TAR Roma, sez. I, sentenza 2018-04-24, n. 201804571

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Sul provvedimento

Citazione :
TAR Roma, sez. I, sentenza 2018-04-24, n. 201804571
Giurisdizione : Tribunale amministrativo regionale - Roma
Numero : 201804571
Data del deposito : 24 aprile 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 24/04/2018

N. 04571/2018 REG.PROV.COLL.

N. 09483/2014 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio

(Sezione Prima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9483 del 2014, proposto da


LIDL

Italia S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati G B, C S S, E V e M V, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo (Studio Pirola Pennuto Zei &
Associati) in Roma, viale Castro Pretorio, 122;

contro

Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso cui è domiciliata “ex lege” in Roma, via dei Portoghesi, 12;

nei confronti

Centro di Ricerca e Tutela dei Consumatori e degli Utenti, non costituito in giudizio;

per l'annullamento, previa sospensiva,

1) del provvedimento n. 24887 (procedimento n. PS9230) assunto dall’Autorità nell’adunanza del 16 aprile 2014 e notificato all’odierna ricorrente in data 6 maggio 2014, con il quale l’Autorità ha ordinato di non diffondere o continuare la pratica commerciale descritta al punto II del Provvedimento in quanto costituirebbe una pratica commerciale scorretta ai sensi degli artt. 21, comma 1, lett. b) e g), 22, comma 1, 24 e 25, lett. d) del Codice del Consumo e “(…) di irrogare a L Italia s.r.l. una sanzione amministrativa pecuniaria di 300.000 € (trecentomila euro)”;

2) di ogni altro atto e/o provvedimento presupposto, consequenziale e/o connesso a quello di cui al punto 1).


Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, con la relativa documentazione;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del 28 marzo 2018 il dott. Ivo Correale e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

Con rituale ricorso a questo Tribunale, la L Italia s.r.l. (“L”) chiedeva l’annullamento, previa sospensione, del provvedimento in epigrafe con il quale l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (“AGCM“ o “Autorità”) aveva rilevato la violazione degli artt. 21, comma 1, lett. b) e g), 22, comma 1, 24 e 25, lett. d) del d. lgs. 6.9.2005, n. 206 (“Codice del Consumo” o “Codice”) nelle specifiche condotte ivi individuate.

In sintesi, l’Autorità, su segnalazione di un’associazione di consumatori, aveva avviato un’istruttoria nei confronti della ricorrente, avente un triplice oggetto riguardante specifiche condotte imputate all’impresa, quali: a) la messa a disposizione di informazioni ambigue e/o carenti fornite ai consumatori, sul sito internet aziendale e presso i “punti-vendita”, sulla garanzia legale di conformità, con riguardo all’oggetto, alla durata, ai limiti e alle condizioni dell’assistenza “post-vendita”;
b) l’omissione di informazioni, sul sito internet aziendale, sulla garanzia legale in questione, limitandosi l’operatore commerciale a evidenziare solo la sua garanzia “convenzionale”, attraverso un messaggio che la enfatizzava e che era riportato nella sua integralità;
c) le modalità di prestazione della garanzia legale stessa e, specificamente, il rinvio dei consumatori ai “Centri di Assistenza Tecnica (“CAT”) del produttore del bene difettoso, prospettando il vantaggio di una maggiore semplicità e rapidità delle procedure di riparazione, nonché il rifiuto di prendere in consegna il bene finale, a cui si aggiungeva l’assenza di specifiche informazioni sulla possibilità per il consumatore, in caso di difetto di conformità, di poter beneficiare comunque della garanzia legale.

Il provvedimento impugnato, quindi, dando atto della fase istruttoria, con indicazione dell’”iter” del procedimento, delle evidenze acquisite, delle misure adottate da L nel corso del procedimento, delle argomentazioni difensive di quest’ultima e del contenuto del parere dell’Autorità per le Garanzie nella Comunicazioni (“AgCom”), concludeva nel senso di riscontrare la conferma di quanto contestato in avvio di procedimento in merito alle comunicazioni ingannevoli e incomplete in ordine alla esistenza della garanzia legale di durata biennale, in particolare riferimento alla “garanzia legale di conformità”. Inoltre, era risultato che L aveva assunto regole sulla prestazione della garanzia legale non in linea con il dettato normativo e idonee a limitare considerevolmente la possibilità per il consumatore di esercitare l’esecuzione della garanzia, non prestandola direttamente ma rinviando il consumatore al CAT competente e limitandosi a informare quest’ultimo solo della possibilità di “reso” per prodotto difettoso e/o non piaciuto nei trenta giorni dall’acquisto, in virtù della garanzia convenzionale.

Non era rinvenuta, poi, alcuna organizzazione e proceduralizzazione per la gestione dei prodotti difettosi, dato che L comunicava, in tali casi, al cliente di rivolgersi direttamente al CAT o che era possibile avvalersi della garanzia attraverso i propri centri di assistenza.

In sostanza, era emerso che L si rifiutava di prendere in consegna il prodotto difettoso in filiale e rinviava dapprima al “call center” e poi al CAT, senza quindi fornire direttamente la garanzia legale di conformità.

Gli argomenti difensivi del professionista erano ritenuti non condivisibili, con dettagliata motivazione, e quindi, riscontrata la carenza di diligenza professionale sul punto, l’AGCM, illustrando le modalità di quantificazione e richiamando anche l’alto numero di reclami proposti per prodotti c.d. “non food” da parte della clientela, irrogava la sanzione pecuniaria indicata in epigrafe, previa inibitoria alla diffusione o continuazione della pratica commerciale scorretta censurata.

