrente. Si tratta di una normativa che è stata riprodotta dal Codice dell’ordinamento militare e ripetutamente sottoposta al vaglio dei giudici costituzionali. Come ricordato dai compilatori del Codice dell’ordinamento militare, l’art. 60 co.1 n. 7) lett. a) della legge n. 599/54 così come le analoghe previsioni relative alle diverse categorie di militari che prevedono la perdita del grado a seguito di condanna per un reato per cui il codice penale militare importi la pena accessoria della rimozione (ora confluite nell’art. 866 del d.lvo n. 66/2010), non disciplinano un’ipotesi di destituzione automatica, ma il necessario raccordo tra provvedimenti giurisdizionali comportanti l’applicazione di una pena accessoria (militare od ordinaria) che inibisce all’interessato la conservazione del proprio ufficio o grado e, quindi, la conseguente esplicazione dei suoi doveri funzionali e della stessa prestazione del servizio. Si tratta di una norma che ha superato il vaglio di legittimità costituzionale in quanto è stato ripetutamente chiarito che dalla proclamata illegittimità di norme di legge che prevedono ipotesi di destituzione automatica a seguito di condanna rimane assolutamente estraneo l’ambito applicativo delle pene accessorie di carattere interdittivo (Corte cost. 19 aprile 1993, n. 197;
Corte cost. 30 ottobre 1996, n. 363) e che in caso di applicazione di pene accessorie di natura interdittiva la risoluzione del rapporto di impiego costituisce solo un effetto indiretto (Cons. Stato, sez. IV, n. 7561/2005;
Cons. Stato, sez. IV, n. 6669/2002;
Cons. Stato, sez. VI, n. 5163/2001). Si tratta di un orientamento pienamente condiviso nelle considerazioni e nelle conclusioni dalla Sezione, che ad esso fa costante richiamo ed ha ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale delle corrispondenti disposizioni del Codice dell’Amministrazione militare, ribadendo, anche alla luce della sentenza della Corte Costituzionale n. 286/1999 e del Consiglio di Stato, sezione IV, n. 5526/2009, che l'Amministrazione di fronte ad una sentenza penale di condanna con pena accessoria interdittiva non può far altro che disporre la cessazione dal servizio con un provvedimento che non ha carattere né costituivo, né discrezionale, ma vincolato, trattandosi di un provvedimento in sostanza dichiarativo di uno status conseguente al giudizio penale definitivo emesso nei confronti del dipendente;
sicchè le relative norme sono state ritenute esenti da dubbi di costituzionalità essendo poste a regolare i casi in cui la destituzione discende come effetto diretto dalle sanzioni penali accessorie. E siccome la pena accessoria della rimozione rende ex se incompatibile la permanenza nello stato di militare in servizio permanente effettivo, in simili casi, non è neppure necessaria l'attivazione di un procedimento disciplinare, trattandosi di un provvedimento direttamente conseguente dal passaggio in giudicato delle sentenza di condanna e della relativa pena accessoria (TAR Lazio, Sez. I bis, 29.9.2010 n. 32573 e 20/04/2015, n. 5754 e 14.6.2010, n. 17510 TAR Lombardia, Milano, Sez. I, n. 1959/2014 e 24/09/2013 n. 2199).

Nessun addebito può pertanto essere mosso all’operato dell’Amministrazione per aver fatto applicazione di una normativa che espressamente prevede la decorrenza “retroattiva” dell’atto impugnato: questa è sancita infatti proprio dall’art. 37 co. 2 della legge n. 599/1954 (oggi riprodotta dall’art. 923 co. 5 del d.lvo n. 66/2010) che costituisce la disciplina applicabile al ricorrente e che impone alla amministrazione di retrodatare gli effetti della perdita del grado, sin dal momento in cui il militare è cessato dal servizio continuativo (nel caso in esame al momento del collocamento in congedo per inidoneità) in quanto “comporta una riqualificazione retroattiva della causa di cessazione del servizio, i cui effetti si producono ex lege e senza il "medio" di alcun provvedimento amministrativo che lo recepisca per cui la causa di cessazione dal servizio dell’interessato deve essere giuridicamente ricondotta non all'infermità dichiarata dalla commissione medica bensì all’effetto espulsivo tipico della pena accessoria subita dal ricorrente”.

In tale rigoroso quadro normativo di riferimento, che impone all'amministrazione di retrodatare gli effetti della perdita del grado, sin dal momento in cui il militare è cessato dal servizio continuativo (nella specie di collocamento in congedo assoluto per inidoneità al servizio militare) non vale al ricorrente invocare il generale principio di affidamento, lamentando che l’applicazione in tal modo della disciplina soprarichiamata vada ad incidere su un diritto quesito, quale il trattamento di quiescenza perché riconosciuto non idoneo in modo assoluto al servizio militare e la pensione privilegiata per causa di servizio. La volontà del legislatore chiaramente espressa nella disposizione contestata dal ricorrente è stata ripetutamente sottolineata dalla giurisprudenza in materia che ha chiarito la ratio dell’operatività retroattiva della perdita del grado per rimozione come pena accessoria va ravvisata “nella volontà di evitare che si possano eludere gli effetti sfavorevoli di un giudizio penale o disciplinare anticipando la cessazione dal servizio per altra causa” (Cons. Stato, Sez. IV, 2/11/2010 n. 7734).

