Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2017-11-29, n. 201705596

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2017-11-29, n. 201705596
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201705596
Data del deposito : 29 novembre 2017
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 29/11/2017

N. 05596/2017REG.PROV.COLL.

N. 00913/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale n. 913 del 2014, proposto dai signori G C, A S, G R, P S, L S, L S, F D, G G, A A, C C, G C, A C, L D B, M F, S G, A G, G G, E L, N M, M P, M R, V T, S B, D C, P C, A D M, G E, C L, S M, M M, R A M, M M, I P, E P L T, C P, B S, P T, R S, P B, G S, F S, R P, Antonio Carchio, Michele Sforza, Agnese Babini, Franco Minella, Gaetano Ambrosino, Roberto Bacchiarri, Francesco Cattedra, tutti rappresentati e difesi dall'avvocato Giulio Murano, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Angelo Brofferio, 7;

contro

Ministero della difesa, in persona del Ministro p.t., rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sezione I- bis, n. 9062 del 21 ottobre 2013, resa tra le parti, concernente il trasferimento degli alloggi di servizio militari al patrimonio disponibile;
i criteri di rideterminazione dei canoni di occupazione sine titulo dei predetti alloggi;
le singole note di rideterminazione dei canoni, adeguati al valore di mercato.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 26 ottobre 2017 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti l’avvocato G. Murano e l’Avvocato dello Stato Bacosi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. La presente controversia riguarda l’impugnazione della sentenza del T.a.r. per il Lazio, sede di Roma, Sezione I -bis , n. 9062 del 21 ottobre 2013, che ha pronunciato su un ricorso principale, su due ricorsi per motivi aggiunti e su un’istanza incidentale di accesso agli atti proposti, nell’ambito del giudizio n. 5147/2011, in materia di trasferimento degli alloggi di servizio militari al patrimonio disponibile;
di determinazione dei criteri per l’adeguamento, al valore di mercato, del canone di occupazione sine titulo dei predetti alloggi;
e di adozione dei singoli atti di rideterminazione del predetto canone di occupazione.

In particolare:

1.1. con ricorso principale (notificato il 25.5.2011 e depositato il 15.6.2011) i signori G C, A S, G R, P S, F S, E F, L S, L S, L C, F D, A R, G G, A A e C C hanno impugnato il decreto direttoriale della Direzione generale dei lavori e del demanio n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 70 del 26.3.2011, con cui si disponeva, ai sensi dell’art. 2, comma 628 della legge n. 244/2007, il trasferimento al patrimonio disponibile dello Stato di un compendio di alloggi successivamente da alienare;

1.2. con il primo atto di motivi aggiunti (notificato il 30.6.2011 e depositato il 15.7.2011) i ricorrenti hanno impugnato, altresì, il decreto del Ministero della difesa del 16 marzo 2011, pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 122 del 17 maggio 2011, recante i criteri per la rideterminazione del canone degli alloggi di servizio militari occupati da utenti senza titolo;

1.3. successivamente hanno spiegato intervento ad adiuvandum , insistendo per l’accoglimento del ricorso principale e di quello per motivi aggiunti, i signori: Pellone Pier Paolo e Parisi Roberto (con atto notificato il 28.11.2011 e depositato in pari data);
Maci Amedeo (con atto notificato il 24.11.2011 e depositato il 28.11.2011);
Cavotta Armando (con atto notificato il 18.11.2011 e depositato il 28.11.2011);
Bonsignore Filippo, Bettinelli Paolo, Bagordo Giuseppe, Saieva Giorgio e Saurini Franco (con atto notificato il 23.11.2011 e depositato il 28.11.2011);
Casale Gaetano, Chessa Giuseppe, Ciavarrella Antonio, Della Bruna Luigi, Ferrara Mario, G Salvatore, Gizzi Attilio, Gomato Giorgio, Lorenzetti Erasmo, Magistro Nicola, Pangaro Maurizio, Petrassi Francesca, Romito Marino, Stefanelli Vittorio, Tvaglini Vincenzo, Tritella Enrico, Valzano Maurizio, Bacchiarri Roberto, Bravo Stefano, Caramanica Antonio, Carchio Antonio, Cattedra Francesco, Chimenti Domenico, Colasanti Pietro, De Martino Anna, Epifani Giorgio, Ferrara Leonardo, Licchelli Cesare, Malgieri Salvatore, Manca Mario, Marasco Romualdo Antonio, Menchinelli Mauro, Papi Italo, Perna La Torre Elio, Pullo Claudio, Salzano Giuseppe, Schipani Bruno, Screpanti Massimo, Sforza Michele, Suriano Benito, Tirozzi Enrico, Tomasetti Paolo, Verdone Raimondo, Zaniboni Andrea (con atto notificato il 15.11.2011 e depositato il 28.11.2011);
D’Ettore Bruno, Grigolini Catia, Sacchetti Roberto e Babini Agnese (con atto notificato il 2.12.2011 e depositato il 22.12.2011), Fontana Giuliano, Di Mauro Massimo e Lanzilli Carlo (con atto notificato il 7.12.2011 e depositato il 10.12.2011), Zito Ferdinando e Biccari Eligio (con atto notificato il 15.12.2011 e depositato il 16.12.2011), Legniti Nicola, Ferrara Anacleto, Minella Franco e Prisco Americo (con atto notificato il 24.1.2012 e depositato il 15.2.2012), Morana Maria, Ambrosino Gaetano e Castellari Claudio (con atto notificato il 24.4.2012 e depositato il 5.5.2012), Perna Angelo e Laveneziana Marcello (con atto notificato il 12.5.2012 e depositato il 14.5.2012), D’Addone Giuseppina (con atto notificato il 18.5.2012 e depositato il 22.5.2012) e Lamusta Antonio (con atto notificato il 6.11.2012 e depositato il 22.11.2012);

1.4. con il secondo e ultimo atto di motivi aggiunti (notificato il 16.11.2011 e depositato il 30.11.2011) i ricorrenti e gli intervenuti hanno impugnato i singoli atti di rideterminazione del canone degli alloggi di servizio da loro occupati sine titulo ;

1.4. con ricorso ai sensi dell’art. 116, comma 2, c.p.a. gli istanti hanno domandato l’accesso ai documenti amministrativi posti a fondamento dell’adozione dell’impugnato decreto direttoriale della Direzione generale dei lavori e del demanio n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010, detenuti dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica e dallo Stato Maggiore dell’Esercito, nonché domanda di annullamento del diniego di accesso espresso dallo Stato Maggiore dell’Esercito e del silenzio rigetto serbato dallo Stato Maggiore dell’Aeronautica.

