Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2021-01-28, n. 202100862
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Testo completo
Pubblicato il 28/01/2021
N. 00862/2021REG.PROV.COLL.
N. 10511/2011 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 10511 del 2011, proposto dall’Ispettore
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati E B e V R, con domicilio eletto presso l’avv. Lorenzo Grisostomi Travaglini in Roma, via Civitavecchia n. 7;
contro
Ministero della Giustizia, in persona del Ministro pro
tempore
, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio
ex lege
in Roma, via dei Portoghesi, 12;
Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria Provveditorato Regionale della Lombardia, Direzione della Casa Circondariale di -OMISSIS-;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di -OMISSIS- (Sezione Prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente la domanda di risarcimento danni per la illecita condotta tenuta dall'amministrazione (cd. mobbing)
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell'udienza pubblica telematica del giorno 24 novembre 2020, tenuta ai sensi dell’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, il Cons. Cecilia Altavista;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
Con il presente atto di appello il signor -OMISSIS-, Ispettore della Polizia penitenziaria presso la casa circondariale di -OMISSIS-, ha impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, sezione di -OMISSIS-, n. 860 del 2011, che ha respinto il ricorso da lui proposto per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza delle condotte dell’Amministrazione penitenziaria relative agli anni 2006-2007, tali da integrare il fenomeno denominato “mobbing”.
Nel ricorso di primo grado aveva esposto di essere ispettore della Polizia penitenziaria, in servizio presso la Casa circondariale di -OMISSIS-, con funzioni di coordinatore di sorveglianza generale, di rivestire in tale ambito anche la qualità di delegato sindacale e di essere stato vittima, nel periodo dal 2006 ai primi mesi del 2008, di numerosi episodi denotanti a suo dire una condotta vessatoria nei suoi confronti da parte dell’amministrazione datrice di lavoro, tanto da essergli stato diagnosticato nell’aprile 2008 “-OMISSIS-”, il cui principale fattore di stress veniva ricondotto alla componente lavorativa;ha pertanto concluso per la condanna dell’amministrazione al ristoro del danno patito, da lui imputato ad un fenomeno di cd. mobbing.
In primo grado aveva richiesto somme pari al danno biologico, da liquidarsi in via forfetaria, avuto riguardo alla natura della patologia psico - fisica nonché alla causa scatenante la medesima, in misura pari ad € 25.000 o maggiore o minore di giustizia, facendo ricorso a CTU medico -legale;danno alla professionalità, comprensivo della impossibilità di usufruire dei privilegi legislativamente previsti per coloro che beneficiano del diritto allo studio e di esercitare la propria attività sindacale, da calcolarsi in una mensilità della retribuzione base, pari ad € 1.500 per ogni mese del periodo in cui si è protratto il comportamento volto alla dequalificazione e demansionamento del ricorrente, per un importo complessivo pari ad € 48.000;danno esistenziale stimato in via forfetaria in € 50.000, ovvero nella maggiore o minore misura di giustizia;il tutto per complessivi € 123.000, o maggiore o minore somma di giustizia.
A sostegno dell’azione aveva lamentato di aver subìto una condotta persecutoria, materializzatasi attraverso plurimi atti provenienti in particolare dalla Direttrice dell’istituto penitenziario ove prestava servizio.
Costituitosi il Ministero della giustizia, il Tribunale amministrativo, dopo aver disposto istruttoria, ha respinto il ricorso ed ha compensato le spese di lite.
In particolare, il Tribunale amministrativo, dopo avere esaminato i vari episodi esposti dal ricorrente, ha ritenuto, sulla base di vari precedenti giurisprudenziali, che richiedono la necessità del “ carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro ”, che non fosse stata raggiunta la prova della condotta mobbizzante, non essendo i fatti descritti come rispondenti ad un unico intento persecutorio teso ad isolare la vittima, dovendo inquadrarsi tali fatti in vicende di conflittualità lavorativa anche grave ma comune alla gestione complessiva dell’istituto.
Con l’atto di appello sono stati ripercorsi gli episodi già oggetto del ricorso di primo grado, anche sulla base delle risultanze della relazione istruttoria depositata dall’Amministrazione in primo grado, a seguito dell’incombente disposto dal Tribunale amministrativo. E’ stato poi formulato un unico motivo di appello, con cui si è dedotta la “ violazione di legge, contraddittorietà e illogicità della motivazione ”, sostenendo la violazione da parte dell’Amministrazione, in particolare degli uffici sovraordinati alla direzione della casa circondariale, degli obblighi di tutela del lavoratore e dei principi generali di correttezza e buona fede. E’ stata, quindi, riproposta la domanda risarcitoria come quantificata in primo grado con eventuale accertamento da parte di un consulente tecnico d’ufficio.
