TAR Genova, sez. I, sentenza 2015-02-26, n. 201500239

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Genova, sez. I, sentenza 2015-02-26, n. 201500239
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Genova
Numero : 201500239
Data del deposito : 26 febbraio 2015
Fonte ufficiale :

Testo completo

N. 00066/2013 REG.RIC.

N. 00239/2015 REG.PROV.COLL.

N. 00066/2013 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 66 del 2013, integrato da motivi aggiunti, proposto da:
G S, rappresentato e difeso dall'avv. F R, presso il quale è elettivamente domiciliato nel suo studio in Genova, via Palestro, 2/11;

contro

Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Genova, viale Brigate Partigiane, 2;
Università degli Studi di Genova, in persona del Rettore pro tempore , rappresentata e difesa dall’Avvocatura distrettuale dello Stato, domiciliataria ex lege in Genova, viale Brigate Partigiane, 2;

per l'annullamento

- del decreto rettorale 13/11/2012, n. 1198, comunicato il 15/11/2012, concernente destituzione dal servizio dal 29/6/2004;

- di tutti gli atti ad esso preparatori, presupposti, connessi e conseguenti, tra cui la nota rettorale 10/8/2012 prot. ris. 19713, gli atti e i verbali del Collegio di disciplina del 5/9/2012 e del 19/10/2012, le note rettorali 10/9/2012 prot. ris. 21286, 12/9/2012 prot. ris. 21502 e 18/9/2012 prot. ris. 21951, la deliberazione e il verbale del Consiglio di Amministrazione dell’Università del 13/11/2012 e la deliberazione del Senato Accademico dell’Università in data 15/5/2012 di istituzione del Collegio di disciplina,

e, con ricorso per motivi aggiunti, per l’annullamento

del decreto rettorale 17/5/2012, n. 568 di costituzione del Collegio di disciplina.

,

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e dell’Università degli Studi di Genova;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 gennaio 2015 il dott. Richard Goso e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Il ricorrente, all’epoca professore ordinario di Farmacologia presso la Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Genova, veniva sospeso obbligatoriamente dal servizio, con decreto rettorale del 29 giugno 2004, perché raggiunto da ordinanza di custodia cautelare in carcere in ordine al reato di concussione.

I reati contestati al docente consistevano, in estrema sintesi, nell’aver favorito il conferimento di fittizi incarichi di consulenza e collaborazione, beneficiandone i familiari, e nell’aver indotto i propri collaboratori a versargli indebitamente parte delle retribuzioni percepite per lo svolgimento di alcune attività di ricerca.

Nella motivazione del provvedimento di sospensione, si affermava che, anche prescindendo dagli effetti della misura restrittiva, l’intervento cautelativo dell’Ateneo sarebbe stato imposto dalla gravità dei reati contestati.

Con successivo decreto rettorale del 13 settembre 2004, l’Università di Genova, preso atto della revoca della misura cautelare (che, nel frattempo, era stata sostituita dagli arresti domiciliari), ravvisava tuttavia l’esigenza che il docente fosse allontanato dall’esercizio delle proprie funzioni, per la presenza di gravissimi indizi di reato e il sospetto che le condotte illecite si fossero protratte nel tempo: l’interessato, in conseguenza, veniva sospeso cautelarmente dal servizio.

Conclusosi il periodo massimo quinquennale di sospensione cautelare, l’Università, con provvedimento del 19 giugno 2009, riammetteva il docente in servizio.

Veniva quindi emessa la sentenza n. 1392 del 14 dicembre 2009, con cui il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Genova, derubricata l’originaria accusa di concussione in quella di falso ideologico e truffa, applicava all’odierno ricorrente, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., la pena di anni uno e mesi sei di reclusione, con il beneficio della sospensione condizionale.

Con la sentenza n. 474 del 20 giugno 2011, la V Sezione penale della Corte di cassazione ha annullato la pronuncia del G.I.P. in quanto, al momento della sua deliberazione, parte dei reati era già caduta in prescrizione.

Il procedimento era trasmesso al Tribunale di Genova per l’ulteriore corso e, con sentenza n. 371 del 5 marzo 2012, divenuta irrevocabile il 16 aprile 2012, il G.I.P., non rilevando elementi che consentissero di pervenire ad un proscioglimento nel merito, dichiarava l’estinzione di tutti i reati per intervenuta prescrizione.

La sentenza era comunicata all’Università di Genova con fax del 11 luglio 2012.