La ricorrente, quindi, impugnava tale provvedimento, lamentando, in sintesi, quanto segue.

I MOTIVO: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 20, 21, c.1, lett. b) e g), 22, c.1 e 130 del Codice del Consumo. Violazione degli articoli 3 e 6 della L. n. 241/1990. Violazione dell’art. 97 della Costituzione. Violazione dei principi di trasparenza, buona amministrazione e di imparzialità dell’azione amministrativa. Eccesso di potere per travisamento ed errata valutazione dei presupposti di fatto e di diritto. Carenza e/o inadeguatezza della motivazione. Carenza istruttoria. Contraddittorietà. Ingiustizia ed illogicità manifesta.

Richiamando gli articoli 128 e seguenti del Codice del Consumo, L evidenziava che l’Autorità aveva mal interpretato le norme ritenute violate, dato che il consumatore comunque non risultava indotto a fare la sua scelta commerciale, vale a dire a comprare il prodotto, in seguito alla condotta censurata nel provvedimento impugnato.

L’AGCM aveva adottato una motivazione affetta da evidente contraddittorietà, dato che il comportamento contestato non si riferiva al difetto assoluto di prestare la garanzia legale ma solo a pretesi ostacoli all’esercizio della stessa, con conseguente riflesso sulla quantificazione della sanzione irrogata.

Per quanto riguardava gli obblighi di tipo procedurale, relativi alla dichiarata mancanza di organizzazione e proceduralizzazione per la gestione dei prodotti difettosi, culminata, in particolare, nel rifiuto di prendere in consegna il prodotto presso la filiale in cui era stato acquistato, L ricordava che la legge non disciplinava nel dettaglio le modalità con cui il venditore debba adempiere ai propri obblighi in materia di garanzia legale, nulla dicendo in merito a quali fossero le modalità di messa a disposizione del bene al venditore da parte del consumatore per la verifica del difetto e la successiva eventuale riparazione o sostituzione.

Il Codice, infatti, per la ricorrente, si limita a fissare il principio generale per cui le riparazioni o le sostituzioni, oltre a dover avvenire entro un “congruo termine”, devono essere effettuate in modo tale da non arrecare “notevoli inconvenienti” al consumatore, il quale deve godere della gratuità della fruizione della garanzia legale, senza obbligare a prendere “fisicamente” in consegna nel “punto vendita” il prodotto difettoso, gravando il consumatore soltanto dell’onere di denunciare entro due mesi dalla scoperta il vizio e di mettere a disposizione del venditore il bene, spettando invece a quest’ultimo di prendere in consegna il prodotto per accertare se vi fosse un difetto di conformità “ab origine” e, in tale caso, procedere con i rimedi di cui alla garanzia legale di conformità.

Tale regime deve attivarsi, quindi, sosteneva la ricorrente, solo attraverso la denuncia del consumatore, senza che sia sancito anche l’obbligo di accettare la riconsegna del prodotto presso il “punto vendita” in cui è stato acquistato. Ciò, per la ricorrente, era confermato già nella Direttiva n. 1999/44/CE, la quale, appunto, non prevede l’obbligo di consegna in filiale, anche perché tale obbligo potrebbe essere ipotizzato eventualmente solo nel caso di piccoli rivenditori al dettaglio, con un singolo “punto vendita”. La realtà commerciale di L, invece, vedeva la presenza di numerosi esercizi commerciali sparsi in tutt’Italia e la stessa ricorrente aveva sempre offerto ai propri clienti una serie di modalità di contatto (numero verde, “email”, pagina “Facebook”, sito Internet) attraverso le quali poter facilmente ottenere assistenza e far valere i propri diritti di cui alla garanzia legale di conformità né l’AGCM non aveva minimamente considerato tali numerose modalità alternative di contatto tra consumatore e professionista, sia per la denuncia del difetto sia per la messa a disposizione del bene. Quest’ultima poteva infatti avvenire anche attraverso il ritiro gratuito presso l’abitazione del consumatore ai fini della verifica sulla sussistenza delle condizioni di esercizio della garanzia in questione e tanto valeva anche per la riconsegna del bene riparato o sostituito, presso lo stesso o altro indirizzo scelto dal consumatore.

A ciò doveva aggiungersi che nulla vietava al medesimo venditore di appoggiarsi a terzi per adempiere ai propri obblighi di cui alla garanzia legale di conformità, per cui la ricorrente non riscontrava nella condotta censurata alcuna limitazione dei diritti del consumatore in argomento, evidenziando anzi la comodità offerta dalla su ricordata possibilità di ritiro/consegna a domicilio.

Per quanto riguardava la contestata omissione del riconoscimento della garanzia legale di conformità in quanto tale, la ricorrente contestava la conclusione dell’Autorità, secondo cui il cliente che si rivolgeva al “call center” gratuito di L si vedeva sistematicamente reindirizzare verso il CAT, dovendo sottostare alle differenze di procedure adottate da ciascuno di questi.

Infatti, come pure descritto nella memoria difensiva prodotta nel corso del procedimento, nell’ipotesi in cui il consumatore doveva avvalersi di un CAT straniero che fosse, per qualunque motivo, impossibilitato ad espletare il servizio, ovvero su semplice richiesta del consumatore stesso, la relativa assistenza era prestata direttamente dal “servizio clienti” di L, secondo le modalità che erano illustrate in dettaglio e tali modalità, secondo la presentazione degli “impegni” in data 17 gennaio 2014, erano state estese da allora anche nell’ipotesi di CAT italiano. Nell’ipotesi di CAT straniero, poi, dalla documentazione depositata, risultava che comunque non era il consumatore a contattarlo bensì il suddetto “servizio clienti”, a cui comunque il cliente era reindirizzato qualora non fosse stato soddisfatto dal servizio del detto CAT.