Si è costituto in giudizio il Ministero della Giustizia che, nella memoria per l’udienza pubblica ha contestato la fondatezza dell’appello, opponendosi alla richiesta di consulenza tecnica d’ufficio.
Nella memoria di replica la difesa appellante ha insistito per l’accoglimento della propria domanda, richiamando, altresì, il danno da cd. “ straining ”, stress forzato lavorativo, che, alla data di proposizione del ricorso di primo grado, non era stato ancora affermato dalla giurisprudenza.
All'udienza pubblica telematica del giorno 24 novembre 2020, tenuta ai sensi dell’art. 25 del d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, l’appello è stato trattenuto in decisione.
Ritiene il Collegio, prima di passare ad esaminare i vari episodi lamentati dall’appellante, già ampiamente esaminati dal giudice di primo grado, che, secondo la difesa appellante, integrerebbero la fattispecie del mobbing , di richiamare il quadro giurisprudenziale relativo alla cornice definitoria del fenomeno, in assenza di indicazioni normative.
La giurisprudenza della Cassazione, anche sulla base delle indicazioni della Corte costituzionale (sentenza n. 359 del 2003), ha affermato che il mobbing rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate, designando un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (Cass.civ. 6 agosto 2014, n. 17698;5 novembre 2012, n. 18927).
Ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo devono ricorrere molteplici elementi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio - illeciti o anche leciti se considerati singolarmente- che, con intento vessatorio, siano stati posti in essere contro la vittima in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente da parte del datore di lavoro o di un suo preposto o anche da parte di altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;c) il nesso eziologico tra la descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica e/o nella propria dignità;d) il suindicato elemento soggettivo, cioè l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (Cass. Civ. 21 maggio 2011 n. 12048;26 marzo 2010 n. 7382;id. sez. Lavoro 27 gennaio 2017, n. 2147;n. 2142;id. Ord., 11 dicembre 2019, n. 32381).
Elementi questi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 cod. civ, e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (Cass. n. 7382 del 2010).
Tali orientamenti sono stati seguiti anche da questo Consiglio, che ha affermato che, ai fini della configurabilità del mobbing sono necessari: “ la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;la prova dell'elemento soggettivo, costituito dall’intento persecutorio ” (Cons. Stato, sez. IV, 7 febbraio 2019, n. 910).
In particolare, l’elemento psicologico è integrato dal dolo generico o dal dolo specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore. Pertanto, ai fini della configurabilità della condotta lesiva, qualificata danno da emarginazione lavorativa o mobbing , sono rilevanti, innanzitutto, la strategia unitaria persecutoria - che non si sostanzia in singoli atti da ricondurre nell’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali nell’ambiente lavorativo, causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ma che non sono caratterizzati dalla volontà di isolamento del lavoratore) - che ha come disegno unitario la finalità di emarginare il dipendente o di porlo in una posizione di debolezza, con la conseguenza che la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro.
E’ evidente che la fattispecie così descritta postula il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso, sia pur nella forma del dolo generico.
Infatti, in caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l'illecito solo se si accerti che l’unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall’eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un’ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell’ “ exceptio doli generalis” , consente per altro verso di escludere dall’orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro (Cons. Stato, Sez. IV, 10 gennaio 2012 n. 14;id., Sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905).
Il giudice di primo grado ha puntualmente ricostruito in fatto i vari episodi denunciati, riepilogati anche nell’atto di appello con alcune, peraltro generiche, contestazioni circa la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado.
Esaminando i vari episodi, alla luce della coordinate giurisprudenziali sopra richiamate, risulta evidente dall’insieme dei fatti denunciati che si tratta di condotte che appaiono slegate fra di loro e privi di un unico filo conduttore e del necessario nesso psicologico, che consenta di riconfigurarli quali tasselli di una fattispecie complessa, non trovando riscontro negli atti di causa proprio l’ elemento soggettivo caratterizzato dall’unico intento persecutorio;ciò in quanto si tratta di comportamenti spesso indirizzati anche nei confronti di altri dipendenti;inoltre, rientranti in situazioni di conflittualità lavorativa generalizzata, come di desume anche dalla documentazione depositata in giudizio in allegato alla Relazione istruttoria dell’Amministrazione in primo grado, tra cui l’esposto del sindacato di appartenenza dell’odierno appellante del 21 febbraio 2006.
