TAR Napoli, sez. I, sentenza 2021-10-11, n. 202106386

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Napoli, sez. I, sentenza 2021-10-11, n. 202106386
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Napoli
Numero : 202106386
Data del deposito : 11 ottobre 2021
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 11/10/2021

N. 06386/2021 REG.PROV.COLL.

N. 05043/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale della Campania

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5043 del 2020, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
-O- s.r.l., in persona della titolare -O-, rappresentata e difesa dall'avvocato F L, con il quale elegge domicilio in Napoli, via F. Caracciolo n. 15 e con recapito digitale come da PEC da Registri di giustizia;

contro

- Prefettura – U.T.G. di Napoli, in persona del Prefetto, legale rappresentante pro tempore,
- Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore,
rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Napoli, domiciliataria ex lege in Napoli, via Diaz, 11 e con recapito digitale come da PEC da Registri di giustizia;
- Comune di Sant'Antimo, in persona del Sindaco, legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Loredana Di Spirito, con recapito digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per l'annullamento,

quanto al ricorso introduttivo, notificato il 30 novembre 2020 e depositato il successivo 17 dicembre ed al ricorso per motivi aggiunti, notificato il 26 febbraio 2021 e depositato il 23 marzo successivo:

- del provvedimento interdittivo antimafia dell’Area I Ter OSP Antimafia Prot. n. -O-, nonché in via presupposta del verbale del Gruppo informativo antimafia (GIA) n. -O- e di ogni atto e provvedimento collegato, connesso e conseguente.


Visti il ricorso, il ricorso per motivi aggiunti ed i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Prefettura di Napoli, del Ministero dell'Interno e del comune di Sant’Antimo;

Visti l’ordinanza presidenziale n. 1130 del 18 dicembre 2020 ed i relativi adempimenti;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore il dott. G P, nell'udienza pubblica del giorno 21 luglio 2021 – svoltasi in modalità telematica, ai sensi dell’art. 25 D.L. 137/2020, convertito dalla L. n. 176/2020, e del Decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 28 dicembre 2020 – ed uditi, per le parti, i difensori come da verbale.

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1.- Con l’odierno ricorso, notificato il 30 novembre 2020 e depositato il successivo 17 febbraio, – -O-, nella qualità di titolare della ditta -O- s.r.l., impresa che esercita l’attività di somministrazione di bevande e cibi, ha impugnato il provvedimento interdittivo antimafia dell’Area I Ter OSP Antimafia prot. n. -O-, formulando le censure che saranno nel dettaglio illustrate in diritto.

La Prefettura ed il Ministero dell’Interno si sono costituiti in giudizio con atto formale depositato il 18 dicembre 2020.

In accoglimento dell’istanza istruttoria presentata dalla ricorrente, la Sezione, con ordinanza presidenziale n. 1130 del 18 dicembre 2020, ha richiesto il deposito del provvedimento impugnato nonché di tutti gli atti, i verbali istruttori e gli accertamenti sui quali lo stesso si fonda.

In adempimento dell’ordinanza presidenziale, in data 29 dicembre 2020, la Prefettura di Napoli ha depositato i seguenti atti:

1) il provvedimento interdittivo prefettizio n. -O-;

2) la nota n. -O-, con la quale la Prefettura medesima aveva inviato il provvedimento di cui sopra;

3) lo stralcio del verbale del Gruppo investigativo antimafia (GIA) del -O-.

Parte ricorrente, in data 12 gennaio 2021, ha chiesto di rinviare la trattazione dell’istanza cautelare, al fine di presentare motivi aggiunti a seguito del deposito della documentazione di cui sopra.

2.- In data 26 febbraio 2021, -O- ha quindi notificato ricorso per motivi aggiunti, depositato il successivo 23 marzo, col quale, nell’impugnare gli stessi atti già oggetto del ricorso introduttivo, ha formulato censure integrative a quelle già poste col ricorso introduttivo, alla luce degli atti depositati dalla Prefettura.

