Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2022-11-18, n. 202210164
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Pubblicato il 18/11/2022
N. 10164/2022REG.PROV.COLL.
N. 08094/2019 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 8094 del 2019, proposto dalla signora -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall’avvocato C M, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia;
contro
il Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro
pro tempore
, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria
ex lege
in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
per la riforma
della sentenza del T.a.r. per la Lombardia, Sezione III, n. -OMISSIS-, resa inter partes .
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero dell’economia e delle finanze;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l’art. 87, comma 4- bis , c.p.a.;
Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 5 ottobre 2022. Tenuta da remoto, il consigliere Giovanni Sabbato e udito per l’appellante l’avvocato C M;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
1. Con ricorso (n.-OMISSIS-), integrato da motivi aggiunti, innanzi al T.a.r. per la Lombardia la signora -OMISSIS-, all’epoca dei fatti Finanziere scelto della Guardia di Finanza, chiedeva il risarcimento del danno da mobbing a causa delle ripetute vessazioni subite da parte dei suoi superiori gerarchici, tali da provocarle uno stato di “ -OMISSIS- ”, con conseguente stress, -OMISSIS- e, in subordine, l’accertamento del cosiddetto “ straining ”, ovverosia una situazione di stress forzato sul posto di lavoro.
1.1. In fatto occorre precisare che, come da sua esposizione:
- ella aveva prestato servizio presso il Comando Provinciale di -OMISSIS- ove non avrebbe avuto a disposizione un bagno per donne, approntato solo un anno dopo, e comunque usato anche come deposito degli attrezzi per la pulizia e spesso inutilizzabile a seguito di allagamenti;
- in data -OMISSIS- era stata trasferita alla Compagnia di -OMISSIS- ove, stante la grave situazione familiare (avendo un figlio portatore di handicap grave), era stata costretta a dover richiedere l’esonero dai turni continuativi articolati sulle 24 ore, fino al compimento dei tre anni del figlio: a seguito della richiesta era stata trasferita alla squadra Comando sino a -OMISSIS- quale scrivano;
- in data -OMISSIS-, essendo assente per malattia, aveva ricevuto una prima visita fiscale domiciliare e successivamente, a brevissima distanza, una seconda;
- in data -OMISSIS- le erano state notificate tre note di biasimo, impugnate con ricorsi altrettanti gerarchici, rigettati dal Comandante della Compagnia, ma accolti invece dal Comandante Provinciale;
- a -OMISSIS- era stata nuovamente trasferita allo schedario;subito dopo, avendo il figlio compiuto i tre anni di età, era stata assegnata alla squadra piantoni;
- in data -OMISSIS- le era stata negata la fruizione della licenza estiva;
- in prossimità delle festività -OMISSIS- era stata costretta a due turni giornalieri consecutivi o meno articolati secondo l’orario 08.00/14.00 e 20.00/08.00 oppure 14.00/08.00, non usufruendo di alcun giorno di licenza;
- in relazione al cumulo del prolungamento del congedo parentale e della fruizione dei tre giorni di permesso previsto dalla l.n. 104/1992 aveva presentato ricorso gerarchico, tuttavia respinto;
- nonostante -OMISSIS-, a causa di un evento traumatico, circostanza della quale i superiori erano a conoscenza, nel -OMISSIS- era stata assegnata al Nucleo Mobile: nonostante le sue rimostranze l’assegnazione non era stata modificata. In tale occasione era stato promosso un primo procedimento penale militare a suo carico per disobbedienza aggravata (artt. 173 e 47 n. 2 c.p.m.p.) presso il Tribunale Militare di -OMISSIS-e un secondo presso il Tribunale Ordinario di -OMISSIS- per i reati di cui all’art. 368 c.p. (calunnia) e all’art. 328 c.p. (omissioni di atti d’ufficio), il primo conclusosi con l’assoluzione ed il secondo con l’archiviazione;
- in data -OMISSIS- il Comando Provinciale di -OMISSIS- aveva comunicato, ex art. 347 c.p.p., alla Procura di -OMISSIS- a suo carico la notizia di reato (n. -OMISSIS-R.G.N.R.) relativa all’art. 615- ter comma 2 c.p. (“ Accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico ”), in quanto avrebbe effettuato due accessi abusivi alle banche dati dell’Anagrafe Tributaria per scopi non rispondenti ad esigenze operative di servizio, ma anche di questo procedimento era disposta l’archiviazione in data -OMISSIS- dal GIP del Tribunale -OMISSIS- su richiesta dello stesso Ministero;
- in concomitanza con il predetto procedimento, a fine giugno, era stata sottoposta a procedimento disciplinare e punita con 2 giorni di consegna di rigore, sanzione annullata a seguito di ricorso gerarchico.