2. Il T.a.r., con la sentenza di cui in epigrafe:

a) ha dichiarato l’inammissibilità degli interventi spiegati ad adiuvandum , con conseguente estromissione dal giudizio dei soggetti intervenuti, per due autonome ragioni:

a1) l’essere, i medesimi, titolari di situazioni giuridiche autonome che li avrebbero legittimati ad impugnare direttamente e personalmente i provvedimenti impugnati;

a2) l’essere, gli atti di intervento (almeno per ciò che concerne l’azione di annullamento del decreto direttoriale n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010), anche palesemente tardivi rispetto alla pubblicazione dello stesso nella Gazzetta Ufficiale del 26 marzo 2011;

b) ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso principale per difetto di legittimazione ad agire in capo ai ricorrenti, sotto il triplice profilo che i ricorrenti sono occupanti abusivi, che invocano norme abrogate dal codice dell’ordinamento militare con decorrenza 9 ottobre 2010, e che le disposizioni in base alle quali è stato emanato il decreto direttoriale 22 novembre 2010 non si riferiscono agli occupanti abusivi di alloggi militari;
in particolare il T.a.r. ha evidenziato che:

b1) il decreto direttoriale 22 novembre 2010 (concernente il trasferimento al patrimonio disponibile degli alloggi di servizio militari da alienare ai sensi dell’art. 2, comma 628 della legge n. 244/2007), è stato adottato in applicazione dell’art. 306, comma 3 del d.lvo 15 marzo 2010, n. 66 (recante il codice dell’ordinamento militare), nel testo in vigore dal 9 ottobre 2010 al 26 marzo 2012 (ossia prima delle modifiche introdotte dal d.lvo 24 febbraio 2012, n. 20), sicché nessuna rilevanza avrebbe potuto accordarsi, secondo quanto previsto dall’art. 2, comma 631, della legge n. 244/2007, a eventuali procedure di alienazione aventi ad oggetto gli immobili adibiti ad alloggio di servizio dei militari, ivi comprese quelle previste nel programma pluriennale del 1 dicembre 2008 e nei provvedimenti per la vendita manifestati nel D.M. 28 gennaio 2010 e nel D.M. 23 giugno 2010 (concernenti il piano annuale di gestione del patrimonio abitativo del Ministero della difesa, rispettivamente per il 2008 e per il 2009, adottati ai sensi dell’art. 9, comma 7, della legge n. 537/1993, ora art. 306, comma 2 del d.lvo n. 66/2010), e inidonei – in quanto strumenti di pianificazione – ad assurgere a provvedimenti diretti a orientare e a condizionare le possibili procedure di alienazione, con conseguente impossibilità di riconoscere ai soggetti istanti una loro legittima aspettativa di acquisto;

b2) la disciplina normativa poi abrogata (comma 11 – quater, art. 26, d.l. n. 269/2003), ha da sempre escluso il riconoscimento del diritto di prelazione a favore degli occupanti sine titulo degli alloggi di servizio;

c) ha respinto il ricorso per l’accesso agli atti amministrativi, posti a fondamento dell’adozione del menzionato decreto direttoriale n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010, in conseguenza della declaratoria di inammissibilità del ricorso principale avverso il detto decreto e, quindi, per difetto del necessario nesso di strumentalità rispetto alla tutela in giudizio di situazioni giuridiche soggettive;

d) accantonato l’esame delle eccezioni di rito, ha respinto, nel merito, il primo atto di motivi aggiunti per due autonome ragioni:

d1) la prima, perché l’impugnato decreto del Ministero della difesa del 16 marzo 2011 (pubblicato in Gazzetta Ufficiale n. 122 del 17 maggio 2011, recante i criteri per la rideterminazione del canone degli alloggi di servizio militari occupati da utenti senza titolo), è stato adottato in pedissequa esecuzione dell’art. 6, comma 21- quater del d.l. 31 maggio 2010, n. 78, il quale esclude qualsivoglia legittima aspettativa di acquisto degli immobili in capo agli occupanti sine titulo e impone all’amministrazione erariale, fermo restando per l’occupante l’obbligo di rilascio, la rideterminazione del canone di occupazione abusiva sulla base dei prezzi di mercato, d’intesa con l’Agenzia del Demanio e sentito il Consiglio centrale della rappresentanza militare;

d2) la seconda, perché non è ravvisabile alcun eccesso o sviamento di potere da parte dell’amministrazione nell’imporre canoni di occupazione a prezzi di mercato, attesa, per un verso, la non illogicità del criterio di rideterminazione in mancanza dell’interesse pubblico generale di soddisfare esigenze di servizio;
e, per altro verso, l’immanenza dell’obbligo di rilascio degli immobili in capo agli occupanti sine titulo ;

e) ha respinto, ancora nel merito, il secondo atto di motivi aggiunti limitatamente all’impugnazione degli atti di rideterminazione definitiva del canone di occupazione per gli utenti degli alloggi dell’Aeronautica militare, per le medesime ragioni poste a sostegno del rigetto del ricorso recante i primi motivi aggiunti;

f) ha accolto, invece, il secondo atto di motivi aggiunti nella parte in cui sono stati impugnati gli atti di rideterminazione provvisoria dei canoni di occupazione degli alloggi dell’Esercito, limitatamente alla prima censura concernente la violazione dell’art. 3 del D.M. 16 marzo 2011, il quale prevede espressamente l’adozione di provvedimenti definitivi e non già provvisori di rideterminazione dei canoni (tale capo non è stato impugnato dall’Amministrazione);
non è stata accolta, invece, la seconda censura (concernente la violazione dell’art. 6, comma 21 - quater della legge n. 122/2010), nella parte in cui, ai sensi dell’art. 2, comma 1 del D.M. del 2011, si contesta che si possa tener conto del reddito complessivo dell’occupante durante il periodo di occupazione senza titolo, poiché la durata dell’occupazione sine titulo è posta dalla stessa norma di legge come criterio generale da seguire in sede di regolamentazione specifica;

g) ha annullato, per l’effetto, i soli provvedimenti di rideterminazione provvisoria del canone di occupazione degli alloggi dell’Esercito, con salvezza degli ulteriori provvedimenti adottati dall’amministrazione;

h) ha compensato integralmente tra le parti le spese di lite.

3. Con l’odierno gravame gli appellanti hanno dedotto, per quanto di rispettivo interesse, le seguenti censure avverso la sentenza in epigrafe indicata:

3.1. erronea declaratoria di inammissibilità degli interventi ad adiuvandum spiegati sia da coloro che, unitamente agli originari ricorrenti, hanno proposto il secondo atto di motivi aggiunti avverso i singoli atti di rideterminazione del canone degli alloggi, sia da coloro che, autonomamente rispetto agli originari ricorrenti, hanno impugnato i detti atti rideterminativi. Si assume la tempestività degli interventi proposti (se non nei confronti del decreto direttoriale del 23 novembre 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 marzo 2011), quantomeno con riferimento alle singole note di rideterminazione del canone, con conseguente conversione dell’atto di intervento in autonomo ricorso sussistendone tutti i requisiti di forma e di sostanza, ivi compresa la ritualità della notificazione a tutte le parti del giudizio;