A ciò doveva aggiungersi che la ricorrente non aveva mai negato ai propri clienti il diritto di vedersi rimborsare il prezzo del prodotto durante il periodo di vigenza della garanzia legale, ai sensi dell’art. 130, comma 7, del Codice.

Da qui derivava la conseguenza dell’erronea conclusione dell’AGCM per la quale la ricorrente aveva frapposto ingiustificati ostacoli all’esercizio della garanzia legale, non potendo rilevare la sola circostanza per cui L, non disponendo di propri centri di assistenza tecnica, si “appoggiava” a terzi per assicurare ai propri clienti tale servizio ai fini della prestazione della garanzia di legge.

La ricorrente, poi, lamentava anche che gli “impegni” da lei proposti nella suddetta data del gennaio 2014 erano stati rigettati, a differenza di quanto accaduto per altre catene commerciali di vendita a rilevanza nazionale.

Per quanto riguardava l’elevato numero di reclami aventi ad oggetto prodotti “non food” promozionali, a cui faceva cenno l’AGCM, la ricorrente rilevava che tali reclami comprendevano anche fattispecie del tutto diverse da quelle proprie a fondamento di una giustificata richiesta di garanzia legale, fermo restando che i reclami presi in considerazione (in numero di 1600) non potevano considerarsi in assoluto “elevati”, tenuto conto dell’ampiezza della struttura di vendita di L sull’intero territorio nazionale.

Inoltre, per quel che riguardava il lamentato difetto di informazione, la ricorrente evidenziava che la disciplina delle pratiche commerciali scorrette aveva come obiettivo, in generale, la tutela del consumatore “medio”, per cui gli obblighi imposti al professionista devono essere parametrati e proporzionati in relazione alla categoria dei soggetti che la norma intende tutelare. Nel caso di specie, l’Autorità non aveva preso in considerazione il fatto che un consumatore “medio” deve essere già informato circa i propri diritti di cui alla garanzia legale e quindi nulla dovrebbe essere comunicato dal professionista a costui sul punto.

In più, risultava che L, da qualche anno, tramite “poster” affissi alle casse, aveva richiamato la circostanza che tutti gli articoli erano coperti da una garanzia minima di due anni, per cui, anche sotto tale profilo, non si comprendeva per quale ragione le informazioni fornite dalla ricorrente in argomento sarebbero state inidonee.

Da ultimo, la ricorrente rilevava che gli impegni prospettati erano stati rigettati con comunicazione del 18 febbraio 2014, prima però che le disposizioni di attuazione del d.lgs. n. 21/2014 fossero entrate in vigore.

II. MOTIVO: Violazione ed erronea applicazione degli artt. 20, 24 e 25 del Codice del Consumo. Violazione degli articoli 3 e 6 della L. n. 241/1990. Violazione dell’art. 97 della Costituzione. Violazione dei principi di trasparenza, buona amministrazione ed imparzialità dell’azione amministrativa. Eccesso di potere per travisamento ed errata valutazione dei presupposti di fatto e di diritto. Carenza e/o inadeguatezza della motivazione. Carenza istruttoria. Contraddittorietà. Ingiustizia ed illogicità manifesta ”.

La ricorrente evidenziava che l’AGCM aveva anche ritenuto che la pratica commerciale in questione fosse definibile come “aggressiva” e pertanto vietata ai sensi degli artt. 24 e 25 del Codice.

In realtà, L non aveva posto in essere alcun comportamento che avesse indotto il consumatore ad acquistare il prodotto ritenendo sussistente un requisito di un servizio in realtà inesistente, secondo l’impostazione delle ricordate norme.

Era del tutto assente l’“indebito condizionamento”, come definito anche nella Direttiva n. 2005/29/CE, in termini di consapevolezza dell’abuso da parte del professionista di una situazione di dipendenza economica o psicologica del consumatore nei suoi confronti o nei confronti di soggetti di cui si avvale come ausiliari, con una valutazione dell’elemento soggettivo in capo all’operatore che nel caso di specie era del tutto assente, come rinvenibile in altri precedenti della stessa Autorità e del giudice amministrativo, che erano ampiamente richiamati.

III MOTIVO: Violazione e falsa applicazione dell’art. 14 del “Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di pubblicità ingannevole e comparativa, pratiche commerciali scorrette, clausole vessatorie” adottato dall’Autorità con delibera dell’8 agosto 2012. Carenza istruttoria. Violazione dei principi di trasparenza, buona amministrazione ed imparzialità dell’azione amministrativa. Eccesso di potere per travisamento ed errata valutazione dei presupposti di fatto e di diritto. Contraddittorietà. Ingiustizia ed illogicità manifesta. Disparità di trattamento ”.

La ricorrente contestava le modalità di svolgimento dell’ispezione del 4 dicembre 2013, le risultanze istruttorie raccolte in tale occasione e le modalità di accertamento delle asserite violazioni.

Risultava infatti che nell’ambito dell’ispezione erano stati raccolti soltanto documenti a sostegno della tesi dell’Autorità e non documenti favorevoli alla posizione della ricorrente;
inoltre, era stata verbalizzata solamente la dichiarazione rilasciata dal responsabile “DG vendite”, nonostante anche altri dipendenti del reparto acquisti, operatori del servizio clienti, fossero stati intervistati in merito alle garanzie applicate.