2. Costituitosi il Ministero dell’economia e delle finanze in resistenza, il Tribunale adìto con la sentenza segnata in oggetto, respinta l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla stessa ricorrente, ha respinto il ricorso e compensato le spese di lite.
3. In particolare il Tribunale, dopo aver ritenuto sussistente la propria giurisdizione, ha rilevato che « non può trarsi alcun elemento di fondatezza della domanda risarcitoria avanzata nella presente sede dall’avvenuto accertamento della dipendenza da causa di servizio della patologia riscontrata alla ricorrente. Come condivisibilmente argomentato dalla difesa dell’Amministrazione non può esserci un’automatica trasposizione sul piano della responsabilità datoriale dell’accertata inidoneità al servizio attivo. Ed invero al fine di ritenere sussistente la fattispecie del mobbing occorrono elementi che, nel procedimento volto ad accertare la dipendenza da causa di servizio di una certa patologia, non vengono minimamente considerati, quale, in particolare, l’intento persecutorio » e che « non risultano provati gli elementi che integrano la fattispecie risarcitoria da mobbing, dovendosi rammentare che nel giudizio risarcitorio che si svolge davanti al giudice amministrativo, nel rispetto del principio generale sancito dal combinato disposto degli artt. 2697 c.c. (secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda) e 63, co. 1 e 64, co. 1, c.p.a. (secondo cui l’onere della prova grava sulle parti che devono fornire i relativi elementi di fatto di cui hanno la piena disponibilità), non può avere ingresso il c.d. metodo acquisitivo tipico del processo impugnatorio;pertanto, il ricorrente che chiede il risarcimento del danno deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda (Consiglio di Stato, sez. VI, 28 gennaio 2016, n. 284). In particolare nel caso di specie non risulta assolto l'onere probatorio da parte della ricorrente in relazione né al profilo oggettivo della condotta illecita né a quello soggettivo. Quanto alla condotta illecita sotto un profilo oggettivo la ricorrente si è limitata ad elencare una serie di episodi che appaiono pacificamente riconducibili alle ordinarie dinamiche, talvolta anche conflittuali, nell’ambito del rapporto di impiego. Ed invero il non gradimento da parte del dipendente delle scelte organizzative dell’Amministrazione, che incidono sulla sua posizione lavorativa, non può essere ascritto ad una ipotesi di mobbing ».
4. Avverso tale pronuncia segnata la -OMISSIS- ha interposto appello, notificato il 1° ottobre 2019 e depositato il 4 ottobre 2019, lamentando (pagine 12-56):
I) violazione e falsa applicazione dell’art. 9, c.p.a. per difetto di giurisdizione
II) violazione e falsa applicazione dell’art 2087 c.c., dell’art. 30 c.p.a., dell’art 112 c.p.a. per molteplici omesse pronunce, degli artt. 11, 12 e 14 del d.p.r. n.461/2001 e violazione del principio del “ne bis in idem” ;
III) violazione dell’art. 105, c.p.a. per sentenza nulla e/o abnorme e/o ricorrente e motivazione apparente .
4.1. Con il primo motivo di gravame la ricorrente ha sostenuto il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore del giudice contabile, la cui giurisdizione riguarderebbe non solo le controversie aventi ad oggetto il diritto o la qualificazione della prestazione, ma anche le domande di risarcimento del danno per l’inadempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro come stabilito dal chiaro disposto di cui all’articolo 3 del codice della giustizia contabile.
4.2. Con il secondo motivo di gravame la ricorrente ha denunciato la “tautologica” argomentazione del giudice di prime cure nel negare la riconducibilità dei fatti di causa alla fattispecie del c.d. “ mobbing ” o, in via alternativa, a quella del c.d. “ straining ”, non presupponente la molteplicità degli eventi e l’intento persecutorio, ma solo un danno permanente riconducibile al datore di lavoro.
4.3. Con il terzo motivo di gravame la ricorrente ha dedotto la nullità della sentenza impugnata per difetto assoluto di motivazione stante la mancanza dell’ iter logico seguito dal giudice di primo grado e la non chiarezza dell’uso fatto dallo stesso delle risultanze istruttorie.