3.2. erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso principale per tre ordini di motivi:

a) la contraddittorietà tra l’odierna pronuncia (di rito) con quella di infondatezza (nel merito) assunta con la sentenza n. 6649/2012 a definizione del ricorso n. 11773/2008, pronunciata dal medesimo T.a.r. in altro e separato giudizio ma con stesso petitum (l’impugnazione del decreto direttoriale n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010). Nell’occasione il T.a.r., nonostante il rigetto del ricorso nel merito, avrebbe comunque risolto in senso opposto e affermativo la questione della sussistenza della legittimazione ad agire dei ricorrenti;

b) la contraddittorietà tra l’odierna declaratoria di inammissibilità e altre precedenti pronunce del medesimo T.a.r. Lazio, Sezione I bis (sentenze n. 2858/2008 e n. 2859/2008) che avrebbero riconosciuto la sussistenza di una legittima aspettativa degli aspiranti all’acquisto, la quale “ si perfezionerà se e quando l’alloggio del quale sono attualmente assegnatari verrà inserito negli appositi elenchi dei beni alienabili (così anche Tar Lazio, I bis, n. 10218/2007);
ovvero se e quando, all’atto della pubblicazione degli stessi, dovesse emergere che gli immobili in questione ne fossero stati illegittimamente esclusi, con conseguente lesione della legittima aspettativa degli aspiranti all’acquisto
”;

c) l’esistenza di una posizione giuridica differenziata e legittimante all’impugnazione da parte dei ricorrenti a motivo della previsione contenuta nel programma pluriennale del 1 dicembre 2008 e nei provvedimenti per la vendita manifestatisi nel D.M. 28 gennaio 2010 e nel D.M. 23 giugno 2010 concernenti il piano annuale di gestione del patrimonio abitativo della Difesa rispettivamente per il 2008 e per il 2009, adottati ai sensi dell’art. 9, comma 7, della legge n. 537 del 1993 (ora art. 306, comma 2, del d.lvo n. 66/2010). Si sostiene, in sintesi, che la mancata pubblicazione degli estremi identificativi dei 3131 immobili (già, dunque, quantitativamente individuati) quali alienabili alla data del programma pluriennale del 1 dicembre 2008 e riportati ricettiziamente nel D.M. 28 gennaio 2010, non rileverebbe al fine di escludere una legittima aspettativa all’acquisto, ma anzi imporrebbe all’amministrazione l’obbligo di concludere il procedimento di alienazione ai sensi della legge n. 244/2007. In questo senso, sarebbero altresì illegittimi i richiamati decreti ministeriali del 28 gennaio 2010 e del 23 giugno 2010 nella parte in cui rinviano sine die la valutazione di funzionalità agli interessi istituzionali degli alloggi.

3.2.1. Riproposizione, in ipotesi di accoglimento del predetto motivo di appello e di riforma del capo di sentenza sul punto, delle censure già per l’innanzi esperite nel primo grado di giudizio, e segnatamente:

a) Violazione dell’art. 2, comma 628, lett. b) della legge 24 dicembre 2007, n. 244 – Violazione specifica dell’art. 1 della legge n. 241/1990: principi di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa (pagine da 15 a 21);

b) Violazione dell’art. 2, comma 628, lett. b) della legge 24 dicembre 2007, n. 244 – Eccesso di potere per sviamento – Tvisamento dei fatti e omessa attuazione di norme di legge – Illogicità e contraddittorietà (pagine da 21 a 26);

c) Violazione dell’art. 3 della legge n. 241/1990 – Difetto assoluto di motivazione – Eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà – Violazione dell’art. 306, comma 3 del D.lvo n. 66/2010 e dell’art. 403, comma 3 del d.p.r. n. 90/2010 – Difetto di istruttoria – Tvisamento dei fatti – Eccesso di potere per sviamento – Disparità di trattamento (pagine da 26 a 31).

3.3. Riproposizione delle censure di incostituzionalità dei motivi articolati sub 4 del ricorso introduttivo del giudizio.

3.4. Riproposizione della domanda giudiziale ex art. 116, comma 2, del c.p.a. al fine di far accertare il diritto di accesso agli atti amministrativi posti a fondamento dell’impugnato decreto direttoriale della Direzione generale dei lavori e del demanio.

3.5. Erronea declaratoria di infondatezza, nel merito, del primo atto di motivi aggiunti concernente la definizione dei criteri di rideterminazione del canone di occupazione e, per quanto di interesse, del secondo atto di motivi aggiunti nella parte in cui sono stati impugnati i singoli atti di rideterminazione del canone degli alloggi dell’Aeronautica Militare, per due ordini di ragioni:

a) irragionevolezza della rideterminazione dei canoni di occupazione alla stregua del valore di mercato a prescindere dal giudizio di alienabilità degli immobili;

b) sviamento di potere per avere l’amministrazione perseguito un interesse (la liberazione degli immobili occupati senza procedere al recupero forzoso secondo le procedure di legge) diverso da quello pubblico generale alla corretta gestione dei beni pubblici, tramite una misura sproporzionata (la rideterminazione dei canoni a prezzo di mercato) mirante soltanto a conseguire l’effetto a “forte impatto dissuasivo” di porre gli occupanti dinanzi alla scelta del (minore) tra i due mali della sopportazione del nuovo canone e della liberazione dell’immobile.

3.5.1. Non è invece stata espressamente riproposta, rispetto al (parziale) accoglimento del secondo atto di motivi aggiunti, la seconda censura concernente la violazione dell’art. 6, comma 21 - quater della legge n. 122/2010 nella parte in cui, ai sensi dell’art. 2, comma 1 del D.M. del 2011, è stato computato il periodo di occupazione senza titolo come indice della determinazione del reddito complessivo, sicché essa deve intendersi rinunciata.

3.6. Infine, gli appellanti si sono riservati – in attesa di acquisire il parere del Consiglio di Stato richiesto dallo stesso Tar del Lazio – ogni ulteriore deduzione in merito ai vizi procedimentali che potrebbero avere inficiato il giudizio di primo grado in conseguenza della qualificazione del ricorso (e dei successivi motivi aggiunti) secondo il rito abbreviato, senza la preventiva comunicazione alle parti costituite, ma con ogni conseguenza in ordine ai profili della decorrenza dei termini processuali e del pagamento del contributo unificato.

Come si evince dalla documentazione depositata in data 27 novembre 2014, in sintesi è denunciato che:

3.6.1. il Tar del Lazio ha provveduto a riclassificare il ricorso n. 5147/2011 sul sito internet della Giustizia amministrativa come attinente alla materia dei provvedimenti relativi alla procedure di dismissione dei beni pubblici (in ragione dell’impugnazione del decreto direttoriale di trasferimento degli alloggi di servizio al patrimonio disponibile) e l’ha assoggettato alla disciplina dello speciale rito abbreviato ai sensi dell’art. 119, comma 1, lett. c) del c.p.a., ritenendo di non condividere l’impostazione voluta dai ricorrenti secondo cui, invece, il ricorso afferirebbe alla materia del pubblico impiego o, al più, a quella previdenziale, in virtù del rapporto di servizio che lega (o legava) gli utenti di fatto degli alloggi all’Aeronautica o all’Esercito (cfr. docc. 17 e 18 depositati in data 27.11.2014);

3.6.2. la Commissione tributaria di Roma con la sentenza n. 133 del 25 febbraio 2013, pronunciata sul ricorso promosso dal sig. G M, avverso l’invito al pagamento del contributo unificato rideterminato dal T.a.r. per il Lazio in considerazione dell’applicazione dell’art. 119, comma 1, lett. c) del c.p.a., benché non abbia ritenuto la controversia esente dal pagamento del contributo, non ravvisando una controversia attinente al pubblico impiego, ha - comunque - ritenuto applicabile al ricorso il rito ordinario, rideterminando l’importo dovuto a titolo di contributo unificato;

3.6.3. ad oggi, nessun chiarimento sarebbe ancora pervenuto dai competenti organi della Giustizia amministrativa circa il profilo strettamente procedurale in dipendenza della (indebita) riclassificazione del ricorso ai sensi dell’art. 119, comma 1, lett. c) del c.p.a. (doc. 13 depositato il 27.11.2014).

