Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-12-21, n. 202008198

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2020-12-21, n. 202008198
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202008198
Data del deposito : 21 dicembre 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 21/12/2020

N. 08198/2020REG.PROV.COLL.

N. 05116/2010 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5116 del 2010, proposto dal
signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati A M e P P, con domicilio eletto presso l’avv. A M in Roma, via F. Confalonieri n. 5

contro

Ministero della Difesa, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con domicilio ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sez. I- bis , n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’impugnazione del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare della perdita del grado per rimozione


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Difesa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 13 ottobre 2020 il Cons. Cecilia Altavista e udito per la parte appellante l’avvocato A M;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue


FATTO

Il maresciallo -OMISSIS-, al tempo in servizio presso la stazione dei Carabinieri di -OMISSIS-, veniva sottoposto a procedimento penale per i reati di peculato militare aggravato e continuato, in quanto, essendo incaricato della contabilità relativa alla “-OMISSIS-, si appropriava di una ingente somma di denaro (pari a circa -OMISSIS-) dal conto “gestione mensa carabinieri” successivamente restituendolo.

Con sentenza del GUP presso il Tribunale militare di Cagliari n. -OMISSIS-è stato condannato a seguito di patteggiamento a -OMISSIS-.

Il 9 marzo 2009 è stato avviato il procedimento disciplinare che si è concluso con il deferimento alla Commissione di disciplina e la decisione della Commissione di irrogazione della sanzione della perdita del grado per rimozione, per cui con provvedimento del Direttore generale per il personale militare del 19 agosto 2009 è stata irrogata la sanzione, provvedimento notificato il 9 settembre 2009.

Avverso tale provvedimento è stato proposto ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio per vari profili di eccesso di potere, per travisamento ed erronea valutazione dei fatti, illogicità, contraddittorietà, violazione del principio di proporzione, difetto di istruttoria e di motivazione nonché di violazione dell’art. 3 della legge n. 241 del 1990 e della legge 31 luglio 1954, n. 599, con cui ha lamentato il difetto di istruttoria e di motivazione, in quanto il provvedimento si sarebbe basato sul patteggiamento in sede penale, senza valutare le specifiche circostanze del caso, avendo il militare anche nel procedimento disciplinare dedotto di avere commesso il fatto per una impellente necessità relativa alle spese per cure mediche di un familiare;
inoltre, ha dedotto la sproporzione tra il fatto addebitato e la più grave sanzione disciplinare espulsiva essendo stata restituita la somma già prima dell’avvio del procedimento penale, anche in relazione alla intervenuta sentenza della Corte costituzionale n. 286 del 18 luglio 2008, che ha affermato la illegittimità costituzionale della previsione del codice penale militare che, diversamente dalla fattispecie dell’art. 314 comma 2 c.p., non prevedeva una fattispecie sanzionatoria di minore gravità per il peculato d’uso;
inoltre la violazione dell’art. 75 della legge n. 599 del 554 e il difetto di istruttoria e di motivazione del provvedimento di irrogazione della sanzione, che avrebbe potuto discostarsi dalle conclusioni della Commissione di disciplina.

Il giudice di primo grado, con sentenza in forma semplificata pronunciata a seguito della camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, ha respinto le censure, ritenendo che l’Amministrazione avesse correttamente valutato la gravità del comportamento del militare, sulla base della sentenza di patteggiamento, ritenuto lesivo del prestigio dell’Arma dei Carabinieri, escludendo altresì la sproporzione della sanzione espulsiva rispetto alla condotta del ricorrente, la cui gravità era stata valutata dalla Commissione di disciplina.

Avverso la pronuncia di primo grado è stato proposto il presente atto di appello, contestando la motivazione della sentenza di primo grado, riproponendo sostanzialmente le censure di difetto di istruttoria e di motivazione, sostenendo che l’Amministrazione non avesse operato una autonoma valutazione dei fatti rispetto al giudizio penale, in quanto in tale autonoma valutazione avrebbero dovuto essere considerate le specifiche circostanze di fatto in cui aveva agito l’appellante, la avvenuta restituzione delle somme, nonché il complessivo stato di servizio dello stesso;
inoltre, ha dedotto che, ai sensi dell’art. 75 della legge n. 599 del 1954, il Ministro si potrebbe discostare dal giudizio della Commissione di disciplina, rendendo quindi più penetrante l’obbligo di autonoma motivazione anche del provvedimento ministeriale.