Con nota rettorale del 10 agosto 2012, ricevuta dal docente il successivo giorno 20, l’Ateneo avviava il procedimento disciplinare nei confronti dell’interessato, contestando gli addebiti corrispondenti ai capi di imputazione indicati nelle premesse della sentenza di patteggiamento.

Con la medesima nota, si proponeva al Collegio di irrogare la sanzione della sospensione dall’ufficio e dallo stipendio per un anno.

L’incolpato, che aveva presentato un’articolata memoria datata 30 agosto 2012, è stato ascoltato dal Collegio di disciplina, alla presenza dei difensori di fiducia, nella seduta del 5 settembre 2012, all’esito della quale veniva disposta l’acquisizione degli atti del processo penale.

Nella successiva seduta del 19 ottobre 2012, il Collegio di disciplina, ritenendo che il comportamento complessivo dell’incolpato fosse stato “gravemente lesivo della dignità e dell’onore del professore universitario … nonché lesivo dell’immagine complessiva dell’Ateneo genovese, con ricadute negative sulla vita di relazione dell’intera comunità universitaria”, valutava che la sanzione proposta dal Rettore non fosse “proporzionata alla gravità sul piano disciplinare dei fatti contestati” e proponeva che fosse applicata la sanzione della destituzione.

Conformandosi al parere suddetto, il Consiglio di Amministrazione dell’Università di Genova, nella seduta del 13 novembre 2012, deliberava di infliggere all’odierno ricorrente la sanzione disciplinare della destituzione senza perdita del diritto a pensione, ai sensi degli artt. 87 e 89 del r.d. 31 agosto 1933, n. 1592.

Con decreto rettorale n. 1198 del 13 novembre 2012, infine, veniva applicata la sanzione espulsiva con decorrenza dal 29 giugno 2004.

L’ ex docente ha impugnato, con ricorso giurisdizionale notificato il 12 gennaio 2013 e depositato il successivo 16 gennaio, il provvedimento di destituzione e gli atti antecedenti del procedimento disciplinare.

Nel contesto di sedici motivi di gravame, sui quali ci si soffermerà dettagliatamente in parte motiva, l’esponente denuncia molteplici vizi di legittimità per violazione di legge ed eccesso di potere.

L’Avvocatura distrettuale di Genova, costituitasi in giudizio in rappresentanza delle amministrazioni intimate, eccepisce la carenza di legittimazione passiva del Ministero dell’istruzione e, nel merito, argomenta nel senso dell’infondatezza delle censure di legittimità dedotte dalla parte ricorrente.

Con atto notificato il 19 marzo 2014 e depositato il successivo 21 marzo, l’interessato, alla luce della documentazione versata in atti dalla difesa erariale, ha proposto tre motivi aggiunti di ricorso.

In prossimità dell’udienza di trattazione, le parti in causa hanno depositato memorie difensive: la difesa erariale ha preso posizione in ordine alle censure dispiegate con i motivi aggiunti;
la difesa del ricorrente ha ribadito, con alcune precisazioni, la maggior parte delle doglianze formulate con il ricorso introduttivo.

La parte ricorrente ha anche depositato una corposa memoria di replica.

Il ricorso, infine, è stato chiamato alla pubblica udienza del 8 gennaio 2015 e ritenuto in decisione.

DIRITTO

1) E’ contestata la legittimità della sanzione espulsiva (destituzione senza perdita del diritto a pensione) irrogata all’odierno ricorrente, già professore ordinario di Farmacologia presso la Facoltà di medicina e chirurgia dell’Università di Genova.

Come meglio riferito in premessa, i fatti che hanno dato luogo all’applicazione della sanzione disciplinare avevano formato oggetto del procedimento penale originariamente definito con sentenza di patteggiamento (pena di un anno e mesi sei di reclusione per i reati di truffa e falso ideologico) e conclusosi, a seguito della cassazione della pronuncia di primo grado, con declaratoria di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione.

Gli addebiti contestati all’incolpato, coincidenti con i capi di imputazione formulati a suo carico nel processo penale, consistevano nell’aver favorito interessi propri e dei propri familiari, mediante conferimento di incarichi fittizi di consulenza alle due figlie, e, soprattutto, nell’aver indotto alcuni collaboratori a versargli parte dei compensi ricevuti, a valere su fondi nella disponibilità dell’ente pubblico, per lo svolgimento di attività occasionali di ricerca.