4. Si è costituito il Ministero della difesa, con mera memoria di stile, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità, l’improcedibilità o l’infondatezza, nel merito, dell’avverso appello, vinte le spese di lite.

5. Con ordinanza cautelare n. 1649 del 2014 il Collegio ha accolto, in parte, la sospensiva, nel senso di estendere gli effetti del parziale accoglimento dei secondi motivi aggiunti, con riferimento alla rideterminazione dei canoni, anche nei confronti dei soggetti appartenenti all’Aeronautica militare, oltre che di quelli appartenenti all’Esercito, secondo quanto deciso dal primo giudice.

6. I signori S G e V T hanno depositato in data 23 luglio 2015 atto di rinuncia al giudizio di appello per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione.

7. Le parti hanno ulteriormente insistito nelle rispettive difese tramite il deposito di documenti e di memoria integrativa (i soli appellanti in data 25 settembre 2017).

8. All’udienza del 26 ottobre 2017 la causa è stata discussa e trattenuta dal Collegio in decisione, previa segnalazione ai difensori presenti (che nulla hanno osservato in proposito), ex art. 73, comma 3, c.p.a., della questione della possibile inammissibilità, ex art. 43, c.p.a., di tutti i motivi aggiunti articolati in primo grado.

9. Preliminarmente deve darsi atto dell’improcedibilità del giudizio, limitatamente alla posizione processuale dei signori S G e V T, i quali in data 23 luglio 2015 hanno manifestato la sopravenuta carenza di interesse alla decisione.

10. Ancora in via preliminare, va esaminata la questione concernente l’ammissibilità o meno degli interventi ad adiunvandum spiegati nel giudizio di primo grado.

10.1. Va premesso, per un migliore inquadramento giuridico della questione, che l’art. 28, commi 1 e 2, del codice del processo amministrativo disciplina l’intervento distinguendo quello del contraddittore necessario pretermesso e quello delle altre pari che via abbiano interesse (sia ad opponendum che ad adiuvandum rispetto al ricorso di primo grado).

Quest’ultimo tipo di intervento è consentito a chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall’esercizio delle relative azioni, e abbia interesse al giudizio.

Quanto alla identificazione del titolo legittimante l’intervento adesivo e, dunque, alla definizione dell’interesse che consente l’ingresso nel giudizio del terzo, la Sezione osserva, sulla scorta di consolidati orientamenti e precedenti specifici (cfr. Consiglio di Stato, Ad. plen., n. 23 del 2016;
n. 9 del 2015;
n. 1 del 2015;
n. 2 del 1996;
Sez. III, n. 442 del 2016;
Sez. V, n. 1640 del 2012;
Sez. V, n. 1445 del 2011;
Sez. IV, n. 8363 del 2010;
Sez. IV, n. 5244 del 2009), che:

a) l’indagine deve essere condotta in astratto, in base alla effettiva causa petendi quale si desume dal complesso delle affermazioni del soggetto che agisce in giudizio, e non già in concreto all’esito del giudizio;

b) due sono i requisiti che devono essere soddisfatti per la configurabilità dell’intervento adesivo dipendente:

I) il primo, di carattere negativo, si traduce nella alterità dell’interesse vantato dall’interventore rispetto a quello che legittimerebbe alla proposizione del ricorso in via principale;
l’intervento è volto, infatti, a tutelare un interesse diverso ma collegato a quello fatto valere dal ricorrente principale, con la conseguenza che la posizione dell’interessato è meramente accessoria e subordinata rispetto a quella della corrispondente parte principale;

II) il secondo requisito, di ordine positivo, esige che l’interventore sia in grado di ricevere un vantaggio, anche in via mediata e indiretta, dall’accoglimento del ricorso principale;

c) pertanto, è inammissibile l’intervento ad adiuvandum spiegato nel processo amministrativo da chi sia ex se legittimato a proporre direttamente il ricorso giurisdizionale in via principale, considerato che in tale ipotesi l’interveniente non fa valere un mero interesse di fatto, bensì un interesse personale all’impugnazione di provvedimenti immediatamente lesivi, che deve essere azionato mediante proposizione di ricorso principale nei prescritti termini decadenziali.

10.2. Nel caso di specie, dalla piana lettura del contenuto degli atti di intervento spiegati e delle relative conclusioni ivi rassegnate, si evince che gli intervenienti hanno insistito per l’accoglimento del ricorso principale e del primo atto di motivi aggiunti, riportandosi a tutte le censure ivi dedotte, al fine di ottenere l’annullamento del decreto direttoriale n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010 (in G.U. n. 70 del 26 marzo 2011) e del decreto ministeriale del 16 marzo 2011 (in G.U. n. 122 del 27 maggio 2011).

10.3. Gli interventi spiegati, pertanto, non soddisfano alcuno degli anzidetti requisiti, giacché difettano sia la posizione di alterità dell’interesse vantato dall’interventore rispetto a quello che legittimerebbe alla proposizione del ricorso in via principale, che la natura accessoria e subordinata del vantaggio che essi riceverebbero dall’accoglimento del ricorso principale: gli intervenienti, infatti, hanno inteso perseguire lo stesso effetto utile derivante dall’ipotetico accoglimento del ricorso principale e di quello per motivi aggiunti, ovvero la caducazione del decreto direttoriale e di quello ministeriale, effetto che essi avrebbero dovuto perseguire in via autonoma con ricorso principale. Ne deriva, pertanto, l’inammissibilità dell’intervento adesivo spiegato in primo grado da parte dei soggetti legittimati alla proposizione di un ricorso autonomo, in contrasto con la regola ermeneutica secondo cui l'intervento " ad adiuvandum " può essere proposto nel processo amministrativo solo da un soggetto titolare di una posizione giuridica collegata o dipendente da quella del ricorrente in via principale e non anche da soggetto che sia portatore di un interesse che lo abilita a proporre ricorso in via principale nel termine decadenziale.

10.4. Del tutto non pertinente, inoltre, si rivela il tentativo degli appellanti di invocare, a sostegno della tesi della legittimità degli interventi spiegati, l’applicazione del principio di conversione dell’intervento in autonomo ricorso, sussistendone i requisiti di forma e di sostanza, ivi compresa la rituale notificazione a tutte le parti nel giudizio.