La decisione di cui al provvedimento impugnato, poi, si basava esclusivamente sulle evidenze acquisite durante l’ispezione e non aveva preso in considerazione le argomentazioni difensive e la documentazione prodotta da L nel corso del procedimento, con evidente disparità di trattamento rispetto ad altri procedimenti analoghi conclusi - con l’accettazione degli impegni proposti e eventualmente integrati - nei confronti di altri operatori.

IV MOTIVO: Violazione e falsa applicazione dell’art. 27, commi 9 e 13 del Codice del Consumo e degli articoli 8 e 11 della Legge n. 689/1981. Eccesso di potere: contraddittorietà ed insufficienza della motivazione. Ingiustizia manifesta .”

L contestava anche l’entità della sanzione come irrogata, sia sotto il profilo oggettivo che sotto il profilo soggettivo.

Per quanto riguardava il primo, la ricorrente contestava la definizione di “leader” del mercato con cui l’aveva contraddistinta l’AGCM, in quanto non rientrava certamente tra i primi 10 gruppi italiani sulla base del fatturato, tra l’altro elemento decisivo per la determinazione della sanzione, e ciò anche per quanto riguardava l’Europa nonché il settore “Discount”. Era quindi da escludere il carattere di gravità che giustificava la sanzione irrogata.

Per quanto riguardava il secondo profilo, la sanzione appariva sproporzionata in quanto, nel caso di specie, poteva, tutt’al più, configurarsi un’ipotesi di errore colposo, accompagnata, però, dalla circostanza che vi era stata una piena attività di L per eliminare o attenuare le conseguenze della violazione, ai sensi dell’art. 11 l. n. 689/81.

Inoltre, il provvedimento impugnato non recava alcuna indicazione circa i criteri applicati nella determinazione della somma come individuata, tenendo anche conto che era stata censurata un’azione o un’omissione che aveva dato luogo a più violazioni della stessa disposizione, con la conseguenza che l’AGCM aveva indebitamente adottato il criterio del “cumulo materiale delle sanzioni” invece di aumentare sino al triplo la sanzione più grave (75.000 x 3), con la conseguenza per cui la somma finale non avrebbe potuto eccedere i 225.000 euro.

Si costituiva in giudizio l’AGCM, affidando a memoria per la camera di consiglio cautelare l’esposizione delle tesi orientate a evidenziare l’infondatezza del ricorso.

Rinviata la causa, su istanza di parte, alla trattazione di merito, in prossimità di questa L e l’AGCM depositavano memorie a ulteriore illustrazione delle proprie tesi e la causa era trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 28 marzo 2018.

DIRITTO

Come già anticipato nell’esposizione “in fatto”, con il provvedimento impugnato l’Autorità ha ritenuto di individuare pratiche commerciali scorrette in capo a L, sotto due distinti profili consistiti: a) nella mancata e/o non corretta informazione del consumatore in merito alla garanzia legale, in quanto - né nei “punti vendita” né sul sito internet aziendale - erano indicati oggetto, durata, limiti e condizioni di assistenza “ex post”, così come nella sezione del sito internet “Informazioni per il cliente- I Nostri Servizi” era assente ogni riferimento alla garanzia legale, rinvenendosi soltanto l’enfatizzazione della garanzia convenzionale;
b) nello svolgimento delle procedure di prestazione concreta della garanzia legale, che erano ritenute idonee a limitare l’esercizio dei diritti dei consumatori previsti dal Codice, facendoli desistere dalla richiesta di prestazioni di cui a tale forma di garanzia e condizionandone la libertà di scelta o comportamento.

Ebbene, nella presente fattispecie vengono primariamente in rilievo gli artt. 128, 129, 130, 132 e 133 del Codice, che si riportano per la parte di interesse;

Art. 128: “… Ai fini del presente capo si intende per:… c) garanzia convenzionale ulteriore: qualsiasi impegno di un venditore o di un produttore, assunto nei confronti del consumatore senza costi supplementari, di rimborsare il prezzo pagato, sostituire, riparare, o intervenire altrimenti sul bene di consumo, qualora esso non corrisponda alle condizioni enunciate nella dichiarazione di garanzia o nella relativa pubblicità …”;

Art. 129: “… Il venditore ha l'obbligo di consegnare al consumatore beni conformi al contratto di vendita… ”;

Art. 130: “ Il venditore è responsabile nei confronti del consumatore per qualsiasi difetto di conformità esistente al momento della consegna del bene.

In caso di difetto di conformità, il consumatore ha diritto al ripristino, senza spese, della conformità del bene mediante riparazione o sostituzione, a norma dei commi 3, 4, 5 e 6, ovvero ad una riduzione adeguata del prezzo o alla risoluzione del contratto, conformemente ai commi 7, 8 e 9.

Il consumatore può chiedere, a sua scelta, al venditore di riparare il bene o di sostituirlo, senza spese in entrambi i casi, salvo che il rimedio richiesto sia oggettivamente impossibile o eccessivamente oneroso rispetto all'altro …;

Le riparazioni o le sostituzioni devono essere effettuate entro un congruo termine dalla richiesta e non devono arrecare notevoli inconvenienti al consumatore, tenendo conto della natura del bene e dello scopo per il quale il consumatore ha acquistato il bene.