5. L’appellante ha concluso chiedendo la rimessione della causa al primo giudice ex art. 105 c.p.a., in subordine la declaratoria pregiudiziale del difetto di giurisdizione ex art. 9 c.p.a. in favore del Giudice delle Pensioni e in ulteriore subordine, in riforma dell’impugnata sentenza, l’accoglimento del ricorso di primo grado e dei relativi motivi aggiunti con la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno nella misura di € 1.757.444,00.
6. In data 27 novembre 2019 il Ministero dell’economia e delle finanze si è costituito in giudizio.
7. In data 15 gennaio 2020 l’Amministrazione ha depositato memoria di controdeduzioni concludendo per la reiezione dell’avverso gravame.
8. In data 1° settembre 2022 l’Amministrazione ha depositato anche una memoria conclusionale con la quale ha insistito per il rigetto dell’avverso gravame.
9. In data 7 settembre 2022 l’appellante ha depositato memoria di replica insistendo, previa rinuncia alla domanda ex art. 105 c.p.a., per l’accoglimento del gravame con espressa richiesta di tutela della privacy.
10. La causa, chiamata per la discussione all’udienza telematica del 5 ottobre 2022, è stata trattenuta in decisione.
11. L’appello è infondato.
11.1 Va innanzitutto esaminata la doglianza, di carattere pregiudiziale, posta dal terzo motivo d’appello (pagine 53 e ss.), con la quale l’appellante ha dedotto la violazione dell’articolo 105 c.p.a. per sentenza nulla e/o abnorme e/o ricorrente e motivazione apparente , con conseguente rimessione della causa al primo giudice;giova aggiungere sul punto che la stessa appellante in corso di giudizio ha rinunciato “ al rimedio previsto dall’art. 105 c.p.a., fatta salva, chiaramente, la procedibilità d’ufficio ” (cfr. memoria di replica del 7 settembre 2022).
A parte ogni considerazione sulla stessa comprensibilità della rinuncia, deve osservarsi che non sussistono i presupposti dell’annullamento della sentenza con rinvio ai sensi dell’art. 105 c.p.a., in quanto, le fattispecie di all’invocato art. 105 c.p.a. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive.
Sul punto è sufficiente rinviare ai consolidati principi elaborati dalla giurisprudenza dell’Adunanza plenaria che si è pronunciata ben quattro volte, nell’arco del 2018, sui limiti applicativi dell’art. 105 c.p.a. (cfr. sentenza 30 luglio 2018, n. 10;sentenza 30 luglio 2018, n. 11;sentenza 5 settembre 2018, n. 14;sentenza 28 settembre 2018, n. 15). E’ stato osservato in primo luogo che le ipotesi di annullamento con rinvio al giudice di primo grado previste dall’art. 105 c.p.a. hanno carattere eccezionale e tassativo e non sono, pertanto, suscettibili di interpretazioni analogiche o estensive, non potendovi rientrare “ la mancanza totale di pronuncia da parte del primo giudice su una delle domande del ricorrente, rientrandovi invece il difetto assoluto di motivazione della sentenza di primo grado ” (cfr. Ad.plen. n. 10 e 11 del 2018);l’omessa pronuncia del resto (Cons. Stato, sez. IV, 4 dicembre 2017, n. 5711; id . 17 ottobre 2017, n. 4796) costituisce tipico errore di diritto per violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all’art. 112 c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo (Cons. Stato, sez. IV, 16 gennaio 2006, n. 98) con il correttivo a più riprese affermato, secondo il quale l’omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell’ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d’impugnazione risulti implicitamente da un’affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile (Cons. Stato, sez. VI, 6 maggio 2008, n. 2009). Peraltro, l’omessa pronuncia su una o più censure proposte con il ricorso giurisdizionale non configura un error in procedendo , tale da comportare l’annullamento della decisione con contestuale rinvio della controversia al giudice di primo grado ex art. 105, comma 1, c.p.a., ma solo un vizio dell’impugnata sentenza che il giudice di appello è legittimato ad eliminare, integrando la motivazione carente o, comunque, decidendo sul merito della causa (Cons. Stato, Ad.plen., 30 luglio 2018, nn. 10 e 11; id . 5 settembre 2018, n. 14; id . 28 settembre 2018, n. 15). Fa eccezione a questa ipotesi il caso in cui manchi del tutto la pronuncia sulla domanda o il giudice decida su diversa domanda, ovvero sulla domanda fatta valere in giudizio il giudice di primo grado abbia pronunciato con motivazione inesistente o apparente. In questi casi la rimessione al primo giudice si riscontra in ragione del ricorrere della fattispecie della nullità della sentenza, perché priva degli elementi minimi idonei a qualificare la pronuncia come tale (Cons. Stato, Ad.plen., nn. 10 e 11 cit.).