10.5. Al riguardo va osservato che, in linea generale, non è in discussione il riconoscimento, anche nel sistema della giustizia amministrativa, del principio – tratto dalla teoria civilistica della conversione del negozio ai sensi dell’art. 1424 c.c. – della riqualificazione dell’intervento nella diversa fattispecie del ricorso autonomo, sussistendo tutti i requisiti di forma e di sostanza, ivi compresa la tempestiva notificazione a tutte le parti del giudizio. Il principio (cristallizzato oggi nell’art. 32, comma 2, u.p., c.p.a., per la sua declinazione ed i suoi limiti in generale, v. Cons. Stato, Ad. plen., n. 2 del 2013 e n. 7 del 2013), è stato formulato in ossequio alla teoria del raggiungimento dello scopo, per cui se un soggetto che, legittimato a proporre direttamente impugnazione, propone invece atto di intervento ad adiuvandum , tale atto, se notificato e depositato nei termini, può essere convertito (o più propriamente riqualificato) in atto di assunzione in proprio del ricorso al quale si era aderito, in applicazione del generale principio di conversione negoziale di cui all’art. 1424 cod. civ., applicabile anche agli atti processuali se sussistono tutti i requisiti di forma e di sostanza (Cons. Stato, Ad. plen. n. 10 del 2007;
Sez., III;
n. 6777 del 2011;
Sez. IV, 27 maggio 2002, n. 2928).

10.6. Il principio non è tuttavia applicabile nella fattispecie all’esame, a cagione della mancanza di due requisiti fondamentali:

a) il primo è il rispetto del termine decadenziale, il quale, nella specie, risulta abbondantemente superato: gli atti di intervento, infatti, per come meglio illustrato in epigrafe, sono stati portati alla notificazione e successivamente depositati, per la maggior parte, nei mesi di novembre e dicembre 2011 e in alcuni casi anche nei mesi di maggio e novembre 2012, e quindi certamente oltre i sessanta giorni dalla pubblicazione del decreto direttoriale (in G.U. n. 70 del 26 marzo 2011) e di quello ministeriale (in G.U. n. 122 del 27 maggio 2011), sicché ammettere un tale tipo di intervento si risolverebbe, per giunta, in una surrettizia elusione del termine decadenziale per l’impugnazione;

b) il secondo requisito, di ordine sostanziale, riguarda l’obbligo di indicazione specifica dei motivi sui quali esso si fonda. Nel caso di specie è stato operato un mero rinvio ai motivi dedotti nel ricorso principale e nel primo atto di motivi aggiunti (una sorta di rinvio per relationem ), sicché il ricorso risultante dall’anzidetta conversione, in disparte il già dirimente fatto ostativo della tardiva impugnazione, si rivelerebbe comunque inammissibile per difetto della specificazione dei vizi degli atti impugnati (Cons. Stato, Sez. III, n. 2280 del 2014).

10.6. Del tutto correttamente, pertanto, il primo giudice ha ritenuto l’inammissibilità degli interventi spiegati ed ha estromesso dal giudizio i soggetti intervenuti.

11. Va ora affrontata la questione concernente la declaratoria di inammissibilità del ricorso principale per difetto di legittimazione ad agire.

11.1. Sostengono gli appellanti:

a) la contraddittorietà tra l’odierna pronuncia (di rito) con quella di infondatezza (nel merito) assunta con la sentenza n. 6649/2012 a definizione del ricorso n. 11773/2008, pronunciata dal medesimo T.a.r. in altro e separato giudizio ma con stesso petitum (l’impugnazione del decreto direttoriale n. 14/2/5/2010 del 22 novembre 2010). Nell’occasione il T.a.r., nonostante il rigetto del ricorso nel merito, avrebbe comunque risolto in senso opposto e affermativo la questione della sussistenza della legittimazione ad agire dei ricorrenti;

b) la contraddittorietà tra l’odierna declaratoria di inammissibilità e altre precedenti pronunce del medesimo T.a.r. Lazio, Sezione I bis (sentenze n. 2858/2008 e n. 2859/2008) che avevano riconosciuto la sussistenza di una legittima aspettativa degli aspiranti all’acquisto, la quale “si perfezionerà se e quando l’alloggio del quale sono attualmente assegnatari verrà inserito negli appositi elenchi dei beni alienabili (così anche Tar Lazio, I bis, n. 10218/2007);
ovvero se e quando, all’atto della pubblicazione degli stessi, dovesse emergere che gli immobili in questione ne fossero stati illegittimamente esclusi, con conseguente lesione della legittima aspettativa degli aspiranti all’acquisto
”;

c) l’esistenza di una posizione giuridica differenziata e legittimante all’impugnazione da parte dei ricorrenti a motivo della previsione contenuta nel programma pluriennale del 1 dicembre 2008 e nei provvedimenti per la vendita manifestatisi nel D.M. 28 gennaio 2010 e nel D.M. 23 giugno 2010 concernenti il piano annuale di gestione del patrimonio abitativo della Difesa rispettivamente per il 2008 e per il 2009, adottati ai sensi dell’art. 9, comma 7, della legge n. 537 del 1993 (ora art. 306, comma 2, del D.lvo n. 66/2010). Si sostiene, in sintesi, che la mancata pubblicazione degli estremi identificativi dei 3131 immobili (già, dunque, quantitativamente individuati) quali alienabili alla data del programma pluriennale del 1 dicembre 2008 e riportati ricettiziamente nel D.M. 28 gennaio 2010 non rileverebbe al fine di escludere una legittima aspettativa all’acquisto, ma anzi imporrebbe all’amministrazione l’obbligo di concludere il procedimento di alienazione ai sensi della legge n. 244/2007. In questo senso, sarebbero altresì illegittimi i richiamati decreti ministeriali del 28 gennaio 2010 e del 23 giugno 2010 nella parte in cui rinviano sine die la valutazione di funzionalità agli interessi istituzionali degli alloggi.

11.2. I motivi sub a) e b) possono essere trattati congiuntamente sottintendendo la medesima argomentazione logica, ossia che il Tar, adito con altri e autonomi ricorsi, si sia astretto in una sorta di autovincolo motivatorio.

11.2.1. L’assunto non merita condivisione alcuna. Tutti i precedenti citati, infatti, non rivestono alcuna rilevanza nel presente giudizio, rispetto al quale non hanno efficacia di giudicato, sicché si rivelano del tutto inidonei a rappresentare un vincolo per il giudice a quo .

11.3. Rispetto alla diversa questione sub c) (l’esistenza di una posizione giuridica differenziata e legittimante all’impugnazione da parte dei ricorrenti avverso il decreto direttoriale con cui si è disposto il trasferimento degli alloggi al patrimonio disponibile), va preliminarmente osservato che gli appellanti si sono limitati a riproporre l’identico vizio – motivo articolato nel primo grado senza censurare, nello specifico, il ragionamento logico giuridico seguito dal giudice di prime cure.

Tanto rende il mezzo di gravame inammissibile ai sensi dell’art. 101, comma 1, c.p.a.

11.3.1. In ogni caso, pur volendo prescindere da questo dirimente rilievo, la contestazione è infondata nel merito.

Invero, come correttamente ritenuto dal giudice di prime cure, con ragionamento esente da vizi logico-giuridici e che questo Collegio condivide appieno, è da escludere alla radice la possibilità di ravvisare un autonomo titolo di legittimazione sulla base delle previsioni contenute nel programma pluriennale del 1 dicembre 2008 e nei provvedimenti per la vendita manifestatisi nel D.M. 28 gennaio 2010 e nel D.M. 23 giugno 2010 concernenti il piano annuale di gestione del patrimonio abitativo della Difesa rispettivamente per il 2008 e per il 2009, adottati ai sensi dell’art. 9, comma 7, della legge n. 537 del 1993 (ora art. 306, comma 2, del d.lvo n. 66/2010).