Le spese di cui ai commi 2 e 3 si riferiscono ai costi indispensabili per rendere conformi i beni, in particolare modo con riferimento alle spese effettuate per la spedizione, per la mano d'opera e per i materiali.

Il consumatore può richiedere, a sua scelta, una congrua riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto ove ricorra una delle seguenti situazioni… ”;

Dopo la denuncia del difetto di conformità, il venditore può offrire al consumatore qualsiasi altro rimedio disponibile, con i seguenti effetti:

a) qualora il consumatore abbia già richiesto uno specifico rimedio, il venditore resta obbligato ad attuarlo, con le necessarie conseguenze in ordine alla decorrenza del termine congruo di cui al comma 5, salvo accettazione da parte del consumatore del rimedio alternativo proposto;

b) qualora il consumatore non abbia già richiesto uno specifico rimedio, il consumatore deve accettare la proposta o respingerla scegliendo un altro rimedio ai sensi del presente articolo.

Un difetto di conformità di lieve entità per il quale non è stato possibile o è eccessivamente oneroso esperire i rimedi della riparazione o della sostituzione, non dà diritto alla risoluzione del contratto.

Art. 132: “ Il venditore è responsabile, a norma dell'articolo 130, quando il difetto di conformità si manifesta entro il termine di due anni dalla consegna del bene.

Il consumatore decade dai diritti previsti dall' articolo 130, comma 2, se non denuncia al venditore il difetto di conformità entro il termine di due mesi dalla data in cui ha scoperto il difetto. La denuncia non è necessaria se il venditore ha riconosciuto l'esistenza del difetto o lo ha occultato …”;

Art. 133: “ La garanzia convenzionale vincola chi la offre secondo le modalità indicate nella dichiarazione di garanzia medesima o nella relativa pubblicità …”.

Da tali premesse legislative emerge chiaramente la conferma di quanto riportato nel provvedimento impugnato, secondo cui il consumatore è titolare dei diritti previsti dalla garanzia legale di conformità e la garanzia “convenzionale”, distinta da essa, lascia impregiudicati tali diritti, così che il richiamo della stessa ad opera del venditore non esime quest’ultimo dal rappresentare comunque la sussistenza di quella “legale”.

La modalità di presentazione del servizio “di garanzia”, concentrandosi solo sul contenuto aggiuntivo delle prestazioni “convenzionali” offerte (“rimborso garantito”, in relazione alla restituzione del prodotto entro i primi trenta giorni dall'acquisto) e, soprattutto, omettendo di richiamare quali fossero i diritti riconosciuti dalla garanzia legale (biennale” di conformità), si è rivelata effettivamente gravemente lacunosa ed ingannevole nei termini indicati dall’Autorità nel provvedimento impugnato.

Infatti, il profilo di decettività del messaggio informativo è stato legittimamente individuato nella già evidenziata circostanza che la carente informazione sui contenuti tipici della garanzia legale risultava essere stata utilizzata strumentalmente dalla società ricorrente per far apparire - non correttamente - come appetibile ed estremamente vantaggioso per il consumatore l’acquisto del bene solo per la presenza della ricordata garanzia “Rimborso garantito”, presentata come unica soluzione al fine di mettersi al sicuro da ogni rischio connesso anche al malfunzionamento del prodotto acquistato.

Non può trovare condivisione, dunque, l'affermazione di parte ricorrente secondo la quale nessuna disposizione del Codice, ovvero della disciplina normativa europea, impone di descrivere compiutamente condizioni e termini della garanzia legale, comparandoli, o, comunque, evidenziandone specificatamente i profili aggiuntivi o le diversità rispetto alla garanzia convenzionale.

Il riscontro del carattere ingannevole del messaggio, infatti, deve essere valutato con riferimento al suo contesto complessivo, dovendo al riguardo rilevarsi l'enfasi attribuita al vantaggio del “Rimborso garantito”, quale servizio unico esistente, inducendo così il consumatore a ritenere l'assenza di qualsivoglia garanzia legale di conformità.

Il gravato giudizio di scorrettezza della pratica in esame non si traduce, contrariamente a quanto affermato da parte ricorrente, quindi, nell'imposizione al professionista di un onere informativo eccessivo o ultroneo rispetto a quello dovuto sulla base dell’ordinario canone di diligenza.

Deve, infatti, qui essere ancora ricordato come sia lo stesso Codice, all’art. 2, comma 2, lett. c, ad includere, tra i principi fondamentali della disciplina ivi contenuta, il diritto dei consumatori ad essere correttamente informati, stabilendo espressamente la citata disposizione che i consumatori hanno diritto ad “ un'adeguata informazione e ad una corretta pubblicità” ed ancora, alla lettera e), “alla correttezza, alla trasparenza ed all'equità nei rapporti contrattuali ”.

Inoltre, ancor più nel dettaglio, l'art. 5, comma 3, prevede che “ le informazioni al consumatore, da chiunque provengano, devono essere adeguate alla tecnica di comunicazione impiegata ed espresse in modo chiaro e comprensibile, tenuto conto anche delle modalità di conclusione del contratto o delle caratteristiche del settore, tali da assicurare la consapevolezza del consumatore ”.

E pertanto, l'ingannevolezza di una pratica, riguardata sotto lo specifico profilo dell’omissione informativa, non discende solo dalla mancata allegazione di informazioni rilevanti, ma anche dalle modalità grafiche ed espressive con cui gli elementi del prodotto vengono rappresentati, dalle espressioni testuali, dalle stesse modalità di presentazione del prodotto e dalle scelte in ordine all'enfatizzazione di alcuni degli elementi.