2) In via preliminare, deve essere dichiarata, in accoglimento dell’eccezione sollevata dalla difesa erariale, la carenza di legittimazione passiva dell’intimato Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, poiché l’azione di annullamento introdotta nel presente giudizio concerne atti e provvedimenti adottati dall’Università di Genova e riferibili unicamente a tale Ateneo.

3) Con il primo motivo di ricorso, l’esponente afferma che i componenti del Collegio di disciplina, pronunciatosi per l’irrogazione della sanzione della destituzione, sarebbero stati semplicemente designati dal Senato accademico, ma non nominati dal Rettore, come invece richiesto dall’art. 29 dello statuto dell’Università di Genova.

La difesa erariale, però, ha prodotto agli atti del giudizio copia del decreto rettorale n. 568 del 17 maggio 2012, di costituzione del Collegio di disciplina competente per i procedimenti disciplinari a carico dei docenti (cfr. doc. n. 18 dell’Avvocatura dello Stato).

La censura, pertanto, è infondata in fatto.

4) Anche con il secondo motivo di ricorso, viene denunciata, sotto un diverso profilo, la violazione del citato art. 29.

Tale disposizione prevede, al primo comma, che “il collegio di disciplina è composto da sette docenti di ruolo a tempo pieno, designati dal senato accademico e nominati dal rettore, in modo tale che siano rappresentate tutte le scuole e le categorie di docenti”.

Il successivo art. 43 dello statuto stabilisce che “le scuole sono strutture di coordinamento tra più dipartimenti” e che esse “sono costituite o soppresse con decreto del rettore”.

Le scuole dell’Università di Genova sarebbero state costituite solo con decreto rettorale in data 31 maggio 2012, mentre l’antecedente decreto di costituzione dei dipartimenti nulla disponeva in ordine alle rispettive scuole di afferenza.

Il provvedimento di costituzione del Collegio di disciplina, perciò, sarebbe illegittimo in quanto adottato prima che fossero costituite le singole scuole dell’Ateneo, non potendosi quindi verificare se la sua composizione fosse effettivamente rispettosa dei requisiti di rappresentatività previsti dall’art. 29 dello Statuto.

La tesi di parte ricorrente è stata formulata prima di conoscere il menzionato decreto 17/5/2012 di costituzione del Collegio di disciplina, nel quale sono puntualmente indicati, accanto al nominativo di ciascun docente chiamato a farne parte, la scuola e il dipartimento di appartenenza.

Inoltre, come esattamente rilevato dalla difesa erariale, il momento di costituzione delle singole scuole non può essere fatto risalire all’adozione del decreto rettorale 31/5/2012, atteso che tali strutture erano già state individuate nell’allegato A dello statuto (richiamato dallo stesso art. 29): il decreto citato, perciò, aveva essenzialmente lo scopo fornire un “quadro ricognitivo del riassetto dipartimentale dell’Ateneo”, con effetto retroattivo alla data del 1° maggio 2012.

Fermo restando che, da un punto di vista sostanziale, non viene contestata l’effettiva rappresentanza di tutte le scuole e categorie di docenti all’interno del Collegio di disciplina.

Ne consegue la diagnosi di infondatezza della censura.

5) Il terzo motivo di ricorso contiene criptici accenni alle “vicende giudiziarie che hanno interessato lo statuto universitario” e va disatteso proprie perché formulato in termini affatto generici e perplessi.

La difesa erariale, comunque, dimostrando di aver compreso il senso di tale riferimento, precisa che lo statuto dell’Università ha dispiegato validamente i propri effetti per l’intera durata del procedimento disciplinare e non è stato sfavorevolmente inciso da eventuali pronunce rese in altri giudizi.

L’affermazione conclusiva di parte ricorrente, inerente alla necessità di costituire il Collegio di disciplina secondo le regole fissate dall’art. 3 della legge 16 gennaio 2006, n. 18, è priva di fondamento, poiché tale disposizione era già stata espressamente abrogata dall’art. 10, comma 6, della legge 30 dicembre 2010, n. 240.

6) Identica conclusione si impone per quanto concerne la censura dedotta con il quarto motivo di ricorso, relativa al mancato rispetto del termine di trenta giorni per l’avvio dell’azione disciplinare che, come previsto dall’art. 10, comma 2, della legge n. 240/2010, decorre “dal momento della conoscenza dei fatti” da parte del rettore.

Evidenzia l’esponente che l’Università di Genova aveva acquisito da lungo tempo piena conoscenza dei fatti oggetto degli addebiti disciplinari, perlomeno da quando, in data 29 giugno 2004, avendo ricevuto la comunicazione della Procura della Repubblica inerente all’applicazione della custodia cautelare in carcere, lo aveva sospeso dal servizio.