In particolare, alcuni dei fatti lamentati - quali il diniego del permesso per la partecipazione alla manifestazione sindacale del 27 febbraio 2006, avendo dovuto usufruire di un giorno di ferie;la successiva denuncia da parte della direttrice dell’Istituto, unitamente ad altri colleghi, per i reati di diffamazione, anche a mezzo stampa, e di rifiuto di indicazioni sulla propria identità personale, asseritamente commessi nel corso della detta manifestazione;il rimprovero disciplinare inflitto il 1 marzo 2006, due giorni dopo la medesima manifestazione, all’appellante dalla direttrice per la sua presenza nella portineria dell’Istituto, dove non avrebbe dovuto accedere in base alle disposizioni di servizio impartitegli (oggetto anche di un esposto della sigla sindacale di appartenenza dell’appellante);il ritardo di quasi sei mesi nella consegna della documentazione richiesta dall’appellante, nella sua qualità di sindacalista, di avere copia di taluni documenti relativi al servizio;le vicende relative alla partecipazione ad altra manifestazione sindacale del 5 settembre 2006- risultano chiaramente ascrivibili all’attività sindacale svolta dall’appellante e, quindi, configuranti eventualmente una condotta di attività antisindacale da parte della direttrice del casa circondariale- rivolta indistintamente sia all’Ispettore appellante che ad altro personale, come confermato dalla denuncia penale presentata nei confronti di molti partecipanti alla manifestazione del 27 febbraio 2006, nonché dai vari esposti sottoscritti dall’appellante insieme ad altri rappresentante sindacali nei confronti della stessa direttrice.
Gli episodi relativi al diniego di un permesso per motivo di studio per più di un giorno, alla revoca di un riposo programmato, alla attribuzione dei congedi per malattia del figlio infratreenne solo a seguito della presentazione della dichiarazione del dirigente scolastico della scuola ove era in servizio la coniuge, non essendo stata ritenuta sufficiente la autocertificazione, il ritardo nella concessione di congedi parentali, le difficoltà di riorganizzare i turni per le ore riconosciute per permessi di studio, denotano una complessiva condotta di disattenzione alle disciplina di tutela familiare e delle esigenze di studio dei lavoratori ed hanno senz’altro reso più difficoltosa la gestione delle attività personali e la conciliazione degli impegni familiari con l’attività lavorativa, ma non manifestano un unitario intento persecutorio, al fine dell’isolamento dal contesto lavorativo, proprio del mobbing . Quanto ai ritardi nella concessione dell’aspettativa per la partecipazione a competizioni elettorali, il punteggio minore ottenuto per i trasferimenti nell’anno 2007, la mancata attribuzione dell’incarico di responsabile di unità operativa, il ritardo nell’invio alla Commissione medica ospedaliera in data successiva al 17 aprile 2007 (in disparte l’eventuale rilevanza di tale ultimo episodio ad altri fini, essendo indicato come obbligo l’avvio alla Commissione medica ospedaliera in relazione a patologie di ordine psichico dalla Circolare del 16 marzo 1994 in allegato alla relazione istruttoria depositata in primo grado), si tratta di condotte che, se considerate singolarmente rilevano sotto il profilo della disfunzione organizzativa, inquadrate in un unico contesto denotano una situazione generale di contrasto con il vertice dell’istituto - probabilmente anch’esso dovuto almeno in parte all’attività sindacale dell’appellante - ma non manifestano l’intento persecutorio teso all’ emarginazione e all’isolamento del dipendente nel contesto lavorativo, tipico del mobbing , essendo rientranti anzi in una complessiva situazione di progressive incomprensioni, giunta ad una vera e propria conflittualità, come si desume anche dalle varie denunce penali presentate da entrambi.
In base alla giurisprudenza sopra richiamata, a cui il Collegio intende dare continuità, anche un ambiente di lavoro conflittuale non comporta la prova del mobbing, il quale è caratterizzato da un preciso elemento soggettivo persecutorio e discriminante del datore di lavoro, da escludersi nel caso di specie, proprio in relazione alla complessiva situazione di conflittualità tra il personale e la direttrice dell’Istituto verificatasi nell’istituto penitenziario.
Parte appellante insiste, altresì, per la domanda di risarcimento del danno per la mancata adozione delle misure necessarie alla tutela dell’integrità psico-fisica del lavoratore ,ai sensi dell’art. 2087 c.c. evidenziando l’alterità di tale istanza rispetto a quella di risarcimento del danno per mobbing .