Non rientrando l’omessa pronuncia da parte del giudice di primo grado su un motivo del ricorso, nei casi tassativi di annullamento con rinvio, ne consegue che, in forza del principio devolutivo (art. 101, comma 2, c.p.a.), il Consiglio di Stato decide, nei limiti della domanda riproposta, anche sui motivi di ricorso non affrontati dal giudice di prime cure (Cons. Stato, sez. V, 29 dicembre 2017, n. 6158). In altre parole il semplice difetto di “ sufficienza ” della motivazione non si traduce in un vizio della sentenza tale da giustificare il rinvio al primo giudice non restando altro al giudice d’appello che provvedere alla disamina dei profili di censura trascurati o addirittura obliterati.
In definitiva nel caso in esame non sussistono gli estremi per l’applicazione dell’art. 105 c.p.a..
10.2 Non è meritevole di favorevole apprezzamento il primo motivo, col quale l’appellante ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell’articolo 9 c.p.a. per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in favore della Corte dei Conti. La censura, in disparte ogni considerazione circa la sua fondatezza, è inammissibile giacché l’instaurazione del giudizio di prime cure innanzi al giudice amministrativo è avvenuta su iniziativa della stessa appellante, di guisa che vale il principio di conio giurisprudenziale secondo cui “ la parte che abbia adito la giurisdizione amministrativa con l’atto introduttivo del giudizio non è legittimata a contestarla attraverso l’eccezione di difetto di giurisdizione in appello, perché tale contraddittoria condotta integra un abuso del diritto di difesa, dettato da mere ragioni opportunistiche ed in contrasto con il dovere di cooperazione per la realizzazione della ragionevole durata del processo sancita dall’art. 2, comma 2, c.p.a. ” (cfr. Cons. Stato, sez. II, 6 maggio 2021, n. 3543).
E’ stato affermato che “ Ai sensi degli artt. 74 e 88 comma 2 lett. d), c.p.a., è inammissibile l’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata in appello dalla stessa parte che aveva adìto la medesima giurisdizione con l'atto introduttivo di primo grado;tale regola processuale trova infatti fondamento nel divieto dell'abuso del diritto, quale è da ritenersi, a guisa di figura paradigmatica, il venire contra factum proprium dettato da ragioni meramente opportunistiche, in quanto vige nel nostro sistema un generale divieto di abuso di ogni posizione soggettiva (divieto che, ai sensi dell’art. 2 Cost. e dell’ art. 1175 c.c., permea le condotte sostanziali al pari dei comportamenti processuali di esercizio del diritto), in cui si inserisce anche l'abuso del processo ” (cfr. Cons. Stato, sez. II, 2 dicembre 2020, n. 7628).
Ad ogni modo l’eccezione è anche infondata, in quanto, come correttamente osservato dall’amministrazione appellata, la domanda giudiziale non era finalizzata all’acquisizione della pensione privilegiata, caso in cui, certamente, sulla base dell’art. 11 della legge del 14 agosto 1862, la competenza sarebbe stata della Corte dei Conti, bensì all’ottenimento del risarcimento danni da mobbing con relativa competenza in materia del giudice amministrativo. Sul punto deve ricordarsi che “ la giurisdizione del giudice amministrativo sussiste esclusivamente nelle controversie nelle quali il mobbing sia ricollegato a specifici atti giuridici, effettivamente riconducibili alla gestione del rapporto di lavoro (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 22 gennaio 2018, n. 389);dunque, il comportamento che sostanzierebbe il preteso mobbing deve risultare collegato ad un’attività del datore di lavoro svolta nell’esercizio del potere di supremazia gerarchica nei confronti del lavoratore, impartendogli ordini, attraverso disposizioni e direttive, o inserendolo o escludendolo da attività della struttura organizzativa ” (cfr. Cons. Stato, sez. III, 27 febbraio 2019, n. 1371). Conseguentemente, come evidenziato dal Tar, “ tutte le condotte che vengono percepite come persecutorie o comunque vessatorie, ma che non si sostanziano nell’adozione di provvedimenti amministrativi, costituiscono elementi che possono essere confermativi di un atteggiamento dell’Amministrazione laddove si individuino atti illegittimi costituenti mobbing. Fuori di questa ipotesi vi sarebbe una responsabilità di tipo extracontrattuale che andrebbe azionata dinanzi al giudice ordinario ” (Cons. Stato, sez. II n. 7370 del 23 agosto 2022). Si collocano proprio in tale contesto le deduzioni di parte appellante avendo a più riprese evidenziato che la condotta mobbizzante sarebbe stata perpetrata mediante comportamenti vessatori ascrivibili ai superiori gerarchici e sostanziatisi anche in specifici atti di trasferimento.