Ne consegue, ad avviso dell’esponente, che l’Ateneo avrebbe dovuto avviare il procedimento disciplinare nel termine di trenta giorni dall’entrata in vigore della legge n. 240/2010, senza attendere la conclusione del giudizio penale.

La doglianza di parte ricorrente pone in luce un aspetto di particolare criticità della citata legge di riforma la quale, pur dettando una disciplina tendenzialmente esaustiva in tema di organizzazione universitaria, anche per quanto concerne il procedimento disciplinare nei confronti dei docenti, nulla prevede in ordine ai rapporti tra giudizio penale e disciplinare.

A fronte di tale vuoto normativo, l’Amministrazione procedente ha fatto corretta applicazione dei principi che, nell’interesse dell’incolpato e per consentire una idonea e autonoma valutazione dei fatti di rilievo disciplinare, subordinano l’avvio del secondo giudizio all’esito della vicenda penale.

Con particolare riferimento alle sentenze di patteggiamento, peraltro, la giurisprudenza amministrativa ha precisato che il termine perentorio per l’avvio del procedimento disciplinare decorre dalla sentenza, non già dall’anticipata conoscenza dei fatti, poiché in tal caso, a fronte di una pronuncia che non contiene un pieno accertamento sul piano fattuale, non si può escludere la necessità di autonomi accertamenti, anche per quanto concerne la sussistenza dei presupposti per la sottoposizione a procedimento disciplinare (Cons. Stato, sez. IV, 21 aprile 2010, n. 2274).

Infine, la tesi secondo cui il termine di avvio del procedimento disciplinare dovrebbe essere fissato, non al momento della conoscenza in senso assoluto dei fatti, ma a quello dell’entrata in vigore della legge n. 240/2010, presuppone una disciplina transitoria di cui non si rinviene traccia nel contesto della stessa legge di riforma.

7) In via subordinata, il ricorrente sostiene, con il quinto motivo di gravame, che il termine previsto dall’art. 10, comma 2, della legge n. 240/2010, non riguarderebbe il mero invio della contestazione disciplinare, ma dovrebbe includere anche la ricezione dell’atto da parte dell’incolpato.

Ne consegue, in ipotesi, la tardività dell’atto di avvio del procedimento in esame, comunicato con lettera raccomandata del 10 agosto 2012, ma ricevuto dall’interessato il successivo 20 agosto, quindi oltre il termine di trenta giorni decorrente dalla data in cui l’Università aveva ricevuto la sentenza di condanna (11 luglio 2012).

Tale prospettazione non trova riscontro nella lettera della legge, ove è disciplinata solo la trasmissione degli atti al collegio di disciplina (da effettuarsi, appunto, “entro trenta giorni dal momento della conoscenza dei fatti”) e non si fa menzione delle comunicazioni all’incolpato né tantomeno viene fissato un termine, perentorio o meno, per tale adempimento.

La tesi in questione, peraltro, farebbe gravare sull’amministrazione le conseguenze di eventuali ritardi del servizio postale, rendendo irragionevolmente difficoltoso il rispetto del termine di avvio del procedimento.

Fermo restando che, nel caso di specie, la contestazione degli addebiti è stata effettuata senza ritardo e, seppure non pervenuta entro il termine su indicato, ha comunque consentito all’incolpato di apprestare adeguatamente le proprie difese, anche mediante la presentazione di un’articolata memoria.

8) Viene quindi denunciata, con il sesto motivo di ricorso, la violazione del principio del contraddittorio procedimentale, espressamente richiamato, in tema di giudizi disciplinari nei confronti dei docenti universitari, dall’art. 10, comma 1, della legge n. 240/2010 (“Il collegio opera secondo il principio del giudizio fra pari, nel rispetto del contraddittorio”).

L’art. 113, comma 3, del t.u. n. 3/1957, asseritamente applicabile nella fattispecie in forza del rinvio dinamico di cui all’art. 10, comma 3, della legge n. 240/2010, prevede, inoltre, che la commissione di disciplina “può sempre assumere direttamente qualsiasi mezzo di prova”, stabilendo con ordinanza la seduta e dandone avviso al dipendente che può assistervi e svolgere le proprie deduzioni.

