TAR Brescia, sez. I, sentenza 2022-10-25, n. 202201021

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Brescia, sez. I, sentenza 2022-10-25, n. 202201021
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Brescia
Numero : 202201021
Data del deposito : 25 ottobre 2022
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 25/10/2022

N. 01021/2022 REG.PROV.COLL.

N. 00605/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia

sezione staccata di Brescia (Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 605 del 2020, proposto da
-OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati E P e E M A, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l’avvocato E P, con studio in Brescia, via Carlo Zima 7;

contro

Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale Lombardia, -OMISSIS- e Ministero della Giustizia, in persona dei legali rappresentanti pro tempore , rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato, domiciliati ex lege in Brescia, via S. Caterina, 6;

per l'annullamento

del decreto del Ministero della Giustizia, -OMISSIS- del 14 maggio 2020, unitamente al parere del Comitato di Verifica per le Cause di Servizio, n. -OMISSIS- del 29 gennaio 2020, nonché degli atti antecedenti, preordinati, consequenziali e comunque connessi del relativo procedimento.

E, per

la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni subiti dal ricorrente

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - Provveditorato Regionale Lombardia, della -OMISSIS- e del Ministero della Giustizia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 12 ottobre 2022 il dott. Luca Pavia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO



1. Il ricorrente, già assistente Capo della polizia penitenziaria, asserisce di aver subito delle vessazioni nel periodo compreso tra il 2013 e il 2017 ad opera di un suo superiore (un ispettore), nella totale indifferenza del proprio comandante e del direttore della casa circondariale presso cui prestava servizio.

Nello specifico egli sostiene che l’ispettore in questione:

- avrebbe sistematicamente modificato la programmazione dei turni mensili periodicamente presentata dal ricorrente.

- si sarebbe immotivatamente posizionato nelle adiacenze del posto di lavoro del ricorrente assumendo un “ atteggiamento di superiorità e disprezzo ”;

- sarebbe entrato nella “ sala regìa ”, quando era di turno il ricorrente, impossessandosi e mettendosi a esaminare il registro delle malattie e assenze del personale in modo “ sfrontato e provocatorio ”;

- avrebbe escluso il ricorrente da mansioni, quali il preposto alla sorveglianza, che gli sarebbero spettate in virtù della sua qualifica;

- avrebbe travisato alcuni fatti svolti durante il servizio;

- avrebbe rimproverato immotivatamente il ricorrente e avrebbe avviato un procedimento disciplinare a suo carico, poi conclusosi con il suo proscioglimento.



2. Il ricorrente riferisce, inoltre, di aver relazionato ogni singolo avvenimento ai superiori, ma questi non sarebbero mai intervenuti.



3. Il 2 maggio 2017, dopo l’ennesimo alterco con l’ispettore, il ricorrente si astenne dal lavoro a causa di un cedimento psicofisico e, a seguito di una serie di accertamenti clinici esperiti sia presso la Commissione medica dell’Ospedale Militare di Milano sia presso la

ASST

Spedali Civili di Brescia, emerse che egli era affetto da un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso, meglio noto come “ -OMISSIS- ”.



4. Il 9 maggio 2017 il ricorrente chiese il riconoscimento della causa di servizio per la propria patologia.



5. Il 18 settembre 2017 l’ispettore venne trasferito presso un’altra casa circondariale, a seguito di una procedura di mobilità volontaria.



6. Il 27 settembre 2018 la Commissione Medica Ospedaliera dell'Ospedale Militare di Milano dichiarò il ricorrente non idoneo al Servizio nella Polizia Penitenziaria ma idoneo al transito nei ruoli civili dell'Amministrazione Penitenziaria o in altre Amministrazioni dello Stato. Possibilità, questa, che il ricorrente rifiutò perché, a suo dire, il passaggio avrebbe comportato oltre che un’immediata perdita economica anche un considerevole aumento del numero degli anni lavorativi prima del collocamento in quiescenza.



7. Il 29 settembre 2019 il ricorrente venne dispensato dal servizio per infermità e, il successivo 30 settembre, venne collocato in quiescenza.



8. Il 14 maggio 2020 il direttore Generale del Ministero della Giustizia - Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha ritenuto, in conformità al parere del Comitato di Verifica per le cause di servizio, che la malattia del ricorrente non fosse riconducibile ad una causa di servizio.