10.3 Infondato è anche il secondo motivo, col quale si deduce che il T.a.r. avrebbe trascurato le risultanze documentali sebbene queste fossero in grado di dimostrare la sussistenza della divisata fattispecie del mobbing o comunque quella dello straining .
Per quanto riguarda la prima, la giurisprudenza ha avuto modo di circoscrivere l’ambito in cui essa può emergere occorrendo a tal uopo il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso: “ Infatti, in caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l’illecito solo se si accerti che l’unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall’eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un’ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell’"exceptio doli generalis", consente per altro verso di escludere dall’orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro (Cons. Stato, Sez. IV, 10 gennaio 2012 n. 14; id., Sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905) ” (cfr. Cons. Stato, sez. II, n. 862/2021).
Per consolidata giurisprudenza si tratta di elementi tutti che il lavoratore ha l’onere di provare, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla ( ex ceteris , Cons. Stato, sez. II, n. 862/2021;Cass. sez. lav. n. 29767/2020: “ ai fini della configurabilità di una ipotesi di "mobbing", non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass., n. 10992 del 2020) ”) (cfr. Cons. Stato, sez. II, 8 giugno 2022, n. 4671).
Anche il giudice amministrativo ha sottolineato che “ l’elemento oggettivo d ella fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra loro dall’intento persecutorio nei confronti della “vittima” ” (cfr. ex multis , Cons. Stato, sez. IV, 7 febbraio 2019, n. 910).
Il motivo in esame si rivela quindi infondato non emergendo l’elemento psicologico richiesto dalla disamina degli episodi descritti in ricorso per ricondurli ad un unico intento e tali da aver provocato “ -OMISSIS- ” (pag. 18 di 57 dell’appello), patologia che sarebbe causata dalle numerose circostanze susseguitesi nel tempo in ambito lavorativo.
Va ribadito infatti che sotto il profilo dell’elemento psicologico è necessario che gli accadimenti siano tutti sussumibili sotto l’egida unificante del dolo generico o specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore, emarginandolo, sulla base di un’unica strategia;singoli atti riconducibili all’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro, perfino se conflittuale a cagione di antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ove non caratterizzati da tale volontà, non assumono rilievo nella necessaria visione d’insieme del fenomeno. La ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere pertanto esclusa allorquando la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il richiamato carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905).
Chiarito ciò, si può passare a vagliare la complessa vicenda sottesa alle deduzioni del ricorrente, avuto riguardo peraltro alla dualità delle richieste avanzate: in primo luogo, il danno da quello da mobbing indi da straining .
E’ noto che l’analisi del mobbing , per la particolare sensibilità della relativa tematica, impone al giudice di evitare di assumere acriticamente l’angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro (cui siano imputabili in ipotesi le condotte illecite di altri dipendenti) non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica;dall’altro, che gli atti relativi siano di per sé ragionevoli e giustificati, in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali. In altre parole, non si può sottovalutare l’ipotesi che l’insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l’insorgere di comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell’interessato;tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale. Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l’ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia, caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate.