Pertanto il principio di affidamento e di intangibilità dei diritti quesiti non trova applicazione stante l’espressa opposta previsione normativa dello stesso art. 61 invocato dal ricorrente che facendo richiamo all’ipotesi al comma 2 dell'art. 37, sancisce che la perdita del grado, in quanto causa di rimozione superveniens, retroagisce alla data in cui (per diversa causa) il sottufficiale ebbe a cessare dal servizio permanente. Tale norma, che prevede (e legittima) il mutamento retroattivo della "causale" della cessazione dal servizio permanente disposta per causa diversa dalla perdita del grado, ed espressamente prevede la retrodatazione degli effetti della rimozione del grado disposta dal Consiglio di disciplina o dalla sentenza di condanna risulta perciò incompatibile con il principio di "intangibilità" invocato dal ricorrente di cui “non v'è traccia nell'ordinamento" e che “non impedisce certo che, in virtù di fatti preesistenti al momento del collocamento in quiescenza ed in relazione a puntuali disposizioni di legge possa venire esattamente determinata (rectius: rideterminata) la causa del suddetto collocamento in quiescenza “(Cons. Stato, sez. IV 30/07/2012 n. 4292).

Con il secondo mezzo di gravame il ricorrente lamenta la violazione delle disposizioni sui termini del procedimento disciplinare con conseguente estinzione del relativo potere punitivo per effetto del combinato disposto dell'art. 9 co. 2 della L. n. 19/1990 e dell’art. 38 co. 1 della legge n. 1168/1961 come modificato dalla sentenza della C.Cost. 375/2000.

L'art. 9 co. 2 della L. n. 19/1990 prevede che il procedimento disciplinare debba avere inizio entro centottanta giorni "dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna" e debba essere concluso nei successivi 90 giorni. Come chiarito da consolidato orientamento giurisprudenziale Si tratta di termini che si cumulano, di modo che l'Amministrazione, per chiudere il procedimento, ha a disposizione un termine globale di 270 giorni, decorrente dalla data in cui ha avuto piena conoscenza della sentenza definitiva di condanna;
termine che non può essere superato a pena di violazione della perentorietà del termine (vedi tra tante, Cons. St., Sez. VI 8.6.2010, n. 3632;
VI, 28 febbraio 2006, n. 869;
sez. IV 12.3.2007, n. 1213;
TAR Lazio, sez. I 4.2.2013, n. 1176;
3.6.2008, n. 5401;
2.11.2007, n. 10850). Sicchè nel caso in esame, non sarebbe verificata l’invocata estinzione del procedimento disciplinare – che comunque non sarebbe stato necessario, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza in materia anche di questa Sezione sopra richiamata – in quanto il provvedimento impugnato è stato adottato il 14.4.2008 quindi entro il termine massimo previsto per la conclusione del procedimento disciplinare che veniva a cadere il 18.6.2008. A tal fine risulta irrilevante che la comunicazione all’interessato del predetto provvedimento sia avvenuta in data 10.7.2008 in quanto la notifica dell’atto conclusivo del procedimento disciplinare costituisce un elemento estraneo alla perfezione e validità dell'atto per cui la tempestività della sua comunicazione non incide sulla legittimità del provvedimento stesso, ma solo sulla decorrenza del termine per una eventuale impugnazione, come chiarito dal consolidato orientamento giurisprudenziale in materia sulla base della natura non recettizia dell'atto espulsivo, che può spiegare i suoi effetti costitutivi ex tunc indipendentemente dalla collaborazione del destinatario;
sicchè risulta irrilevante, ai fini del rispetto del termine di conclusione del procedimento disciplinare, la circostanza che il provvedimento medesimo, adottato prima dello spirare del termine, sia stato notificato solo in seguito (vedi, tra tante, Cons. Stato Sez. IV, 17 maggio 2012, n. 2849;
21.4.2010, n. 2274 e n. 2263;
31.3.2009, n. 1912;
Sez. VI, 19.6.2008, n. 3078;
23.11.2007, n. 6015;
2844 del 2007;
10.8. 2007, n. 4392;
15.9.2006, n. 5401;
24.6.2006 n. 4053;
T.A.R. Lazio, Sez. II, 27.10.2008, n. 9208;
TAR Lazio, I bis, 15.6.05 n. 5450;
T.A.R. Liguria Sez. II 19/04/2011 n. 640 e 24/05/2012 n. 732).

Va perciò disattesa anche la doglianza, dedotta con il terzo motivo, con cui si denuncia l’eccesso di potere per carenza della motivazione, irragionevolezza e sproporzione tra fatto commesso e sanzione adottata in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione. Si tratta di una censura non conferente, dato che si tratta di rimozione come pena accessoria, in cui ogni valutazione al riguardo è già stata espressa dal legislatore che ha ritenuto di configurare l’automatismo espulsivo come conseguenza della sentenza di condanna, per cui, come ripetutamente chiarito nelle sentenze richiamate in sede di esame del primo motivo di ricorso, il provvedimento adottato dall’Amministrazione ha natura meramente vincolata trattandosi di effetto espulsivo che opera ex lege.

Il ricorso va pertanto respinto in quanto infondato.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

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