9. Con ricorso, notificato il 7 ottobre 2019 e depositato il successivo 31 ottobre, il ricorrente ha impugnato il provvedimento de quo chiedendone l’annullamento nonché l’accertamento della sussistenza degli estremi di una condotta mobbizzante e la conseguente condanna dei resistenti al risarcimento del danno.

10. Il 10 novembre 2020 si sono costituiti i resistenti con una comparsa di stile e, il successivo 3 dicembre, hanno depositato della documentazione, tra cui una relazione sui fatti di causa.

11. Il 22 settembre 2022 il ricorrente ha depositato una memoria in cui ha insistito sull’accoglimento delle proprie conclusioni e ha ribadito la necessità di assumere una prova testimoniale sui fatti di causa.

12. All’udienza pubblica del 12 ottobre 2022 la causa è stata trattenuta in decisione.

DIRITTO



1. Con la prima parte del ricorso il ricorrente chiede il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno da “ mobbing ”.

La giurisprudenza civile ha precisato che il mobbing rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate, designando un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo e in costante progresso, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo ( ex multis Cassazione civile, sezione lavoro, 4 gennaio 2017, n. 74).

La fattispecie de qua è, quindi, integrata qualora:

- vengano posti in essere una serie di condotte persecutorie (illecite o anche lecite, se considerate singolarmente) con intento vessatorio;

- si verifichi un evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente;

- sussista un nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella propria integrità psico-fisica ovvero nella propria dignità e le condotte siano avvinte da un intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi (cfr. Cassazione Civile, sezione lavoro, 27 gennaio 2017, n. 2147).

Si tratta di elementi che non solo il lavoratore ha l'onere di provare, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c., ma che implicano una rigorosa valutazione della sistematicità della condotta e dell'intento emulativo o persecutorio che la sorregge ( ex multis Cassazione civile, sezione lavoro, 9 giugno 2020, n. 10992).

L’orientamento della giurisprudenza civile in subiecta materia è seguito anche da quella amministrativa la quale ha sancito che, ai fini della configurabilità del mobbing, sono necessari « la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio;
l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente;
il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore;
la prova dell'elemento soggettivo, costituito dall'intento persecutorio
» ( ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 7 febbraio 2019, n. 910).

Nello specifico, l'elemento psicologico dell’illecito è integrato dal dolo generico, inteso come volontà di nuocere, infastidire o danneggiare psicologicamente il lavoratore ( ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 1 luglio 2019, n. 4471). Ne consegue che, ai fini della configurabilità della condotta lesiva, è necessaria la sussistenza di una strategia unitaria persecutoria, che esula dai singoli atti da ricondurre nell'ordinaria dinamica del rapporto di lavoro (come i normali conflitti interpersonali in ambiente lavorativo), finalizzata emarginare il dipendente ponendolo in una posizione di debolezza ( ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905).

La sussistenza della fattispecie va, quindi, esclusa ogni qual volta le circostanze addotte, ed accertate nella loro materialità, pur se idonee a palesare la sussistenza di un conflitto sul luogo di lavoro, non consentano di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo ( ex multis T.A.R. Sicilia, Palermo, sez. I, 4 dicembre 2018, n. 2560), con la conseguente esclusione dall'ambito della fattispecie di tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro (o superiore gerarchico) e lavoratore si registrino posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro ( ex multis Consiglio di Stato, sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905).

Per quanto concerne, nello specifico, l’onere della prova che grava sul presunto danneggiato, la giurisprudenza ha chiarito che la condotta mobbizzante deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a dolersi genericamente di esser vittima di un illecito, ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve evidenziare, quanto meno, qualche concreto elemento in base al quale il giudice (eventualmente, anche attraverso l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi) possa verificare la sussistenza di un disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione, posto che, come visto, la pur accertata esistenza di uno o più atti illegittimi adottati in danno di un lavoratore non consente, di per sé, di affermare l'esistenza di un'ipotesi di mobbing (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1388).

La ricorrenza dell’illecito è, quindi, esclusa ogni qual volta « la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte (ed accertate nella loro materialità), pur se idonea a palesare, singulatim, elementi od episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere esorbitante ed unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo del complesso delle condotte poste in essere sul luogo di lavoro » (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 10 gennaio 2012, n. 14).