Nel caso in esame, il Collegio di disciplina aveva deciso di svolgere attività istruttoria, tramite l’acquisizione degli atti del giudizio penale, ma non ha poi consentito all’incolpato di esaminare i documenti pervenuti, di formulare osservazioni scritte e di partecipare personalmente alla seconda e ultima seduta.

Osserva il Collegio che il principio del contraddittorio, invocato dalla parte ricorrente, risulta inteso a garantire che non siano arrecati effettivi pregiudizi alle possibilità di difesa dell’incolpato.

Il descritto modus procedendi non ha compromesso le prerogative dell’odierno ricorrente, al quale erano già state accordate, nell’ambito del procedimento disciplinare, ampie possibilità di svolgere le proprie deduzioni difensive, anche in forma scritta.

Nel corso della prima seduta del Collegio di disciplina, comunque, l’incolpato aveva avuto modo di ricostruire le vicende del giudizio penale e di chiarire le ragioni che lo avrebbero indotto a chiedere il patteggiamento.

L’acquisizione degli atti processuali, infine, si è resa necessaria onde consentire l’autonoma valutazione dei fatti da parte del Collegio di disciplina, ma non ha introdotto nel procedimento elementi tali da richiedere un ulteriore coinvolgimento attivo dell’incolpato, trattandosi di documentazione a lui ben nota, alla quale aveva già contrapposto, in sede di audizione orale dinanzi al Collegio, la propria versione dei fatti.

Ne deriva la diagnosi di infondatezza della censura.

9) La doglianza formulata con il settimo motivo di ricorso concerne la violazione del termine di venti giorni che, secondo l’art. 105, comma 1, del t.u. n. 3/1957, deve essere concesso al dipendente per la presentazione delle proprie giustificazioni.

L’odierno ricorrente, invece, aveva ricevuto la contestazione degli addebiti in data 20 agosto 2012, mentre la prima seduta del Collegio di disciplina ha avuto luogo il successivo 5 settembre, prima dello spirare del citato termine di venti giorni.

Anche questa censura fa riferimento alla violazione di un termine procedimentale che non è stato riprodotto dalla legge n. 240/2010 di riforma dell’organizzazione universitaria e, pertanto, non può ritenersi attualmente vigente.

La sussistenza del vizio denunciato dal ricorrente, in ogni caso, andrebbe esclusa in base al principio del raggiungimento dello scopo in quanto, nonostante l’asserita insufficienza del termine accordatogli per presentare le proprie giustificazioni, egli ha potuto svolgere articolate deduzioni in ordine a tutti i fatti indicati nella contestazione degli addebiti e svolgere anche rilievi di natura giuridica sui presupposti del procedimento disciplinare, senza dolersi della brevità del termine a difesa o avanzare riserve di sorta.

A comprova del carattere prettamente formalistico della censura, come tale non idonea a evidenziare reali violazioni delle garanzie dell’incolpato, va segnalato, infine, che neppure gli scritti difensivi depositati nel presente giudizio indicano quali elementi ulteriori avrebbero potuto essere allegati, onde influenzare il giudizio del Collegio di disciplina, qualora fosse stato concesso all’incolpato un più ampio termine a difesa.

10) Lamenta l’esponente, con l’ottavo motivo di ricorso, che il Collegio di disciplina non avrebbe valutato le deduzioni difensive contenute nella memoria del 30/8/2012, cosicché gli atti del procedimento sarebbero inficiati per violazione dell’art. 10 della legge n. 241/1990 e per eccesso di potere sotto i profili della carenza di istruttoria e di motivazione.

Come dimostra il timbro apposto sul documento di che trattasi, però, la citata memoria era pervenuta all’Università di Genova solo in data 6 settembre 2012, dopo che si era svolta la prima seduta del Collegio di disciplina (cfr. doc. n. 20 dell’Avvocatura dello Stato).

Il verbale in atti dimostra che il Collegio ha regolarmente preso contezza dello scritto difensivo in questione nella successiva seduta del 19 ottobre 2012.

Non sussistono, pertanto, le violazioni denunciate dal ricorrente.

11) La censura dedotta con il nono motivo di ricorso concerne un aspetto lessicale dell’atto di contestazione degli addebiti, laddove si afferma che i fatti qualificati nel giudizio penale avrebbero efficacia di giudicato nel procedimento disciplinare.

In mancanza di una vera e propria sentenza di condanna nei confronti dell’incolpato, tale affermazione deve ritenersi sicuramente erronea, ma l’improprio riferimento non ha in alcun modo inficiato la ricostruzione dei fatti addebitati all’incolpato né fuorviato la valutazione del Collegio di disciplina che, nel conclusivo verbale del 19/10/2012, ha correttamente escluso l’esistenza di “sentenze di condanna che facciano stato nel presente procedimento disciplinare”.