Il Ministero della Difesa si è costituito con atto di mero stile.

Con ordinanza cautelare n. -OMISSIS-è stata respinta la domanda cautelare di sospensione della sentenza appellata.

Il 10 aprile 2020 la difesa appellante ha chiesto la rimessione in termini, ai sensi dell’art. 84 comma 5 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. dalla legge 24 aprile 2020, n. 27, e ha presentato memoria per l’udienza pubblica, insistendo nelle proprie argomentazioni difensive relative alla mancanza di un autonoma valutazione della gravità del comportamento del militare rispetto alla sentenza penale, deducendo, altresì, a sostegno della non particolare gravità del fatto commesso, che il reato di peculato militare, previsto dal codice penale militare, successivamente alla condanna dell’appellante, è stato dichiarato incostituzionale con la sentenza n. 286 del 18 luglio 2008, in quanto non prevedeva l’ipotesi più lieve del peculato d’uso di cui al codice penale.

Con istanza depositata l’11 maggio 2020 ha chiesto la decisione della causa.

L’Avvocatura dello Stato ha presentato istanza di rimessione in termini ai sensi dell’art. 84 comma 5 del d.l. 17 marzo 2020 n. 18, conv. dalla legge 24 aprile 2020, n. 27 con fissazione di una nuova udienza.

Con ordinanza del 14 maggio 2020 è stata accolta l’istanza di rimessione in termini ed è stata fissata l’udienza pubblica del 13 ottobre 2020.

Il 1 ottobre 2020 la difesa appellante ha presentato memoria di replica, riportandosi alle precedenti difese e evidenziando che l’Avvocatura dello Stato, a seguito della rimessione in termini, non ha comunque depositato memoria.

All’udienza pubblica del 13 ottobre 2020 l’appello è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

L’appello è infondato.

Ai sensi dell’art. 653 comma 1 bis c.p.p. la sentenza penale irrevocabile di condanna ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare davanti alle pubbliche autorità quanto all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale e all'affermazione che l'imputato lo ha commesso”.

Tale efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare è prevista anche per la sentenza di patteggiamento ai sensi dell’art. 445 comma 1 bis c.p.p., che, escludendo l’efficacia della sentenza prevista dall'articolo 444, comma 2, nei giudizi civili o amministrativi, fa salva la disposizione dell’art. 653.

L'Amministrazione, quindi, nell'esercizio del proprio potere disciplinare, può e deve utilizzare gli indizi di colpevolezza raccolti al fine di esercitare in giudizio l'azione penale, sicché non sussiste, né è ragionevolmente esigibile, l’obbligo di svolgere una particolare e diversa attività istruttoria al fine di acquisire ulteriori mezzi di prova, dovendo i profili di condanna essere oggetto di una diversa valutazione soltanto in merito alla loro rilevanza sotto il profilo disciplinare (cfr. Cons. Stato, IV, 5 novembre 2019, n. 6259;
Cons. Stato, IV, 2 novembre 2017, n. 5053).

Ai fini disciplinari, dunque, ai sensi degli artt. 445, comma 1 bis, e 653, comma 1 bis, c.p.p., l'Amministrazione è vincolata all'accertamento del fatto, alla sua qualificazione come illecito penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso, contenuti nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti. Peraltro, l'organo competente deve compiere, sulle univoche risultanze fattuali emerse in sede penale, un autonomo apprezzamento circa la gravità della condotta tenuta dall'inquisito e la sua rilevanza ai fini disciplinari. (Cons. Stato Sez. IV, 2 aprile 2020, n. 2218;
Sez. IV, 5 novembre 2018, n. 6259)

Applicando tali consolidate coordinate giurisprudenziali, si deve ritenere che, nel caso di specie, il richiamo alla sentenza di patteggiamento pronunciata a carico dell’appellante fosse idoneo a considerare accertati i fatti contestati nel giudizio penale.

Né si può ritenere che tali fatti non siano stati oggetto di una specifica valutazione nel corso del procedimento disciplinare.