Il comune di Sant’Antimo, intimato col ricorso per motivi aggiunti, si è costituito in giudizio con memoria depositata l’11 gennaio 2021, nella quale ha argomentato per l’infondatezza dei rilievi di parte ricorrente, chiedendo il rigetto del ricorso.

La causa è stata inserita nel ruolo dell’udienza pubblica del 21 luglio 2021, svoltasi in modalità telematica, ai sensi dell’art. 25 D.L. 137/2020, convertito con modificazioni dalla L. n. 176/2020 e del decreto del Presidente del Consiglio di Stato del 28 dicembre 2020.

Dopo discussione, il ricorso è stato trattenuto per la decisione.

DIRITTO

1.- La ricorrente, col ricorso introduttivo, ha formulato le seguenti censure:

1) violazione degli artt. 84 e 91 d. lgs.159/2011;
eccesso di potere per inesistenza dei presupposti, travisamento, illogicità manifesta;
violazione degli artt. 6 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità.

Premette la ricorrente di essere figlia di -O-, a sua volta zio – in quanto fratello del padre, -O- – di -O-, noto esponente dell’omonimo clan.

Ebbene, non solo -O- è giovane imprenditrice, distinta da condotta specchiatissima, il che sarebbe sufficiente ad eliminare ogni presupposto di condizionamento o infiltrazione di organizzazioni criminali mafiose, ma lo stesso verbale GIA ed i relativi rapporti non contengono alcun riferimento all’attività, alle frequentazioni della ricorrente, stante l’incontestata assenza di ombre a suo carico.

Peraltro, la Diamond s.r.l. non ha nemmeno iniziato in concreto l’attività, circostanza che farebbe venire meno il presupposto, ossia il condizionamento o l’infiltrazione di organizzazioni criminali, alla base della grave misura interdittiva inflitta.

Nel verbale del GIA, si menzionano esclusivamente i rapporti di parentela con -O-, -O- e -O-, senza rilevare elementi concreti di contiguità di natura economica o di altre cointeressenze con questi. E’ chiaro che il cognome, la paternità ed il vincolo parentale, in assenza di altre relazioni di carattere economico, non sarebbero ragioni giuridicamente idonee a legittimare la ablazione dell’attività imprenditoriale.

2) Violazione degli artt. 91 e 94 d. lgs.159/2011;
eccesso di potere per inesistenza dei presupposti, travisamento, illogicità manifesta;
violazione degli artt. 6 e 7 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea;
violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità

Alcuno degli elementi indicati nell’arresto del Consiglio di Stato, rappresentato dalla sentenza n. 1743 del 2016, è presente nella fattispecie in esame e sarebbe contestato alla ricorrente. Non si registrano a suo carico relazioni economiche con organizzazioni criminali né altri profili di contiguità e nemmeno la frequentazione con soggetti coinvolti in sodalizi criminali operanti nel comune di Sant’Antimo ovvero colpiti da misura di prevenzione.

Gli atti impugnati non hanno proceduto - come statuito dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 57 del 22 marzo 2020 – all’esame sostanziale degli elementi raccolti, né hanno verificato la consistenza e la coerenza degli stessi, fondandosi solo sul vincolo parentale.

Né alcun rilievo andrebbe attribuito all’attentato dinamitardo che ha colpito l’esercizio commerciale gestito dal padre della ricorrente, dovendosi, al contrario, considerarsi la condotta immediata assunta dalla vittima dell’attentato, il quale ha prontamente denunciato l’evento criminoso ai Carabinieri, ha collaborato alle indagini ed ha indicato, nel concreto tentativo di cooperare, il presunto autore dell’attentato.

3) Violazione degli artt. 91 e 94 d. lgs.159/2011;
eccesso di potere per inesistenza dei presupposti, travisamento, illogicità manifesta, violazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, violazione dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, violazione della regula juris poste dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 57 del 22 marzo 2020.