Si deve rimarcare che effettivamente l’odierna appellante è stata assegnata a compiti d’istituto non incoerenti con la propria qualifica seppure oggettivamente più disagevoli rispetto a quelli precedentemente svolti;né tali mansioni possono essere ritenute tanto penalizzanti da innescare le patologie riscontrate. Invero, ai fini della disamina del ricorso occorre distinguere tra la oggettiva rilevanza dei comportamenti ascrivibili ai superiori del ricorrente ( mobbing verticale) ovvero dei colleghi ( mobbing orizzontale) e le conseguenze che questi avrebbero prodotti sullo stato di salute del dipendente, non potendosi dare rilevanza a questi ultimi in mancanza di una causa efficiente oggettivamente rilevante. Se è vero che l’appellante denuncia una situazione di stress assurta al rango di vera e propria patologia, è pur vero che non emerge una condotta oggettivamente lesiva quanto piuttosto un regime di conflittualità all’interno dell’ambiente di lavoro. L’appellante valorizza una serie di episodi (“ -OMISSIS- ”) asseritamente idonei ad integrare una vera e propria condotta persecutoria ai suoi danni, che tuttavia risultano slegati fra di loro invece che essere avvinti da quel filo conduttore che potrebbe farli riconfigurarr quali tasselli di una fattispecie complessa. Come rammentato, di recente, dalla Sezione (sentenza 11 marzo 2020, n.1746), per costante e condivisa giurisprudenza ( ex aliis Cassazione civile, sez. lav., 11 dicembre 2019, n. 32381) “ il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due elementi: quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo, integrato dall'intendimento persecutorio del datore medesimo;quest'ultimo richiede che siano posti in essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due ”. E’ proprio tale indefettibile elemento soggettivo che non trova in alcun modo riscontro negli atti di causa.
Del resto l’esito favorevole alla ricorrente dei giudizi disciplinari e di quelli penali non assume autonoma rilevanza già solo per il fatto che esso è determinato da apprezzamenti delle circostanze di fatto e di diritto, all’esito dei necessari approfondimenti istruttori, affidati ad organi aventi competenze specifiche e comunque, per la loro natura eterogenea, non sono inquadrabili in un contesto unitario. Inoltre i provvedimenti del Comandante della Compagnia in data 9 dicembre 2009 di annullamento delle (tre) note di biasimo non recano alcuna motivazione a sostegno dalla quale emerga un qualche profilo di comprovata illegittimità delle stesse.
L’appellante, dopo aver descritto i passaggi essenziali del parallelo giudizio svoltosi presso la Corte dei Conti ha testualmente evidenziato che “ Il giudizio medico-legale del Comitato di verifica per le cause di servizio;i giudizi medico-legali dei due CTU [...] ravvisano, tra il servizio prestato dalla ricorrente e l’infermità per la quale è stata riconosciuta la dipendenza da causa di servizio, il rapporto causale ovvero concausale efficiente e determinante richiesto dal terzo comma dell’art. 64 del d.P.R. n. 1092/1973 ” (cfr. pagine 21-22 dell’appello). Tuttavia la circostanza relativa al riconoscimento della dipendenza da causa di servizio non può reputarsi decisiva ai fini della soluzione della presente controversia in quanto la fattispecie, come detto, ha natura complessa e pertanto sottende una serie di elementi peculiari rispetto a quelli che governano la decisione in sede amministrativa circa la spettanza dell’equo indennizzo.
Nemmeno la vicenda di causa, così come emerge dalle risultanze documentali in atti, consente di configurare la residua fattispecie dello straining , quale “-OMISSIS-” che, denuncia l’appellante, non è stata esaminata dal TAR.
Lo straining indica una situazione di stress forzato subita sul posto di lavoro, in cui la vittima (il lavoratore) è destinatario di almeno un’azione ostile e stressante, i cui effetti negativi si protraggono nel tempo. A differenza del mobbing che richiede la continuità delle azioni vessatorie, perché possa configurarsi lo straining è sufficiente anche una sola azione, purché i suoi effetti siano duraturi (come avviene nei casi di demansionamento e/o di trasferimento). Pertanto, si tratta di un tipo di stress superiore rispetto a quello connaturato alla natura stessa del lavoro e alle normali interazioni organizzative, che può essere qualificato come una condizione psicologica a metà strada tra il mobbing ed il semplice stress occupazionale. Tale condotta del datore di lavoro, laddove rilevata, integrando comportanti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro, può generare un danno ingiusto che va adeguatamente risarcito (Cassazione civile, sez. lav., n. 3291/2016 del 19 febbraio 2016).
Anche in relazione a tale fattispecie deve rilevarsi che gli elementi fattuali descritti in atti non consentono di configurare un vero e proprio atteggiamento vessatorio messo in atto da un superiore in maniera volontaria con il precipuo scopo di umiliare la dipendente.
11. In definitiva il ricorso è infondato e deve essere respinto.
12. La peculiarità della controversia giustifica la compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio.