TAR Catania, sez. I, sentenza 2023-11-06, n. 202303282
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Pubblicato il 06/11/2023
N. 03282/2023 REG.PROV.COLL.
N. 00018/2018 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia
sezione staccata di Catania (Sezione Prima)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 18 del 2018, proposto da
-OMISSIS-, -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati D D L, C B, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio D D L in Catania, via Lago di Nicito n. 14;
contro
Regione Siciliana - Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana, Regione Siciliana - Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Siracusa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale Catania, domiciliataria ex lege in Catania, via Vecchia Ognina, 149;
per l'annullamento
- del provvedimento 12.10.2017 prot. n. -OMISSIS- della Sovrintendenza per i BB.CC.AA. di Siracusa di diniego di compatibilità paesaggistica;
- della circolare 06.07.2006 -OMISSIS- dell'Assessorato dei BB.CC.AA.
Visti il ricorso e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Siciliana - Assessorato Regionale dei Beni Culturali e dell'Identità Siciliana e della Regione Siciliana - Soprintendenza per i Beni Culturali e Ambientali di Siracusa;
Visti tutti gli atti della causa;
Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.;
Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 25 settembre 2023 il dott. Pancrazio Maria Savasta e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO e DIRITTO
I. I ricorrenti hanno esposto di aver chiesto e ottenuto dal Comune di Augusta la concessione edilizia n. -OMISSIS- per la costruzione di un fabbricato destinato a deposito.
Nel corso dell’esecuzione dei lavori hanno realizzato alcune opere in difformità al titolo edilizio, consistenti nell’ampliamento dell’immobile, nella realizzazione di una tettoria a servizio del parcheggio e nella costruzione di una piscina.
Con istanza del 2.12.2014, prot. n. -OMISSIS-, i deducenti, avendo acquistato una ulteriore area contigua a quella di pertinenza del fabbricato realizzato, nonché la relativa cubatura, hanno chiesto al Comune di Augusta il rilascio della concessione in sanatoria ex art. 36 del T.U. n. 380/2001 per le opere realizzate abusivamente.
Con istanza del 27.05.2017, la pratica è stata rimessa alla Soprintendenza di Siracusa per il parere di competenza.
Con nota prot. n. -OMISSIS- del 6.06.2017, la Soprintendenza ha comunicato ai ricorrenti il preavviso di rigetto, rilevando che le opere poste in essere non rientrano tra quelle sanabili ai sensi dell’art. 167, comma 4, d.lgs. 42/2004, vale a dire solo i “piccoli abusi che non abbiano comportato aumenti di superficie utile o volume, utilizzo di materiali in difformità a quelli già autorizzati e lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria ai sensi dell’art 3 del D.P:R. n. 380 del 06.07.2006”..
Nel termine assegnato, i ricorrenti hanno avanzato osservazioni.
Con provvedimento prot. n. -OMISSIS- del 12.10.2017, diretto al Comune e ai ricorrenti, la Soprintendenza ha specificato che le opere non sono sanabili perché l’abuso è stato realizzato dopo l’apposizione del vincolo, precisando poi che il parere negativo non si estende alla parte dell’immobile già autorizzata con la C.E. n-OMISSIS- del 23.08.2004, rilasciata dal Comune di Augusta.
Con l’unico motivo di gravame, i ricorrenti hanno chiesto sollevarsi questione di costituzionalità degli artt. 146 comma 4 e 167 comma 4 D. Lgs. 42/2004 per violazione degli artt. 3, 24, 42 e 97 Cost.
Secondo la prospettazione di parte, gli artt. 146, comma 4 e 167, comma 4 cit. lederebbero il principio di uguaglianza, in quanto la sanatoria degli immobili abusivi dipenderebbe unicamente dalla sussumibilità degli stessi nell’alveo delle tre ipotesi contemplate dall’art. 167 cit., con esclusione di ogni ulteriore valutazione circa l’eventuale compatibilità paesaggistica, alla luce delle concrete caratteristiche strutturali delle opere.
Inoltre, il combinato disposto delle cit. disposizioni violerebbe, altresì, il principio di “offensività”, quale canone del principio di proporzionalità e ragionevolezza, atteso che si configurerebbe come irragionevole e sproporzionata la sanzione della demolizione rispetto a una violazione la cui lesività non è stata oggetto di accertamento sul piano sostanziale e, pertanto, potrebbe anche non sussistere.
È vero che il diritto di proprietà, costituzionalmente protetto dall’art. 42 della Cost., può subire restrizioni a tutela del paesaggio, tuttavia è necessario che queste rispondano effettivamente ad obiettivi di interesse generale e non costituiscano, rispetto allo scopo perseguito, un intervento sproporzionato e inaccettabile che leda la sostanza stessa del diritto così garantito. In altri termini, può essere riconosciuto legittimo e proporzionale il sacrificio del diritto di proprietà a condizione che sia possibile accertare in concreto una lesione al paesaggio, valutazione di fatto impedita dal disposto normativo di cui all’art. 167 cit.
Inoltre, posto che le disposizioni denunciate precluderebbero alla Soprintendenza di accertare la compatibilità paesaggistica di opere ulteriori rispetto a quelle elencate, priverebbero conseguentemente il cittadino del diritto di difesa, poiché egli non sarebbe in grado di dimostrare l’inoffensività dell’attività abusiva.
In data 6.09.2018 si è costituito in giudizio l’Assessorato regionale dei beni culturali e dell’identità siciliana.
In vista dell’udienza di smaltimento, le parti hanno depositato memorie ex art. 73 c.p.a. a sostegno delle rispettive difese.