Anche in questo caso, perciò, la censura esprime un mero formalismo e non è idonea a rivelare l’esistenza di effettivi vizi del procedimento.

12) Sostiene l’esponente, con il decimo motivo di ricorso, che il Collegio di disciplina non avrebbe potuto modificare in peius la proposta motivata del Rettore, avendo solo il potere di confermarla o di propendere per l’applicazione di una sanzione più lieve.

Inoltre, non sarebbero state adeguatamente esplicitate le ragioni che hanno indotto tale organo a disattendere la proposta rettorale.

Dette censure non possono essere condivise.

Il preteso divieto di reformatio in peius rispetto alla proposta rettorale, infatti, non trova fondamento nella lettera dell’art. 10 della legge n. 240/2010 né in altre disposizioni della legge di riforma dell’organizzazione universitaria.

Il citato art. 10 affida al collegio di disciplina il compito di svolgere la fase istruttoria dei procedimenti disciplinari e di esprimere un parere sulla proposta avanzata dal rettore, “sia in relazione alla rilevanza dei fatti sul piano disciplinare sia in relazione al tipo di sanzione da irrogare”.

Il collegio di disciplina, quindi, è l’organo appositamente costituito per formulare un giudizio globale che non comprende solo la sussistenza dell’illecito disciplinare e la responsabilità del docente incolpato, ma include anche l’individuazione della sanzione che merita di trovare applicazione nel caso specifico.

Non è irragionevole, peraltro, ritenere che, sulla base di una più approfondita conoscenza degli elementi rilevanti che solo lo svolgimento del procedimento disciplinare consente di acquisire, la sanzione possa essere modulata in senso sfavorevole al dipendente al termine del procedimento medesimo.

Il Collegio di disciplina, infine, ha dichiarato di condividere le valutazioni del Rettore in ordine alla particolare rilevanza sul piano disciplinare dei fatti contestati, ma ha ritenuto che la sanzione proposta non fosse proporzionata alla gravità degli stessi: tale valutazione non può, all’evidenza, ritenersi inficiata per contraddittorietà intrinseca e, trattandosi di giudizio riservato al Collegio medesimo, non richiedeva un più articolato supporto motivazionale.

13) Con l’undicesimo motivo di gravame, il ricorrente denuncia la violazione del principio di indipendenza del procedimento disciplinare, in ragione del fatto che il Collegio di disciplina avrebbe “appiattito” il proprio giudizio su alcuni atti del procedimento penale, senza valutare autonomamente i fatti e l’elemento soggettivo.

Il menzionato principio di indipendenza non si estende, però, al punto di imporre che, laddove la sentenza penale contenga una compiuta rappresentazione della realtà, debba comunque essere operata un’autonoma ricostruzione dei fatti nell’ambito del procedimento disciplinare.

Anzi, in ossequio al principio di economia dei mezzi giuridici, deve ritenersi che l’amministrazione sia tenuta, a scanso di accertamenti ingiustificati, a mutuare i fatti accertati nel giudizio penale e modulare la propria attività istruttoria su tali risultanze processuali (cfr., da ultimo, T.A.R. Campania, Napoli, sez. VI, 3 dicembre 2014, n. 6310).

La giurisprudenza amministrativa ha anche avuto modo di precisare come, a seguito dell’entrata in vigore della legge 27 marzo 2001 n. 97, che ha equiparato ai fini disciplinari le sentenze di patteggiamento a quelle nelle quali i fatti sono stati ricostruiti e accertati nelle fasi delle indagini preliminari e nel dibattimento, sia venuta meno ogni necessità in sede disciplinare di svolgere ulteriori accertamenti e verifiche sulle circostanze accertate in sede penale, con la conseguenza che l’esigenza della motivazione del provvedimento disciplinare è pienamente soddisfatta anche con il mero richiamo alla sentenza penale patteggiata (cfr., ex multis , Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2009, n. 1496).

L’amministrazione procedente, pertanto, non era tenuta ad operare un’autonoma ricostruzione dei fatti, ma solo a giudicarli discrezionalmente sotto il profilo disciplinare: con il verbale conclusivo del Collegio di disciplina, contenente una compiuta valutazione dei fatti ascritti all’incolpato e dei loro effetti pregiudizievoli, detto onere deve intendersi pienamente assolto.