La Corte costituzionale ha ritenuto necessaria la sussistenza di “concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata”, elementi che, nella specie, sarebbero assenti.

Si aggiunga la condotta incensurabile della ricorrente, l’assenza di carichi pendenti e di precedenti penali, la regolarità contributiva, la tracciabilità completa dell’attività commerciale svolta e le sue ridotte dimensioni tali da escludere, sui piani della concretezza e della razionalità, che lo stessa possa essere luogo di riferimento di appartenenti alla criminalità organizzata.

2.- Col ricorso per motivi aggiunti, alla luce della documentazione depositata in atti dalla Prefettura, la ricorrente ha, in sostanza, ampliato e ribadito le censure già oggetto del ricorso introduttivo.

3.- Il ricorso ed i relativi motivi aggiunti sono infondati.

3.1.- Va premesso che, secondo costante e condivisibile indirizzo della giurisprudenza amministrativa, uno degli indici dei tentativi di infiltrazione mafiosa nell’attività d’impresa, di per sé sufficiente a giustificare l’emanazione di una interdittiva, è identificabile nell’instaurazione di rapporti commerciali o associativi tra un’impresa e una società già ritenuta esposta al rischio di influenza criminale, in ragione dell’accentuata valenza sintomatica attribuibile a cointeressenze economiche (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 21 gennaio 2019, n. 520).

Sul punto, come questa stessa Sezione ha evidenziato, in adesione ad altrettanto consolidato orientamento giurisprudenziale, l’interdittiva antimafia ha natura cautelare e riveste la funzione di massima anticipazione della soglia di prevenzione. Per questo l’interdittiva non richiede la prova di un fatto ma solo la presenza di una serie di indizi, tra di loro coerenti, univoci e concordanti, in base ai quali non sia illogico né inattendibile dedurre la sussistenza di un collegamento tra l’impresa e le organizzazioni mafiose ovvero di un condizionamento da parte di queste ultime.

Pertanto, ai fini dell’adozione dell’interdittiva, da un lato, occorre non già provare l'intervenuta infiltrazione mafiosa, bensì soltanto la sussistenza di elementi sintomatico-presuntivi dai quali – secondo un giudizio prognostico discrezionale, legato al criterio del “più probabile che non” – sia deducibile il pericolo d’ingerenza da parte della criminalità organizzata;
d’altro lato, detti elementi vanno considerati secondo una prospettiva unitaria e non frammentaria , nel senso che ognuno di essi acquista valenza in collegamento con gli altri (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. III, n. 2342/2011, n. 5019/2011, n. 5130/2011, n. 254/2012, n. 1240/2012, n. 2678/2012, n. 2806/2012, n. 4208/2012, n. 1329/2013, n. 4414/2013, n. 4527/2015, n. 5437/2015, n. 1328/2016;
n. 3333/2017;
Idem, sez. VI, n. 4119/2013;
TAR Campania, sez. I, n. 3242/2011, n. 3622/2011, n. 2628/2012, n. 2882/2012, n. 4127/2012, n. 4674/2013, n. 858/2014, n. 4861/2016, n. 3195/2018;
TAR Lazio, sez. II, n. 1951/2011;
TAR Calabria, Reggio Calabria, n. 401/2012;
TAR Lombardia, sez. III, n. 1875/2012;
TAR Basilicata, n. 210/2013;
TAR Piemonte, sez. I, n. 1923/2014).

3.2.- Peraltro, come rilevato sempre da questa Sezione, il provvedimento prefettizio va calato nel contesto territoriale in cui l’impresa si muove e nel quale le associazioni criminali investono i propri profitti illeciti, anche e soprattutto nelle attività lecite (questa Sezione, 11 dicembre 2019, n. 5906).