L’Amministrazione, oltre ad utilizzare le risultanze istruttorie della sede penale quali elementi fattuali idonei a supportare il giudizio disciplinare, ha, infatti, dato rilievo ai fatti contestati anche sotto il profilo disciplinare, valutandoli in tale diversa prospettiva, ritenendo sussistenti la violazione del giuramento e dei doveri di moralità e rettitudine che dovrebbero accompagnare costantemente i comportamenti degli appartenenti all’Arma dei Carabinieri.

Sotto tale profilo, si deve tenere presente che l’incolpato ha avuto pienamente modo nel corso del procedimento disciplinare di esporre i motivi della sua condotta, che non sono stati ritenuti idonei ad evitare un giudizio negativo del comportamento tenuto, che è stato valutato gravemente in contrasto con i particolari doveri di lealtà e assoluta correttezza che si richiedono ai militari dell’Arma dei Carabinieri.

La condotta, anche se motivata da specifiche esigenze di cura di un familiare, è stata, dunque, ritenuta incompatibile con lo status di militare dell’Arma, in quanto tale da recidere integralmente il necessario affidamento che l'Amministrazione militare deve in ogni momento poter nutrire circa la persona, la moralità e la professionalità dei propri membri.

La valutazione è stata, quindi, compiutamente svolta dall'Amministrazione che ha giudicato, in modo non irragionevole, come le condotte dell'incolpato siano state contrarie ai principi che devono improntare l'agire di un militare, ai doveri attinenti al giuramento prestato e a quelli di correttezza ed esemplarità propri di un appartenente all'Arma dei Carabinieri, il cui prestigio è stato gravemente compromesso (cfr. in tal senso Cons. Stato Sez. IV, 16 marzo 2020, n. 1864;
id. 23 marzo 2020, n. 2017).

Del pari, in modo non irragionevole l’Amministrazione (con deduzione confermata dal primo Giudice) ha ritenuto di non ritenere dirimenti ai fini del giudizio disciplinare le circostanze addotte a propria difesa dall’appellante (in particolare: circostanze familiari, avvenuta restituzione delle somme, favorevoli precedenti di servizio).

Si deve, infatti, tenere presente che si tratta di valutazioni connotate da ampia discrezionalità, anche quelle in ordine alla rilevanza del comportamento ai fini della irrogazione della più grave sanzione della rimozione (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 2 novembre 2012, n. 5582, Sez. IV, 27 luglio 2020, n. 4761), per cui la valutazione in ordine alla gravità dei fatti addebitati in relazione all'applicazione di una sanzione disciplinare costituisce espressione di discrezionalità amministrativa, non sindacabile in via generale dal giudice della legittimità salvo che in ipotesi di manifesta illogicità e irragionevolezza, evidente sproporzionalità e travisamento dei fatti (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 ottobre 2019, n. 7335;
id., sez. IV, 22 marzo 2017, n. 1302;
id. sez. III, 31 maggio 2019, n. 3652)

Anche la Sezione di recente ha ribadito che spetta “ all'Amministrazione, in sede di formazione del provvedimento sanzionatorio, stabilire il rapporto tra l'infrazione e il fatto, il quale assume rilevanza disciplinare in base ad un apprezzamento di larga discrezionalità, disponendo, essa, di un ampio potere discrezionale nell'apprezzare autonomamente le varie ipotesi disciplinari, con una valutazione insindacabile nel merito da parte del giudice amministrativo ” (Cons. Stato, Sez. II, 8 ottobre 2020, n. 5969, id. 15 maggio 2020, n. 3112).

Pertanto, la valutazione circa il rilievo e la gravità dell'infrazione disciplinare commessa dal militare è rimessa alla discrezionalità dell'Amministrazione, la quale, attraverso la commissione di disciplina, esprime un giudizio non sindacabile nel merito, ma soltanto in sede di legittimità nelle ipotesi in cui risulti abnorme o illogico in rapporto alle risultanze dell'istruttoria (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 4 ottobre 2018, n. 5700, Sez. II, 15 maggio 2020, n. 3112, cit).