Il decreto direttoriale impugnato è stato adottato in applicazione dell’art. 306, comma 3 del d.lvo 15 marzo 2010, n. 66 nel testo in vigore antecedentemente alle modifiche apportate dal d.lvo 24 febbraio 2012, n. 20).

La disposizione riproduce sostanzialmente il contenuto del vecchio art. 2, comma 628, lett. b) della legge n. 244 del 2007, abrogato dall’articolo 2268, comma 1, del d.lvo n. 66/2010.

È prevista la predisposizione, da parte del Ministero della difesa, di un programma pluriennale per la costruzione, l’acquisto e la ristrutturazione degli alloggi di servizio militari, con criteri di semplificazione, di razionalizzazione e di contenimento della spesa pubblica.

Ai fini della realizzazione del programma il Ministero della difesa:

a) procede all'individuazione di tre categorie di alloggi di servizio:

1) alloggi da assegnare al personale per il periodo di tempo in cui svolge particolari incarichi di servizio richiedenti la costante presenza del titolare nella sede di servizio;

2) alloggi da assegnare per una durata determinata e rinnovabile in ragione delle esigenze di mobilità e abitative;

3) alloggi da assegnare con possibilità di opzione di acquisto mediante riscatto;

b) provvede all'alienazione della proprietà, dell'usufrutto o della nuda proprietà di alloggi non più funzionali alle esigenze istituzionali, in numero non inferiore a tremila, compresi in interi stabili da alienare in blocco, con diritto di prelazione per il conduttore e, in caso di mancato esercizio da parte dello stesso, per il personale militare e civile del Ministero della difesa non proprietario di altra abitazione nella provincia, con prezzo di vendita determinato d'intesa con l'Agenzia del demanio, ridotto nella misura massima del 25 per cento e minima del 10 per cento, tenendo conto del reddito del nucleo familiare, della presenza di portatori di handicap tra i componenti di tale nucleo e dell'eventuale avvenuta perdita del titolo alla concessione e assicurando la permanenza negli alloggi dei conduttori delle unità immobiliari e delle vedove, con basso reddito familiare, non superiore a quello determinato annualmente con il decreto ministeriale di cui all'articolo 9, comma 7, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, ovvero con componenti familiari portatori di handicap, dietro corresponsione del canone in vigore all'atto della vendita, aggiornato in base agli indici ISTAT. Gli acquirenti degli alloggi non possono rivenderli prima della scadenza del quinto anno dalla data di acquisto. I proventi derivanti dalle alienazioni sono versati all'entrata del bilancio dello Stato per essere riassegnati in apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della difesa.

La norma non riconosce, quindi, alcun diritto di prelazione all’acquisto in favore degli occupanti sine titulo degli alloggi, ma soltanto in favore dei legittimi conduttori aventi titolo in ragione delle esigenze di servizio o di mobilità connesse all’attività lavorativa. È infatti specificato, alla lettera b) sopra richiamata, che solo in ipotesi di mancato esercizio, da parte dei conduttori degli alloggi, del diritto di prelazione, è possibile per il personale militare e civile del Ministero della difesa, non proprietario di altra abitazione nella provincia, acquistare gli immobili ad un prezzo di vendita determinato d’intesa con l’Agenzia del demanio, ridotto nella misura massima del 25 per cento e minima del 10 per cento, tenendo conto di vari elementi, tra cui, l’eventuale perdita del titolo alla concessione. Pertanto, il venire meno del titolo concessorio rappresenta non un elemento di collegamento diretto al fine del riconoscimento di una legittima aspettativa di acquisto, ma solo uno dei criteri guida nella vendita del patrimonio immobiliare non più utile alle esigenze dell’amministrazione militare, unitamente a diversi altri (segnatamente: il reddito del nucleo familiare, la presenza di portatori di handicap nel nucleo familiare, la permanenza negli alloggi di chi sia già conduttore dello stesso, la permanenza delle vedove) e, soprattutto, solo a seguito del mancato esercizio del diritto di prelazione riconosciuto ai legittimi conduttori.

Né tale diritto può dirsi riconosciuto dal vecchio articolo 9, comma 7, della legge 24 dicembre 1993, n. 537 (norma, comunque, anch’essa abrogata dall’art. 2268, comma 1, del d.lvo 15 marzo 2010, n. 66), giacché esso si limita a prevedere la predisposizione, con decreto ministeriale, di un piano annuale di gestione del patrimonio abitativo della Difesa, con l’indicazione dell’entità, dell’utilizzo e della futura destinazione degli alloggi di servizio, nonché degli alloggi non più ritenuti utili nel quadro delle esigenze dell'Amministrazione, e quindi transitabili in regime di locazione ovvero alienabili, anche mediante riscatto. Il piano indica, altresì, i parametri di reddito sulla base dei quali gli attuali utenti degli alloggi di servizio, ancorché si tratti di personale in quiescenza o di vedove non legalmente separate né divorziate, possono mantenerne la conduzione, purché non siano proprietari di altro alloggio di certificata abitabilità. Si tratta, pertanto, anche in questo caso, di una mera possibilità, per l’amministrazione, di tenere in considerazione le esigenze degli utenti attuali degli alloggi, ma non già dell’espresso riconoscimento, in loro favore, né di un diritto legalmente tipizzato di prelazione all’acquisto, né di un interesse legittimo di natura pretensiva da farsi valere avanti i competenti organi della giustizia amministrativa. Il Legislatore stesso, del resto, ha manifestato in più occasioni di non ignorare le esigenze abitative degli occupanti degli immobili, anche prevedendo in via transitoria la sospensione delle azioni di recupero forzoso (ad esempio, con l’art. 2, comma 630, della legge n. 244/2007, anch’esso abrogato dall’articolo 2268, comma 1, del d.lvo 15 marzo 2010, n. 66), con ciò non dubitandosi che trattasi di misura temporanea e transitoria, e non già del riconoscimento della rinuncia ad agire per il recupero dei beni. Sicché proprio non si vede la ragione per la quale, al contrario, la semplice considerazione delle esigenze degli attuali utenti degli alloggi, solo quindi occasionalmente protetta, possa invece essere stata interpretata come riconoscimento, addirittura, di un diritto di prelazione all’acquisto.

A tanto consegue la correttezza, altresì, del pronunciamento del giudice di prime cure sull’istanza di accesso agli atti amministrativi posti a fondamento dell’adozione del predetto decreto direttoriale, giacché, in mancanza di un nesso di collegamento strumentale rispetto alla tutela in giudizio delle proprie situazioni giuridiche, l’ostensione si rivelerebbe un indebito strumento di controllo generalizzato sull’operato dell’amministrazione.