L'onere di completezza e chiarezza informativa imposto dalla normativa di settore ai professionisti richiede, in sostanza, alla stregua del canone di diligenza, che ogni comunicazione ai consumatori rappresenti i caratteri essenziali di quanto la stessa mira a reclamizzare.

Sotto tale profilo, ad integrare una pratica commerciale scorretta ai sensi del Codice, può rilevare ogni omissione informativa che, se del caso, combinandosi con la enfatizzazione di taluni elementi del servizio offerto, renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell'offerta del prodotto, inducendo in tal modo in errore il consumatore e condizionandolo nell'assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato (Corte di Cassazione, SSUU, n.794/2009).

Risultano così prive di fondamento ed inidonee ad attenuare la portata dell'onere di diligenza gravante sul professionista, nella specie non ottemperato, i richiami di parte ricorrente alla disciplina dettata dall'art. 133 del Codice, relativa alla garanzia convenzionale, e alla Direttiva 1999/44/CE, in base alla quale sarebbe richiesto un mero riferimento alla garanzia legale, senza che la stessa debba essere illustrata nei suoi contenuti.

Sul punto il Collegio ritiene che la descrizione dei contenuti della garanzia legale nella specie non sia imposta da una specifica disposizione normativa ma discenda quale “corollario” dal principio di completezza informativa, una volta che il professionista si sia determinato ad offrire al consumatore una forma di garanzia che si sovrappone parzialmente, sul piano contenutistico, alla garanzia legale (Cons. Stato, Sez. VI, 17.1115, n. 5250).

Senza dimenticare che le stesse conclusioni si basano sul dettato della medesima direttiva 1999/44/CE che, al “considerando 21”, impone la dichiarazione che la garanzia convenzionale lascia impregiudicati i diritti del consumatore previsti dalla legge al fine di evitare che lo stesso sia indotto in errore (Cons. Stato, Sez. VI, 5.8.13, n. 4085).

La fattispecie esaminata dall’AGCM, quindi, ben corrispondeva anche alla condotta sanzionata ai sensi dell'art. 25, comma 1, lettera d), del Codice, risultando evidenziata una complessiva strategia commerciale ed informativa volta ad opporre ostacoli all'esercizio dei diritti del consumatore, non facendo alcun cenno all’esistenza della garanzia legale “di conformità”.

Inoltre, appare corretto ritenere – come operato dall’Autorità - che l’ostacolo all'esercizio dei diritti spettanti ai consumatori sia stato ricondotto al complessivo atteggiamento adottato quale professionista da L, predisposto a livello di politica commerciale ed attuato - sulla base di elementi istruttori - nella fase di esecuzione del contratto al momento della richiesta di assistenza, laddove gli obblighi ricadenti sul venditore, nell'ambito della prestazione della garanzia legale (per i due anni successivi alla consegna del prodotto), avrebbero imposto a L un comportamento maggiormente lineare, improntato a chiarezza informativa, tale da rendere agevole per il consumatore l'esercizio dei propri diritti, così come espressamente sancito dal Codice e dalla presupposta normativa di fonte europea.

La tutela apprestata dal Codice a favore del consumatore, infatti, prevede che in capo a costui è previsto il solo onere di presentare la denuncia di difetto di conformità entro due mesi dalla relativa scoperta, così potendo fruire di uno strumento di tutela agile e completamente gratuito, per cui, conformemente a tale ricostruzione dell'ambito della modalità di fruizione della garanzia legale, deve concludersi che questa è volta a garantire un livello “elevato” di protezione del consumatore, facendo ritenere che gravi senz’altro sul venditore l'onere di prendere in consegna direttamente il bene nel corso dell'intera durata della garanzia legale, al fine di effettuare la diagnosi in ordine alle cause del difetto riscontrato e di procedere poi al ripristino della conformità del bene (a quanto dichiarato in contratto) in presenza di un vizio esistente alla consegna (in quanto tale, estraneo alla sfera di responsabilità del consumatore).

Solo in questa “seconda fase” è, pertanto, possibile per il professionista avvalersi di terzi – compresi anche i c.d. “CAT” - dato che, qualora dovesse risultare un difetto di non conformità del prodotto, è comunque il venditore che, avendo fornito un bene avente qualità diverse da quelle promesse, risulta inadempiente rispetto alla corretta esecuzione dell'obbligazione che si è assunto con il contratto di vendita, gravando sullo stesso (quale soggetto debitore dell’obbligazione, ai sensi dell’art. 1218 c.c.) l’onere di sopportare le conseguenze di tale “inesatta” esecuzione.

Non possono essere considerati come validi strumenti alternativi, quindi, quelli elencati dalla ricorrente, anche riferendosi al ritiro/consegna presso il domicilio o alla successiva intermediazione con i CAT da parte dell’organizzazione aziendale di L, derivando l’obbligo primario del professionista di prendere in consegna il prodotto in filiale direttamente dall’interpretazione legislativa sopra evidenziata, come applicata correttamente dall’AGCM.

Né può essere ugualmente condivisibile il richiamo alla circostanza che l’obbligo di ritiro in filiale varrebbe solo per gli operatori commerciali “monosede”, dato che ciò non è specificato nel Codice e, anzi, proprio la capillare diffusione sul territorio di L rendeva più agevole il rapporto diretto con il consumatore.