Ciò posto, il Collegio ritiene che il ricorrente non abbia assolto al proprio onere probatorio perché, anche qualora fossero provati tutti gli avvenimenti descritti nelle relazioni di servizio depositate in atti, essi sarebbero comunque inidonei a dimostrare l'esistenza di un sovrastante disegno persecutorio, finalizzato alla sua emarginazione.

Per tale ragione, il Collegio ritiene del tutto superflua l’ammissione della prova testimoniale, poiché destinata a provare fatti non rilevanti per l’accoglimento della domanda proposta.

Nello specifico, il ricorrente sostiene, in primo luogo, che l’ispettore avrebbe sistematicamente modificato la programmazione dei turni mensili da lui presentata, a volte anche in violazione dei riposi obbligatori nell’arco delle 24 ore.

Tuttavia tali avvenimenti vengono solo menzionati nella relazione del 2 marzo 2015 (avente ad oggetto “ Giustificazione in merito alla contestazione di addebito prot. n. 2423 ”) e non sono comprovati da alcun altro elemento, quale, ad esempio, gli ordini di servizio che il ricorrente poteva ottenere mediate un semplice accesso documentale.

Inoltre, anche se il contenuto della relazione fosse dimostrato, l’evento, in assenza di prova contraria, deve presumersi imposto da mere esigenze organizzative, anche perché il ricorrente non ha neppure allegato quante variazioni avrebbero subito i colleghi del ricorrente nel medesimo arco temporale, e se la programmazione presentata fosse adeguata alle complessive esigenze del servizio, e degli altri addetti.

Il ricorrente asserisce, poi, che il superiore si sarebbe immotivatamente posizionato nelle adiacenze del proprio posto di lavoro assumendo un atteggiamento di “ superiorità e disprezzo ”.

Tale evento, cristallizzato nella relazione di servizio del 20 febbraio 2015, e che avrebbe costretto il ricorrente a lavorare sotto pressione e in stato di agitazione, è affatto generico, ed esprime – in assenza di atti concreti - una sensazione soggettiva dell’odierno ricorrente assai più che un dato oggettivo, e potrebbe essere semplicemente l’esito di una condotta funzionale allo svolgimento delle mansioni assegnate al superiore;
in base all’art. 22 del d.lgs. 30 ottobre 1992 n. 443 agli ispettori del corpo di polizia penitenziaria sono, infatti, « attribuite funzioni di coordinamento di una o più unità operative dell'area della sicurezza, dei nuclei e degli uffici e servizi ove sono incardinati nonché la responsabilità per le direttive e le istruzioni impartite nelle predette attività ».

Il ricorrente asserisce, poi, che il suo diretto superiore sarebbe entrato nella “ sala regìa ”, quando era di turno, impossessandosi e mettendosi a esaminare il registro delle malattie e assenze del personale in modo “ sfrontato e provocatorio ”.

Detto evento, narrato nella relazione di servizio del 16 settembre 2016 (« alle ore 7.50 circa entrava nuovamente nel locale portineria l'ispettore F il quale senza chiedere niente né al sottoscritto né al collega di servizio in sala regia prendeva il registro delle malattie del personale e cominciava a sfogliarlo controllando tutti gli ultimi dati scritti dagli operatori della sala regia/portineria riguardanti i colleghi assenti giustificati. Voglio precisare che su tale registro vi è scritto che la visione dei dati e consentita solo al personale operante nei suddetti posti di servizio »), non pare in alcun modo espressione di una condotta mobbizzante, lesiva delle prerogative del ricorrente.

Invero, è intanto assai difficile stabilire se un registro sia esaminato con “sfrontatezza”, almeno nel comune significato della parola;
inoltre, il registro si riferiva a tutti i colleghi, e non era un documento personale del ricorrente;
ancora, non sono note le ragioni per cui l’ispettore aveva effettuato l’accesso né se egli fosse autorizzato alla visione dei registri (ma parrebbe di sì, visto che nessuna sanzione gli è stata irrogata): è soltanto evidente che il ricorrente avvertiva ormai come ostile la semplice presenza del superiore, ma ciò evidentemente non costituisce in sé attività persecutoria.