12. Quanto alla (asserita) erronea declaratoria di infondatezza, nel merito, del primo atto di motivi aggiunti, gli appellanti ripropongono gli stessi argomenti già dedotti nel primo grado di giudizio, senza dedurre specifiche censure avverso il ragionamento logico-giuridico seguito dal primo giudice. A tanto consegue l’inammissibilità della mera riproposizione del motivo per violazione dell’art. 101, comma 1, c.p.a.

12. In ogni caso, anche a prescindere dalla questione dell’ammissibilità del motivo, sono assorbenti nel merito le seguenti considerazioni: per un verso, non è dato ravvisare da parte di questo Collegio alcuna irragionevolezza o illogicità nella scelta di ancorare la rideterminazione dei canoni di occupazione alla stregua del valore di mercato del bene, giacché trattasi di parametro certo e oggettivamente riscontrabile, oltre che coerente con l’idea, di fondo, della razionalizzazione della spesa pubblica e dell’ottimale utilizzo dei beni pubblici;
per altro verso, invece, va decisamente escluso che la suddetta scelta possa essere la risultante dello sviamento del potere per avere, in tesi, l’amministrazione, perseguito un interesse (la liberazione degli immobili occupati senza procedere al recupero forzoso secondo le procedure di legge) diverso da quello pubblico generale alla corretta gestione dei beni pubblici. L’allusione, infatti, alla circostanza che la rideterminazione dei canoni a prezzo di mercato abbia, di fatto, mirato soltanto a far conseguire all’amministrazione l’alleggerimento dall’onere di dovere procedere al recupero forzoso degli immobili, è del tutto destituita di fondamento.

La mera circostanza, fattuale e priva di alcun rilievo giuridico, per la quale gli utenti decidano, eventualmente, di liberare gli immobili, dipende infatti da una loro libera scelta, legata alla valutazione della minore appetibilità di mantenere la disponibilità di un bene che presenta, oramai, un canone per l’utilizzo parificato al valore di mercato, anziché da un atto di costrizione. Del resto, nessun sviamento di potere si registra rispetto al perseguimento, anzi, dell’interesse pubblico generale alla corretta gestione (e valorizzazione) delle risorse pubbliche, essendo gli alloggi militari deputati, strumentalmente, a soddisfare le esigenze di servizio o di mobilità, e le non esigenze abitative e personali degli occupanti sine titulo .

Tanto è vero che il legislatore non ha previsto il pagamento del canone in via alternativa alla procedibilità delle azioni di recupero forzoso, sussistendo pur sempre l’obbligo di rilascio, qualora intimato, con ciò escludendosi alla radice la fondatezza dell’accusa di avere posto gli occupanti dinanzi alla scelta del (minore) tra i due mali della sopportazione del nuovo canone, ovvero della liberazione dell’immobile.

13. L’ultima questione da affrontare concerne la proposizione del secondo atto di motivi aggiunti, concernente l’impugnazione dei singoli atti di rideterminazione del canone di occupazione da parte degli originari ricorrenti e dei soggetti successivamente intervenuti.

Il Collegio ritiene che, pur non essendo stata affrontata dalla sentenza la questione della ammissibilità di tale ricorso (avendo espressamente accantonato le eccezioni di rito sollevate dalla difesa erariale), non ne sia inibita la valutazione, ex officio e per la prima volta in sede di appello, trattandosi di una questione pregiudiziale di rito diversa da quelle concernenti la giurisdizione e la competenza (arg. ex artt. 9 e 15 c.p.a.) ed essendo stato rispettato il contraddittorio (cfr. da ultimo, nell’ambito di una consolidata giurisprudenza, Cons. Stato, Sez. III, n. 5138 del 2017).

13.1. Al fine di un migliore inquadramento giuridico della questione, il Collegio ritiene opportuna una breve ricostruzione dell’istituto dei motivi aggiunti e delle ragioni di connessione che devono sussistere tra questi e il ricorso introduttivo del giudizio.

La disciplina generale dei motivi aggiunti è oggi racchiusa nell’art. 43 del c.p.a. che ha cristallizzato i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa, in base alla normativa anteriormente vigente, in relazione ad un istituto proprio dei giudizi impugnatori (al fine di dedurre nuovi motivi contro atti già impugnati, cd. motivi aggiunti propri, ovvero per impugnare atti connessi con quelli già impugnati cd. motivi aggiunti impropri).

Attualmente i motivi aggiunti ricevono nel c.p.a. una disciplina che ne estende la portata anche ai giudizi non impugnatori.

Ragioni di economia processuale e di concentrazione delle tutele consentono, pertanto - in deroga al paradigma legale del ricorso amministrativo secondo cui esso deve essere diretto contro un solo provvedimento e proposto da un solo soggetto ricorrente (cfr. negli esatti termini Cons. Stato, Ad. plen., n. 5 del 2015) - di dedurre plurime domande anche avverso atti diversi. Ciò, tuttavia, in base al tenore testuale della norma, alla condizione che tra i detti atti sussista un vincolo di connessione (procedimentale o funzionale) tale da giustificare un unico processo o, in ipotesi di ricorsi separati, la riunione degli stessi da parte del giudice (Cons. Stato, Sez. IV, 4277 del 2014).

È stato correttamente osservato che “ A differenza che nel processo civile, in cui il cumulo delle domande può essere giustificato tanto da una connessione oggettiva, quanto da una connessione soggettiva, nel processo amministrativo impugnatorio di legittimità assume rilevanza soltanto la prima forma di connessione. La connessione soggettiva, al contrario, in base al ricordato orientamento giurisprudenziale, non consente l’impugnativa con un unico ricorso di provvedimenti diversi, a meno che sussista anche un collegamento oggettivo tra di essi. In altri termini, nel giudizio amministrativo occorre che le domande siano o contemporaneamente connesse dal punto di vista oggettivo e soggettivo, oppure semplicemente connesse dal punto di vista oggettivo ” (Cons. Stato, Sez. V, n. 6537 del 2011). La pronuncia dà, altresì, conto della ratio iuris su cui si fonda il descritto sistema processuale, ovvero:

a) l’esigenza di evitare la confusione tra controversie diverse con conseguente aggravio dei tempi del processo;

b) la necessità di impedire l’elusione delle disposizioni fiscali, atteso che con il ricorso cumulativo il ricorrente chiede più pronunce giurisdizionali provvedendo, però, una sola volta al pagamento dei relativi tributi.

Invero, è da dire che le successive novelle all’art. 13, comma 6 bis. 1. d.p.r. n. 115/2002 (Testo unico sulle spese di giustizia) hanno chiarito che il contributo unificato è dovuto anche per i motivi aggiunti che introducono domande nuove, e quindi per quelli avverso atti connessi, non anche per quelli avverso atti già impugnati.

Resta, tuttavia, aperto il problema di evitare l’inutile aggravio dei tempi del giudizio e di salvaguardare il potere latamente discrezionale del giudice di disporre la riunione dei processi ex art. 70 c.p.a.