Che la ricorrente abbia collocato nei pressi delle “casse” presenti nei “punti vendita” un “poster” contenente il richiamo alla sussistenza della garanzia legale non è, poi, circostanza dirimente, in quanto l’AGCM ha contestato l’omissione informativa suddetta anche per il sito internet, idoneo a raggiungere comunque un alto numero di consumatori, prima ancora che questi si rechino in filiale.

Non può neanche trovare condivisione la tesi della ricorrente, secondo cui il consumatore “medio” dovrebbe comunque essere già informato della sussistenza della garanzia legale “di conformità”, stante la genericità di tale affermazione, che peraltro presuppone una conoscenza giuridica che di norma i consumatori non possiedono e, pertanto, aggrava l'asimmetria informativa che già caratterizza i rapporti tra questi ultimi e i professionisti (Tar Lazio, Sez. I, 16.5.12 n. 4455, 4456, 4457).

Nemmeno ha valore dirimente la circostanza per la quale non vi sarebbero state rilevanti richieste di intervento diretto da parte di specifici consumatori, dato che in merito il Collegio non può che richiamare la conclusione giurisprudenziale ormai pacifica, per la quale l’illecito consumeristico è un illecito “di pericolo” e, come affermato in più occasioni, ai fini dell’illiceità di una pratica commerciale ai sensi del Codice, non occorre dimostrare che essa abbia avuto una concreta attuazione pregiudizievole per i consumatori, essendo sufficiente una sua lesività potenziale tale da ascriverla nell’ambito dell’illecito, non già di danno, ma – appunto - di “mero pericolo” (da ultimo: Cons. Stato, Sez. VI, 16.3.18, n. 1670;
19.9.17, n. 4878, 6.9.17, n. 4245 e 16.8.17, n. 4011).

Inoltre, nessun rilievo può assumere il richiamo a situazioni riguardanti altre catene di vendita commerciale, dato che non risulta dimostrata dalla ricorrente la perfetta sovrapponibilità delle fattispecie considerate negli altri casi, fermo restando che l’eventuale erroneità dell’AGCM nel non censurare condotte analoghe o nell’accogliere impegni in merito, non potrebbe costituire un’esimente nel caso di specie, ove è in esame solo lo specifico provvedimento impugnato, in riferimento alla normativa di settore applicabile.

Inoltre, valga quanto già precisato da questa Sezione, secondo cui la fisiologica complessità e peculiarità delle valutazioni compiute in materia dall’Autorità, in relazione alle quali, pur in presenza di elementi di analogia, risulta ordinariamente esclusa l’identità dei casi, fa sì che una diversa conclusione non sia idonea di per sé a tradursi, come “tertium comparationis”, in un vizio di legittimità della valutazione negativa intervenuta in una diversa ipotesi (da ultimo: TAR, Lazio, Sez. I, 8.2.18, n. 1523 ma già: 9.1.15, n. 238 e 6.6.08, n. 5578).

Così pure nessun rilievo può avere la circostanza legata al completo rimborso del costo del prodotto al consumatore che ne avesse fatto richiesta, dato che non era questo il profilo contestato dall’AGCM nel procedimento in esame.

Sulla conformità del rigetto degli “impegni” alla normativa allora vigente, di cui all’ultima censura del primo motivo di ricorso, fermo restando quanto sarà in prosieguo specificato, il Collegio, in primo luogo, osserva che in realtà il rigetto degli impegni non si è fondato sul richiamo all’applicazione del d.lgs. 21/2014 ma su una più generale considerazione, fondata sull’interesse “… all’accertamento dell’eventuale infrazione, anche al fine di porre in essere una efficace attività deterrente e di monito per gli operatori a tre anni dalla notevole attività di “enforcement” già svolta sulla specifica tematica ” (provvedimento di rigetto del 18.2.2014).

Inoltre, si evidenzia che il rigetto degli impegni è espressione di ampio potere discrezionale e sull’ampiezza dei poteri esercitati dall’AGCM in materia di valutazione degli impegni la giurisprudenza si è più volte pronunciata, rilevando come anche in materia di pratiche commerciali scorrette, l'AGCM è chiamata a valutare non solo l'idoneità delle misure correttive proposte ma anche la sussistenza di un rilevante interesse pubblico all'accertamento dell'eventuale infrazione e, quindi, prima ancora, la stessa opportunità di preferire una procedura negoziata a quella di infrazione, per cui l'interesse dell'Amministrazione ad irrogare un'ammenda, attesa la funzione deterrente e di monito per gli operatori rivestita da quest'ultima, giustifica di per sé il rigetto degli impegni, attese le finalità di interesse pubblico connesse all'accertamento dell'eventuale infrazione (“ex multis”, TAR Lazio, Sez. I, 10.12.15, n. 13821).

Chiarito tutto ciò in relazione al primo motivo di ricorso e alla sua infondatezza, analogamente il Collegio conclude per il motivo successivo, secondo quanto sopra precisato in relazione alla contestazione della qualificazione della pratica censurata come “aggressiva”, ove è stato anticipato che la fattispecie esaminata dall’AGCM ben corrispondeva anche alla condotta sanzionata ai sensi dell'art. 25, comma 1, lettera d), del Codice, risultando evidenziata una complessiva strategia commerciale ed informativa volta ad opporre ostacoli all'esercizio dei diritti del consumatore, non essendosi fatto alcun cenno, da parte del professionista, all’esistenza della garanzia legale “di conformità”.