14) Nella sentenza declaratoria dell’estinzione dei reati ascritti all’odierno ricorrente, si afferma espressamente che “non risultano agli atti elementi che consentano di giungere ad un proscioglimento nel merito”.

Il Collegio di disciplina, come attesta il verbale conclusivo, si è limitato a richiamare tale affermazione ed ha poi proceduto all’esame degli atti del giudizio penale, in particolare delle dichiarazioni rese in sede di interrogatorio dal ricorrente e da altri indagati.

L’assoluta correttezza di tale modus procedendi esclude la sussistenza dei vizi di legittimità denunciati con il dodicesimo motivo di ricorso, in particolare del vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti.

15) Con il tredicesimo motivo, l’esponente sostiene che la sanzione applicata nel caso di specie sarebbe stata manifestamente sproporzionata rispetto ai fatti contestati nonché priva di adeguata motivazione.

Osserva il Collegio che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, l’amministrazione dispone di un ampio potere discrezionale nell’apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari: le relative valutazioni sono insindacabili nel merito da parte del giudice amministrativo, se non per macroscopici vizi logici (cfr., da ultimo, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 2 dicembre 2014, n. 12165).

Nel caso in esame, il comportamento ascritto al dipendente risulta oggettivamente molto grave nonché idoneo a pregiudicare la dignità delle funzioni affidategli e il prestigio dell’amministrazione, cosicché non può certo ritenersi che la sanzione inflitta fosse sproporzionata o inficiata da vizi manifesti.

Il Collegio di disciplina, inoltre, ha diffusamente esposto le ragioni che inducevano a qualificare in termini di particolare gravità la condotta del dipendente, non sanzionabile adeguatamente con la sospensione dall’ufficio e tale da richiedere, invece, l’applicazione della sanzione espulsiva.

Anche sotto questi profili, pertanto, non sussistono i denunciati vizi di legittimità.

16) Il ricorrente si duole, con il quattordicesimo motivo di gravame, della mancata valutazione dei favorevoli precedenti di servizio nonché del lungo tempo trascorso dai fatti di rilievo disciplinare, elementi che avrebbero dovuto indurre l’amministrazione a escludere l’applicazione di sanzioni ovvero ad applicare una sanzione più lieve.

In ordine al primo rilievo, osserva il Collegio che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, i buoni precedenti comportamentali non impediscono l’irrogazione di una sanzione disciplinare di carattere radicale, ove il disvalore del comportamento tenuto dal dipendente sia ritenuto, come nel caso di specie, incompatibile con la sua permanenza in servizio (cfr., da ultimo, T.A.R. Lazio, Roma, sez. I, 3 novembre 2014, n. 10988).

A fronte della particolare gravità dei fatti addebitati, peraltro, la scelta di irrogare la sanzione della destituzione non può apparire illogica solo in ragione del fatto che l’interessato non avesse riportato precedenti disciplinari nel lungo periodo di permanenza in servizio e, anche nel periodo 2009-2012, avesse tenuto un comportamento immune da mende.

Il lungo lasso di tempo trascorso dai fatti, infine, è conseguenza delle lungaggini del giudizio penale e non costituisce certo circostanza addebitabile all’amministrazione che, fin dal momento della sospensione obbligatoria dal servizio, aveva stigmatizzato con la massima severità la condotta del docente interessato.

Anche le censure dedotte con il quattordicesimo motivo di ricorso, pertanto, sono destituite di fondamento.

17) Identica diagnosi si impone relativamente al quindicesimo motivo, ove è censurata la “pedissequa trascrizione” di stralci degli interrogatori svoltisi nel corso del procedimento penale che, di per sé e in considerazione dello stadio embrionale delle indagini, non fornirebbero compiuta dimostrazione dei fatti e della responsabilità del soggetto che li aveva posti in essere.

La prospettazione di parte ricorrente non può essere condivisa, poiché l’amministrazione (come già rilevato sub 14) ha proceduto ad un’accurata disamina degli atti del giudizio penale e, sulla base di tali risultanze documentali, ha autonomamente valutato i fatti di rilievo disciplinare.

Né può essere accettata la ricostruzione riduttiva degli avvenimenti proposta dal ricorrente, smentita dalle stesse dichiarazioni rese in sede di interrogatorio penale le quali, ben lungi dal configurarsi quali “dichiarazioni rese nella concitazione del momento”, costituivano esplicite affermazioni di responsabilità in ordine a fatti obiettivamente gravi.