Muovendosi all’interno di queste coordinate, la connessione oggettiva è stata prudentemente ravvisata dalla giurisprudenza (cfr., ex plurimis , Cons. Stato, Sez. IV, n. 482 del 2017;
Sez. V, n. 202 del 2011, Sez. IV, n. 8251 del 2010;
Sez. VI, n. 1564 del 2010):

a) quando fra gli atti impugnati esiste una connessione di tipo procedimentale o infraprocedimentale, ossia un collegamento tra atti del medesimo procedimento o di procedimenti collegati, avvinti da un nesso di presupposizione giuridica o di carattere logico, in quanto i diversi atti incidono sulla medesima vicenda;

b) se fra gli atti impugnati esiste una connessione per reiterazione provvedimentale, che si verifica quando l’amministrazione sostituisce l’atto impugnato, su cui pende il ricorso, con un nuovo provvedimento, anch’esso non satisfattivo per il destinatario (ad es. l’atto di conferma con diversa motivazione);

c) quando esiste connessione non tra gli atti impugnati, perché si tratta di diversi procedimenti, ma connessione con l’oggetto del giudizio;
è questa, l’ultima frontiera aperta dalla legge n. 205/2000, tendente ad una concezione del processo basata sulla valorizzazione del giudizio sul rapporto piuttosto che sull’atto. In tal caso è ammessa la proposizione di motivi aggiunti, anche non connessi agli atti precedentemente impugnati, purchè connessi all’oggetto del giudizio già instaurato, ossia al medesimo bene della vita cui aspira il ricorrente.

13.2. Facendo applicazione dei su esposti principi al caso di specie, il Collegio osserva quanto segue:

a) l’oggetto del ricorso principale riguarda il trasferimento degli alloggi di servizio al patrimonio disponibile dello Stato;

b) l’oggetto del secondo atto di motivi aggiunti concerne, invece, gli atti puntuali di rideterminazione del canone di occupazione abusiva;

Ciò detto, è evidente che le situazioni sostanziali dedotte non hanno effettivamente nulla in comune: tra i due tipi di provvedimenti, infatti, non esiste alcun nessun procedimentale, sul piano logico-giuridico, né su quello funzionale essendo inoltre diversi i beni della vita agognati. Nell’un caso, infatti, viene in rilievo soltanto il mutamento di regime giuridico degli alloggi, trasferiti al patrimonio disponibile in vista del compimento di atti dispositivi, senza alcuna implicazione relativa al canone di godimento;
nell’altro caso, invece, viene in rilievo il diverso aspetto della misura del canone, in concreto adeguato ai nuovi criteri generali, per il godimento degli alloggi da parte di chi li utilizza sine titulo , parametrato al valore di mercato proprio perché è carente l’esigenza – pubblicistica – del perseguimento di ragioni di servizio.

13.3. Pertanto, deve concludersi nel senso dell’inammissibile proposizione del secondo atto di motivi aggiunti, con la seguente importante precisazione:

a) con riguardo alla posizione degli originari ricorrenti la possibilità di impugnare con motivi aggiunti atti diversi da quello impugnato in via principale va esclusa sul rilievo della mancanza della ragione di connessione, per tutto quanto sopra detto;

b) con riguardo, invece, alla posizione degli intervenienti, tale possibilità va esclusa oltre che a motivo della impossibilità di riqualificare, come sopra spiegato, il loro atto di intervento come autonomo ricorso per tardività dell’impugnazione, altresì, sul rilievo dell’inconfigurabilità, in capo ai medesimi, di una legittima posizione processuale nel giudizio, essendo stati dallo stesso correttamente estromessi;
diversamente opinando si consentirebbe ad un terzo di insinuarsi ad libitum in un processo instaurato da altri per proteggere proprie posizioni di interesse non autonomamente e ritualmente azionate: la norma sancita dall’art. 43 cit. è chiara nel prevedere che solo chi assume la veste di ricorrente (in via principale o incidentale) può proporre motivi aggiunti;
tuttavia nella specie, come diffusamente illustrato, tale condizione non si è realizzata.

13.4. La declaratoria della inammissibilità del secondo atto di motivi aggiunti, oltre ad esonerare il Collegio dall’esaminare le censure ivi contenute, comporta ex art. 336 c.p.c., la caducazione, per l’effetto espansivo interno della riforma in parte qua dell’impugnata sentenza, del capo della medesima (non appellato dall’Amministrazione della difesa), che ha accolto una delle censure introdotte col secondo atto di motivi aggiunti.

Ciò comporta, di conseguenza, la correzione sul punto della impugnata sentenza.

13.5. In conclusione:

a) va dichiarata ai sensi dell’art. 35, comma 1, lett. c) del c.p.a. l’improcedibilità del giudizio per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione limitatamente ai signori G Salvatore e Tvaglini Vincenzo;

b) va confermata la sentenza di primo grado in relazione alle seguenti declaratorie:

b.1) di inammissibilità degli interventi ad adiuvandum con conseguente estromissione degli intervenuti dal giudizio;

b.2) di inammissibilità del ricorso principale per difetto di legittimazione ad agire;

b.3) di rigetto della domanda incidentale di accesso agli atti;

b.4) di rigetto del primo atto di motivi aggiunti;

c) va dichiarata l’inammissibilità del secondo atto di motivi aggiunti e, per l’effetto, respinto il ricorso di primo grado nella sua globalità.

14. Per quanto concerne, infine, l’istanza (avanzata a pagina 28 dell’atto di appello), di corretta qualificazione del ricorso di primo grado ai fini del pagamento del contributo unificato, il Collegio osserva (in una alla consolidata giurisprudenza, cfr. Cons. Stato, Sez. III, n. 453 del 2015;
Sez. V, n. 3153 del 2014;
Cass. civ., Sez. VI, n. 18828 del 2015;
Sez. un., n. 9840 del 2011), che:

a) nessuna specifica censura è stata articolata – allo stato – da parte degli appellanti con riferimento al profilo processuale della vicenda in dipendenza della riclassificazione del ricorso secondo il rito abbreviato di cui all’art. 119, comma 1, lett. c) del c.p.a. in luogo del rito ordinario, essendosi gli stessi riservati ogni ulteriore deduzione, pro futuro , in merito ai vizi procedimentali che potrebbero avere inciso sul diritto di difesa e sul contraddittorio. In ogni caso (come si evince anche dalla documentazione depositata in data 27 novembre 2014), in disparte l’aspetto della (asserita) mancata risposta, da parte dei competenti organi della Giustizia amministrativa, al quesito sollevato dal T.a.r. per il Lazio, va comunque osservato che la Commissione tributaria di Roma, con la sentenza n. 133 del 25 febbraio 2013, si è pronunciata limitatamente alla posizione del sig. G M, soggetto che non è nemmeno parte di questo giudizio;

b) in ogni caso, sussiste la giurisdizione del giudice tributario su tutte le questioni inerenti i presupposti, la base imponibile e le aliquote, risultando impossibile, per il giudice procedente, intervenire su qualsivoglia aspetto liquidatorio di una obbligazione ex lege di natura tributaria, salva la individuazione della parte soccombente (soggetto passivo del tributo).

15. La regolazione delle spese per il doppio grado del giudizio, liquidate come in dispositivo, segue il principio della soccombenza, salvo che per i rinuncianti (signori G e T) rispetto ai quali le spese del doppio grado vengono integralmente compensate ai sensi dell’artt. 26, comma 1 c.p.a.

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