Gli accertamenti svolti dalla Prefettura attengono, infatti, in via prioritaria, all'attività di prevenzione volta a contrastare “ab initio” l'ingerenza della criminalità organizzata in attività imprenditoriali, ciò a prescindere da eventuali provvedimenti emessi dall'autorità giudiziaria penale.

Com'è intuibile, uno spettro inferiore di poteri, affidati in materia alla Prefettura, finirebbe per vanificare l'efficacia dell’impianto normativo soprarichiamato, segnatamente la sussistenza o meno di "tentativi di infiltrazione mafiosa" (art. 84 d. lgs. 159/2011), atteso che comportamenti documentati e già accertati, sanzionabili secondo la normativa penale, costituiscono oggetto di esclusivo sindacato della competente autorità giudiziaria.

D'altra parte, nell'ambito della prevenzione, il relativo procedimento è svincolato dall'accertamento rigoroso della prova, ben potendo lo stesso basarsi esclusivamente su indizi, nel mentre resta attribuita all'autorità giudiziaria l'esclusiva competenza sull'accertamento della responsabilità penale, di carattere personale, derivante dalla commissione di un fatto che costituisce reato.

Sul punto, la giurisprudenza amministrativa ha, infatti, chiarito che: “gli elementi posti a base dell'informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o di processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione” (Cons. Stato, Sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743).

4.- Condotte queste necessarie premesse, nel caso specifico, le ragioni, a fondamento del provvedimento interdittivo, sulle quali si basa la prognosi di permeabilità criminale dell’attività commerciale condotta dalla ricorrente, si desumono in termini ragionevoli, plausibili, obiettivi ed esaustivi dalla documentazione in atti.

In particolare, dalla lettura della relazione prodotta dalla Prefettura di Napoli, si evince che il padre della ricorrente, -O-, è lo zio di -O-- in quanto fratello del padre, -O- -esponente apicale dell'omonimo clan camorristico, attivo sul territorio del Comune di Sant'Antimo, ove ha la sede legale ed operativa l’esercizio commerciale di cui la ricorrente medesima è titolare.

Secondo diffusa e condivisibile giurisprudenza, gli elementi indiziari alla base dell’interdittiva antimafia possono fondarsi anche sui soli rapporti di parentela, laddove assumano un’intensità tale da considerare come plausibile una conduzione familiare e una “regia collettiva clanica” dell'impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi (Cons. Stato, sez. III, 24 aprile 2020, n. 2651).

Contrariamente agli assunti della ricorrente, le ragioni dell’interdittiva, tuttavia, non si fondano sul mero rapporto di parentela, che costituisce solo il dato di partenza dal quale si dipanano gli altri elementi di rilievo, quanto sulle correlazioni che la ricorrente, tramite il padre, -O-, ha con esponenti dell’omonimo clan, di cui il cugino è elemento di spicco.

Sul punto, è utile ricondursi al contenuto dell’ordinanza di custodia cautelare n. 135/2020, richiamata nel provvedimento impugnato, nella quale ci si sofferma sulla creazione di una serie di imprese fittiziamente intestate a prestanomi al fine di eludere i controlli delle autorità nella lotta alle organizzazioni mafiose ma di fatto gestite dal clan -O-.

In questa cornice, l’esercizio -O- si inserisce nella rete di cui fa parte l’altra struttura commerciale, il “-O-”, gestita dal padre della ricorrente ed identificata, anche a seguito di dichiarazioni rese da collaboratori di giustizia appartenenti al rivale clan -O-, come punto di ritrovo, abitualmente frequentato da numerosi componenti del clan -O-e quindi individuato quale obiettivo “sensibile”.

Ciò spiega il senso dell’attentato dinamitardo compiuto nella notte del 16 novembre 2017, proprio ai danni del “-O-”, senza che rilevi la condotta successiva assunta dal titolare, volta a fornire alle autorità di polizia elementi utili per individuare i presunti autori, proprio perché verosimilmente riconducibili al clan contrapposto.