18) Con il diciottesimo motivo di ricorso, l’esponente, in sostanza, pretende di dimostrare che la propria condotta sarebbe stata del tutto conforme alle regole e alla prassi in uso.

L’inconsistenza di tale rilievo emerge con tutta evidenza, oltre che dalla sentenza di patteggiamento, dalle menzionate dichiarazioni rese in sede di procedimento penale, dalle quali emerge, come già accennato, un chiaro riconoscimento di responsabilità concernente condotte eticamente inaccettabili.

19) I motivi aggiunti di ricorso contengono ulteriori censure avverso il decreto rettorale 17/5/2012 di costituzione del Collegio di disciplina, conosciuto nel corso del giudizio.

20) Il diciassettesimo e diciottesimo motivo (primo e secondo motivo aggiunto) riproducono sostanzialmente gli stessi rilievi di legittimità già formulati con il secondo motivo del ricorso introduttivo: non si sarebbe potuto procedere alla costituzione del Collegio di disciplina, ad avviso del ricorrente, prima dell’integrale attuazione dell’ordinamento universitario conseguente all’approvazione del nuovo statuto, in particolare prima che fosse formalmente stabilita l’afferenza dei singoli dipartimenti alle scuole;
il citato decreto 17/5/2012, che indica per ciascun docente sia il dipartimento di appartenenza sia la relativa scuola, sarebbe stato adottato, perciò, in difetto dei necessari presupposti.

Tali censure, si ribadisce, sono meramente ripetitive dei rilievi già formulati con l’atto introduttivo del giudizio e si espongono, quindi, a diagnosi di inammissibilità.

Esse, in ogni caso, vanno disattese mediante semplice richiamo a quanto precisato sub 4), in ordine all’individuazione dell’esatto momento di costituzione delle varie scuole e all’incontestata rappresentatività di ognuna di esse all’interno del Collegio di disciplina.

21) Con il diciannovesimo motivo di ricorso (terzo e ultimo motivo aggiunto), l’esponente afferma che, in forza dell’art. 29 del nuovo statuto dell’Università di Genova, ogni scuola dovrebbe essere rappresentata all’interno del Collegio di disciplina da un professore ordinario, per evitare che possano partecipare alle deliberazioni relative a tale categoria di personale docente i professori associati e i ricercatori.

Con il più volte citato decreto rettorale di costituzione del Collegio di disciplina dell’Università di Genova, invece, sono stati nominati cinque professori ordinari, un professore associato e un ricercatore, non potendosi in tal modo garantire che l’odierno ricorrente, allora professore ordinario, fosse giudicato esclusivamente da docenti in analoga posizione di ruolo.

Come rilevato dalla difesa erariale, tale assunto si fonda su un’erronea lettura coordinata delle disposizioni statutarie.

L’art. 29, comma 1, dello statuto, stabilisce che “il collegio di disciplina è composto da sette docenti di ruolo a tempo pieno, designati dal senato accademico e nominati dal rettore, in modo tale che siano rappresentate tutte le scuole e le categorie di docenti”.

Secondo il comma 2, primo periodo, dello stesso articolo, “alle deliberazioni concernenti i professori ordinari e straordinari non partecipano i professori associati e i ricercatori”.

Per quanto di specifico interesse, le trascritte disposizioni esprimono due chiari precetti.

Il primo di essi riguarda la composizione numerica dell’organo disciplinare (sette docenti, uno per ciascuna scuola) ed è stato pacificamente rispettato nel caso di specie.

Peraltro, la tesi di parte ricorrente, inerente alla rappresentanza di ciascuna scuola a livello di professori ordinari, porterebbe all’assurda conseguenza di escludere in radice la possibilità che le altre categorie di personale docente partecipino all’esercizio della funzione disciplinare.

Il secondo precetto, con cui si esclude che i professori ordinari possano essere giudicati dai professori associati e dai ricercatori, costituisce attuazione del principio sancito dall’art. 10, comma 1, secondo periodo, della legge n. 240/2010: “Il collegio opera secondo il principio del giudizio fra pari”.

Anch’esso è stato pienamente rispetto nel caso in esame, atteso che sono stati convocati e hanno partecipato alle sedute del Collegio di disciplina esclusivamente professori ordinari.

22) Per tali ragioni, il ricorso è infondato e, pertanto, va respinto.

23) Le spese di lite seguono la soccombenza e sono equamente liquidate come da dispositivo.

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