Per vero, l’art. 2087 c.c. - secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro - può trovare applicazione anche al di fuori delle ipotesi di mobbing . Ove il lavoratore chieda il risarcimento del danno patito alla propria integrità psico-fisica in conseguenza di una pluralità di comportamenti del datore di lavoro e dei colleghi di lavoro di natura asseritamente vessatoria, il giudice, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati - esaminati in sequenza causale - pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili a responsabilità del datore di lavoro, che possa essere chiamato a risponderne, nei limiti dei danni a lui imputabili (Cons. Stato, sez. VI, 12 marzo 2015, n. 1282).
Tale domanda risarcitoria richiede la prova del nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento e della lesione dell’integrità psico-fisica del lavoratore, elementi di cui non è stata raggiunta la prova negli atti di causa, essendo la prova in atti limitata al certificato del 16 aprile 2008 relativo al “ -OMISSIS- ” ricondotto in sede di prima valutazione del medico specialista alla componente lavorativa, ma specifica valutazione dell’effettivo nesso di causalità con una condotta omissiva delle dovute tutela da parte del datore di lavoro.
Deve, peraltro, sul punto, essere, disattesa l’istanza di indagine medico legale, in quanto il giudice non può sopperire al mancato espletamento dell’onere probatorio, come detto, incombente alla parte ricorrente in caso di proposizione di domanda risarcitoria.
Per la costante giurisprudenza di questo Consiglio, la consulenza tecnica d’ufficio non può essere invocata per supplire al mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del privato (cfr. Cons. Stato Sez. II, 25 maggio 2020, n. 3269;Sez.VI, 26 marzo 2020, n. 2121;Sez. IV, 15 dicembre 2011 n.6598). La consulenza tecnica non esonera, infatti, la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, fatti che devono essere dimostrati dalla medesima parte alla stregua dei criteri di ripartizione dell'onere della prova posti dall'art. 2697 c.c., avendo la funzione di fornire all'attività valutativa del giudice l'apporto di cognizioni tecniche non possedute, anche in relazione alle modalità di quantificazione di un danno già provato, al fine di verificare i criteri di quantificazione forniti dalle parti (Cons. Stato Sez. V, 28 febbraio 2011, n. 1271).
Quanto all’asserito demansionamento, si tratta di domanda formulata del tutto genericamente con riferimento all’episodio della mancata attribuzione dell’incarico di Responsabile di unità operativa e alle funzioni di smistamento della corrispondenza tra i detenuti a cui sarebbe stato adibito, senza alcuna specificazione né dell’effettivo periodo di svolgimento di tale incombenza né delle concrete modalità del servizio.
Questo Consiglio ha già affermato (v. da ultimo, Cons. Stato, sez. III, 27 febbraio 2019, n. 1371) che “ il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell'esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l'inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa” (Cass. Civ. sez. lav., 5 dicembre 2008, n. 28849).
Nel caso di specie, alla luce di quanto esposto, non risulta integrata la prova della sussistenza del danno, né degli specifici aspetti riconducibili a responsabilità del datore di lavoro pubblico, che avrebbero privato il lavoratore dello svolgimento di uno o più dei profili mansionistici afferenti alla propria qualifica, tali da potersi ricollegare causalmente ad un danno subìto e che, come si è detto, è rimasto non provato.
Altrettanto generica deve ritenersi la domanda relativa al danno esistenziale, meramente dedotto senza alcuna allegazione né in punto di fatto né di idonei elementi probatori.
Per la costante giurisprudenza di questo Consiglio, in caso di proposizione di domanda risarcitoria, l’onere della prova di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie incombe sull’istante secondo il principio generale previsto dall’art. 2697 c.c. (cfr. Cons. Stato, sez. III, 24 dicembre 2019, n. 8813;Sez. V, 25 febbraio 2019, n. 1253;id. Sez. V, 22 gennaio 2015, n. 282).
Quanto al riferimento allo straining , “stress forzato lavorativo”, si tratta di deduzione del tutto nuova introdotta nel presente giudizio di appello, contenuta, inoltre, solo nella memoria di replica per l’udienza pubblica e non può essere, quindi, esaminata in questa sede, anche se riconosciuto dalla giurisprudenza in data successiva alla proposizione del giudizio di primo grado (nel senso della novità della domanda di risarcimento danni per straining rispetto a quella di mobbing cfr. Cass. civ. Sez. lavoro, ord., 17 dicembre 2019, n. 33392;sent. 28 novembre 2018, n. 30807).
In conclusione, l’appello è infondato e deve essere respinto.
Sussistono nondimeno giusti motivi, stante la particolarità della vicenda, per disporre la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.