Inoltre, appare corretto ritenere – come operato dall’Autorità - che l’ostacolo all'esercizio dei diritti spettanti ai consumatori sia stato ricondotto al complessivo atteggiamento adottato quale professionista da L, predisposto a livello di politica commerciale ed attuato - sulla base di elementi istruttori - nella fase di esecuzione del contratto al momento della richiesta di assistenza, laddove gli obblighi ricadenti sul venditore, nell'ambito della prestazione della garanzia legale, (ovvero per i due anni successivi alla consegna del prodotto), avrebbero imposto a L un comportamento maggiormente lineare, improntato a chiarezza informativa, tale da rendere agevole per il consumatore l'esercizio dei propri diritti, così come espressamente sancito dal Codice e dalla presupposta normativa di fonte europea.

Al consumatore, quindi, sono stati opposti ostacoli (non contrattuali) al fine di esercitare un proprio diritto contrattuale, nel non consentire la consegna in filiale del prodotto e nell’omissione di informazioni rilevanti sul punto (TAR Lazio, Sez. I, 16.10.17, n. 10360).

Secondo l’orientamento da tempo manifestato dalla Sezione (TAR Lazio, Sez. I, 14.4.14, n. 4015), il predetto obbligo di diligenza non si traduce comunque nell'imposizione al professionista di un “indebito onere informativo ulteriore”, alla luce del complessivo contesto legislativo, in base al quale ai consumatori devono essere fornite informazioni adeguate per poter apprezzare la convenienza dei servizi aggiuntivi rispetto alla garanzia legale. Pertanto, i professionisti devono esporre in modo chiaro, comprensibile e tempestivo le informazioni rilevanti di cui i consumatori hanno bisogno per fare una scelta informata e non possono indurli in errore sull’assistenza post-vendita, sul diritto di sostituzione o riparazione ai sensi della direttiva 1999/44/CE e sui diritti aggiuntivi offerti a un costo aggiuntivo (TAR Lazio, Sez. I, 20.1.10 n. 633 e 13.12.10 n. 36119).

Per quanto riguarda il terzo motivo di ricorso, il Collegio rileva che il provvedimento impugnato dà ampio conto dell’attività istruttoria svolta e delle argomentazioni difensive dell’impresa, evidenziandosi nel suddetto che la decisione dell’AGCM non si è fondata solo sulle risultanze “ispettive” ma su un esame generale della fattispecie, pur dopo la considerazione dettagliata delle tesi del professionista e della documentazione offerta in fase istruttoria, per come esplicitamente descritto.

Sulle contestazioni di cui al quarto motivo, il Collegio sottolinea che, in linea di diritto, l'art. 27, comma 9, del Codice prevede che l'Autorità, con il provvedimento che vieta la pratica commerciale censurata, dispone l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da un minimo edittale di Euro 5.000,00 ad un massimo di Euro 5.000.000,00, tenuto conto della gravità e della durata della sanzione, e che, per il rinvio operato dall'art. 27, comma 13, del Codice del consumo alle disposizioni della L. n. 689 del 1981 , in particolare al capo I, sezione I, l'Autorità deve altresì tenere conto dei criteri di quantificazione previsti dalla legge citata e, in particolare, dall'art. 11 (la gravità della violazione, l'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, la personalità dell'agente e le condizioni economiche dell'impresa).

Ebbene, nel caso di specie il provvedimento sanzionatorio contiene una esaustiva motivazione a sostegno della determinazione della sanzione nell’importo ivi indicato, tenendo conto dell'importanza dell'operatore – appartenente a un gruppo “multinazionale” - nel settore della vendita al dettaglio nel segmento “discount”, della gravità delle violazioni (articolata in una pluralità di comportamenti, quali omissione di informazioni rilevanti e mancata assistenza diretta) che risultano aver interessato un elevato numero di consumatori, anche tenuto conto della presenza su tutto il territorio nazionale e l’utilizzo del sito internet aziendale, nonché della durata delle violazioni, poste in essere a partire almeno dal 2012 e fino al 15 marzo 2014.

Non risulta, quindi, che il professionista sia stato qualificato “leader” del settore italiano, riferendosi tale indicazione di “leader” al solo gruppo multinazionale, mentre la circostanza che i 1600 reclami non siano ascrivibili tutti al settore “non food” non può assumere una consistenza dirimente al fine di diminuire la sanzione, contenuta comunque in un limite pari a un sedicesimo del massimo edittale, secondo una valutazione discrezionale dell’AGCM non caratterizzata da illogicità o sproporzione, per quanto detto.

L’apporto “migliorativo” del professionista, poi, è stato considerato ed esplicitamente richiamato per contenere la durata dell’infrazione.

Sul profilo soggettivo, in ordine alla asserita mancanza dell’elemento psicologico nella condotta posta in essere, il Collegio richiama il costante orientamento della giurisprudenza (Cons. Stato, Sez. VI, 29.3.11, n. 1897;
TAR Lazio, Sez. I, 18.4.12, n. 3503), secondo il quale, nelle sanzioni amministrative, è necessaria e sufficiente la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, senza che occorra la concreta dimostrazione del dolo o della colpa, giacché la norma pone una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso (TAR Lazio, Sez. I, 17.1.17, n. 765).

Per quanto riguarda, infine, la lamentata applicazione del principio del “cumulo”, il Collegio concorda con quanto osservato nelle difese dell’Autorità, secondo cui la pratica era unica, sia pure articolata nella pluralità di comportamenti sopra richiamati.

Dunque, anche in relazione all’attività di quantificazione della sanzione, il provvedimento impugnato risulta immune dai prospettati vizi e, conseguentemente, il ricorso deve essere respinto nella sua integralità.

Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

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