L’attentato rientra, peraltro, in una serie di azioni simili, di chiara matrice camorristica realizzati a partire dalla seconda decade del mese di novembre del 2017, i quali hanno colpito esercizi commerciali e attività economiche di soggetti legati a --O-, coinvolti a vario titolo nelle vicende legate all'omicidio di --O-, esponente di spicco dell’omonimo clan avversario.

Non appare peraltro secondaria la considerazione che l’impresa della ricorrente è soggetta al rischio concreto di infiltrazione mafiosa, in quanto rientrante nel settore economico/commerciale della somministrazione di cibi e bevande, ritenuto di rilevante interesse da parte dei clan attivi sul territorio di Sant'Antimo.

Non assume, al riguardo, alcun rilievo la circostanza, pur dedotta dalla ricorrente, che l’esercizio commerciale non sia ancora attivo, in quanto è sufficiente la predisposizione degli adempimenti burocratico-amministrativi e finanziari, necessari per poi svolgere in concreto l’attività d’impresa e che possono essere essi stessi, di per sé, elementi sintomatici significativi di collegamento con organizzazioni criminali di stampo mafioso o, comunque, di loro condizionamento. Per di più, proprio le finalità di massima anticipazione della soglia di prevenzione, le quali connotano gli istituti normativi volti a contrastare le forme di intrusione delle consorterie mafiose nelle attività economiche lecite, deve indurre le competenti autorità ad intervenire prima e non dopo che l’impresa sia operativa e, per questo, abbia già prodotto i suoi effetti negativi sul mercato e, in definitiva, sull’assetto economico-sociale.

D’altronde, dalle indagini emerge in maniera cristallina come, nel territorio del comune di Sant’Antimo ed anche in quello dei comuni limitrofi, sia in concreto difficile, se non addirittura impossibile, per un imprenditore allestire un pubblico esercizio (quali per l’appunto bar, ristoranti) al di fuori di forme di collegamento, anche indiretto o tramite rapporto di parentela, con esponenti dei clan che su quei territori agiscono ed interferiscono.

Proprio questo aspetto è apparso decisivo nel rafforzare il più che plausibile convincimento di un rischio elevato ed ancora attuale di condizionamento mafioso a carico dell’impresa ricorrente, secondo una valutazione razionale volta a ricomporre in un quadro unitario ed interconnesso i diversi elementi, in apparenza episodici e slegati tra loro.

Deve infatti riflettersi sulla diffusa situazione di illegalità e sull’accertata infiltrazione mafiosa nei gangli dell’amministrazione, presente per ben due decenni nel Comune di Sant’Antimo, dove avrebbe operato l’impresa della ricorrente. Tale situazione provocò l'adozione del D.P.R. 30 dicembre 2016 col quale fu disposto lo scioglimento, ai sensi dell’art. 143 d. lgs 267/2000, degli organi rappresentativi ed al conseguente commissariamento dell’ente.

Al riguardo, giova ricordare che lo scioglimento degli organi rappresentativi del comune, ai sensi del menzionato art. 143, determina la dilatazione dell'ambito di applicazione delle informative antimafia le quali, per effetto della previsione di cui all'art.100 d. lgs 159/2011, devono essere richieste “precedentemente alla stipulazione, all'approvazione o all'autorizzazione di qualsiasi contratto o subcontratto, ovvero precedentemente al rilascio di qualsiasi concessione o erogazione indicati nell'articolo 67 indipendentemente dal valore economico degli stessi.”.

5.- Alla luce di quanto sopra, stante la complessiva infondatezza delle censure mosse dalla ricorrente, il ricorso ed i relativi motivi aggiunti vanno respinti.

Si ravvisano, comunque, le giuste ed eccezionali ragioni per compensare integralmente le spese del giudizio, in considerazione della particolarità della materia controversa

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