Rispetto alla gravità del comportamento sotto il profilo disciplinare, in un ambito connotato da una ampia discrezionalità dell’Amministrazione, non può, dunque, rilevare la sentenza della Corte costituzionale n. 286 del 18 luglio 2008, che riguarda espressamente la fattispecie penale e soprattutto il rapporto tra ordinamento militare e diritto penale comune.

La sentenza ha infatti affermato la illegittimità costituzionale della previsione del codice penale militare che, diversamente dalla fattispecie dell’art. 314 comma 2 c.p., non prevedeva una fattispecie sanzionatoria di minore gravità per il peculato d’uso, ritenendo non sussistenti “ peculiarità relative alle specifiche esigenze dell'amministrazione militare, in grado di giustificare un maggior rigore nel trattamento sanzionatorio del peculato d'uso commesso in ambito militare rispetto all'analoga condotta commessa in altri rami della pubblica amministrazione. Pertanto, le norme censurate, nel comminare un'unica sanzione penale per tutte le forme di peculato, senza attribuire un autonomo rilievo alla fattispecie del peculato d'uso, che anche in ambito militare presenta, rispetto al peculato vero e proprio, un grado di offensività sensibilmente minore, devono considerarsi entrambe lesive del principio di uguaglianza, di cui all'art. 3 della Costituzione ”.

La condotta di peculato d’uso del militare, anche dopo l’intervento della sentenza della Corte costituzionale, rimane, comunque, punibile, ai sensi della fattispecie incriminatrice dell’art. 314 comma 2 c.p. ;
inoltre nel procedimento disciplinare il fatto oggetto della condanna penale è stato valutato autonomamente in relazione alla lesione dei valori a cui deve essere ispirata la condotta anche solo morale del militare dell’Arma e alla perdita di fiducia che deve assistere il rapporto tra Amministrazione di appartenenza e militari in servizio, elementi che prescindono dalla specificità della fattispecie incriminatrice.

Ad avviso del Collegio, è anche irrilevante rispetto alla presente vicenda la previsione dell’art. 75 della legge n. 599 del 1954, per cui “ il Ministro può discostarsi dal giudizio della Commissione di disciplina a favore del sottufficiale”, che la difesa appellante richiama a sostegno di un particolare obbligo di motivazione del provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare .

Si evidenziare che su tale disposizione è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza n. 62 del 5 marzo 2009, con cui è stato eliminato il potere del Ministro di discostarsi dal giudizio della Commissione anche a sfavore del militare.

In tale pronuncia la Corte ha individuato il momento determinante della decisione nel giudizio della Commissione, che “ non costituisce un parere obbligatorio ma non vincolante, bensì la fase conclusiva di un procedimento che, pur avendo natura amministrativa, deve essere rispettato dall'Amministrazione militare di appartenenza dell'incolpato (fatta salva la possibilità, riconosciuta, in virtù di un principio generale che attualmente impronta i processi disciplinari, dell'irrogazione, per motivi umanitari, di una sanzione più lieve) sia per non vanificare l'attività defensionale ivi dispiegata dall'incolpato, sia per non rendere inutile lo svolgimento della fase procedurale davanti alla Commissione di disciplina, con violazione del canone del buon andamento previsto dall'art. 97 della Costituzione.

Da tale configurazione del rapporto tra provvedimento finale e giudizio della Commissione affermata dalla Corte costituzionale deriva, ad avviso del Collegio, che il soggetto ( nel caso di specie il Dirigente generale), che adotta il provvedimento finale non debba dare una specifica motivazione nel caso in cui si conformi al giudizio della Commissione disciplina, dovendo, invece, motivare l’esercizio del potere di comminare una pena più lieve, solo in tal caso esercitando un autonomo potere, peraltro giustificato da “motivi umanitari”.

Poiché nel caso di specie il provvedimento finale è conforme al giudizio della Commissione, si deve ritenere sufficiente il richiamo contenuto in tale provvedimento al giudizio della Commissione, che, comunque, è stato espressamente fatto proprio e condiviso dall’autore del provvedimento finale con riferimento alla gravità dei fatti contestati “ altamente lesivi dell’immagine dell’Istituzione ”.

In conclusione l’appello è infondato e deve essere respinto.

In considerazione della particolarità della materia in questione e della costituzione solo formale dell’Avvocatura dello Stato, sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del presente grado di giudizio.

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