A dire del ricorrente, poi, il superiore lo avrebbe escluso da mansioni, quali il preposto alla sorveglianza, che gli sarebbero spettate in virtù della sua qualifica.

L’episodio, che è stato narrato nella relazione di servizio del 20 febbraio 2015 (nella quale il ricorrente ha comunicato al comandante del reparto che l’ispettore non lo avrebbe assegnato alla sorveglianza interna, dalle ore 6.00 alle ore 8.00, nonostante egli fosse il dipendente più anziano del turno), appare privo di qualsiasi potenzialità lesiva, e non solo per la sua eccezionalità (dagli atti di causa emerge, infatti, che si sarebbe verificato una volta sola).

Infatti, ai sensi dell’articolo 4 del d.lgs. 442/92 il personale appartenente al ruolo degli agenti e assistenti « svolge mansioni esecutive, a supporto dei ruoli superiori, con il margine di iniziativa e di discrezionalità inerente alle qualifiche possedute;
vigila sulle attività lavorative e ricreative organizzate negli istituti per i detenuti e gli internati;
indica elementi di osservazione sul senso di responsabilità e correttezza nel comportamento personale e nelle relazioni interpersonali interne, utili alla formulazione di programmi individuali di trattamento. Agli assistenti ed agli assistenti capo possono essere conferiti compiti di coordinamento operativo di più agenti in servizio di istituto, nonché eventuali incarichi specialistici
»: dunque, alla stregua di tale disposizione , il ricorrente non è stato vittima di un demansionamento ma soltanto, occasionalmente, della disapplicazione di una consuetudine lavorativa, che vedrebbe attribuire la “ sorveglianza interna ” al dipendente più anziano in servizio.

Il ricorrente sostiene, poi, di essere stato immotivatamente rimproverato, e destinatario di un procedimento disciplinare, poi conclusosi con il suo proscioglimento.

La vicenda si è verificata il 1° marzo 2017 quando il ricorrente, rientrando da un congedo per malattia, si era presentato per svolgere il servizio notturno, perché aveva ricevuto tale informazione dal centralino dell’istituto penitenziario.

Giunto sul luogo di lavoro, gli veniva, però, impedito di prendere servizio perché vietato sia dalle norme di legge in materia di orario di lavoro sia dalle disposizioni interne, le quali prevedono che, al rientro da un turno di malattia, il dipendente non possa effettuare il turno notturno.

Premesso che il ricorrente è stato prosciolto all’esito del procedimento disciplinare solo perché « gli atti non palesano in modo dettagliato se vi sia stato un alterco con l’ispettore rapportante tale da avere rilevanza disciplinare », l’episodio, che rientra nelle normali dinamiche d’ufficio, non si sarebbe neppure verificato se il ricorrente, anziché chiamare il centralino, che poteva solo controllare il contenuto di un ordine di servizio affisso e non modificabile, si fosse rivolto, come da disposizioni impartite, alla “ sorveglianza generale ”.

Infine, l’asserzione secondo cui l’ispettore avrebbe travisato alcuni fatti svolti durante il servizio del ricorrente non solo non trova riscontro negli atti di causa ma rientra pacificamente nel novero dei rapporti d’ufficio e non delle condotte vessatorie.

Il Collegio evidenza, poi, che le illustrate carenze probatorie non possono essere supplite dalla perizia di parte, posto che per giurisprudenza costante essa « ancorché giurata, non è dotata di efficacia probatoria e, pertanto, non può essere qualificata come mezzo di prova;
e, inoltre, come meglio specificato dalla S.C., essa non ha valore di prova nemmeno rispetto ai fatti che il consulente asserisce di aver accertato;
bensì solo di indizio, al pari di ogni documento proveniente da un terzo, con la conseguenza che la valutazione della stessa è rimessa all'apprezzamento discrezionale del giudice di merito che, peraltro, non è obbligato in nessun caso a tenerne conto
» ( ex multis T.A.R. Lazio, Roma sez. II, 07 febbraio 2022, n. 1413).

In conclusione, dalla complessa vicenda ora ricostruita, non si rinvengono elementi per ritenere che il ricorrente sia stato vittima di mobbing: emerge invece una cospicua difficoltà soggettiva di adeguamento al servizio in una struttura gerarchizzata, difficoltà che trova inevitabilmente il punto di maggior frizione nell’immediato superiore.

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