All’udienza di smaltimento del 25.09.2023 la causa è stata trattenuta per la decisione.
II. Il Collegio ritiene che la questione di costituzionalità sollevata dai ricorrenti sia manifestamente infondata.
Va premesso, in termini generali, che l’Ordinamento deve garantire comportamenti legittimi dei cittadini, tra i quali, certamente, non rientra l’attività edilizia abusiva, che, di per sé, dovrebbe essere sanzionata con il ripristino della situazione antecedente.
A ben vedere, infatti, la norma di cui si dubita la legittimità costituzionale è posta a vantaggio della proprietà, pur circoscrivendone le ipotesi di possibile sanatoria, solo che si osservi che la stessa – coerentemente con il principio della limitazione del godimento ai sensi dell’art. 42 Cost. – consente una sanatoria dell’attività abusiva, che, in linea di principio, si ribadisce, andrebbe sempre repressa.
Ciò posto, questo Tribunale ha già avuto modo di chiarire (cfr. TAR Catania, I, 20.12.2022, n. 3334) che a «seguito all’intervento correttivo apportato al Codice dei Beni culturali nel 2006, il sistema repressivo degli abusi commessi in area paesaggisticamente vincolata è stato irrigidito con l’introduzione della regola della non sanabilità ex post degli stessi, sia formali che sostanziali».
Il divieto generale di sanatoria rinviene la sua ragione giustificativa nell’esigenza di assicurare una tutela pregnante al bene paesaggio, in quanto costituisce un valido deterrente la consapevolezza che qualunque intervento effettuato e non autorizzato in via preventiva non può essere oggetto di una procedura di sanatoria successiva.
«Riscontrata la realizzazione di opere sine titulo ovvero in difformità dallo stesso», continua la decisione 3334/22, «l’Amministrazione è, dunque, vincolata ad applicare la misura ripristinatoria, in nessun modo suscettibile di essere modulata o graduata in relazione alle caratteristiche dell’abuso».
A tale regola sono previste limitate e tassative eccezioni, enunciate dal comma 4 dell’art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, a norma del quale è ammessa la sanatoria soltanto: per i lavori, realizzati in assenza o difformità dall’autorizzazione paesaggistica, che non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati;per l’impiego di materiali in difformità dall’autorizzazione paesaggistica;per i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria.
Come la giurisprudenza ha chiarito, “con tale scelta, il legislatore ha inteso presidiare ulteriormente il regime delle opere incidenti su beni paesaggistici, escludendo in radice che l'esame di compatibilità paesaggistica possa essere postergato all'intervento realizzato (sine titulo o in difformità dal titolo rilasciato) e ciò al fine di escludere che possa riconnettersi al fatto compiuto qualsivoglia forma di legittimazione giuridica. (T.A.R., Napoli, sez. III, 21/07/2021, n. 5051)” (cfr. T.A.R. Catania, sez. II, 12 settembre 2022, n. 2379).
La ratio legis, dunque, è quella di fissare una soglia elevata di tutela del paesaggio, che comporta la possibilità di rilascio ex post dell’autorizzazione paesaggistica soltanto per abusi di minima entità, tali da determinare già in astratto, per le loro caratteristiche tipologiche, un rischio estremamente contenuto di effettivo pregiudizio al bene tutelato (cfr. T.A.R. Lombardia, Milano, sez. II, 27 agosto 2014, n. 2263).
La preclusione della sanatoria degli abusi di maggiore entità, avente finalità deterrente e finalizzata ad apprestare una tutela rafforzata a beni di primaria rilevanza costituzionale quali quelli paesaggistici (art. 9 Cost.), rappresenta espressione della discrezionalità del legislatore, al quale è rimessa la determinazione dei modi di acquisto, di godimento e i limiti della proprietà “allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti” (art. 42 Cost.) e che, nel caso di specie, appare esente dai censurati vizi di proporzionalità e ragionevolezza (cfr. T.A.R. Genova, sez. I, 10 agosto 2017, n. 692).
Sul punto, continua la decisione n. 3334/22, «si rinvia alle argomentazioni sviluppate dal Consiglio di Stato sez. VI, sentenza del 30 maggio 2014, n. 2806, secondo cui: «La premessa, da cui occorre prendere le mosse, è che il paesaggio, come bene oggetto di tutela, non è suscettibile né di reintegrazioni, né di incrementi: ciò giustifica una disciplina particolarmente rigorosa, che (è ragionevole ritenere) è stata adottata anche per arginare esperienze pregresse, non pienamente rispettose del disposto dell'art. 9 della Costituzione. L'argomento di maggior impatto utilizzato dal ricorrente è l'affermata irragionevolezza della previsione legislativa che impone la demolizione di un'opera che potrà essere ricostruita previo rilascio dell'autorizzazione. Tale impostazione muove, verosimilmente, da numerosi interventi legislativi, che, in vari settori, hanno consentito la sanatoria di situazioni originariamente contra legem. Poiché i predetti provvedimenti legislativi esauriscono la propria efficacia nei limiti di tempo e di oggetto in essi contenuti, essi non possono costituire il fondamento di una situazione soggettiva di generalizzata aspettativa di sanatoria.
La norma della cui costituzionalità si dubita impedisce la sanatoria allorquando vi sia stato un incremento di volumi: la specificità della previsione esclude qualsiasi violazione dell'art. 3 della Costituzione, applicabile solo quando si attribuisca trattamento differenziato a situazioni analoghe. Né appaiono violate le altre norme della Costituzione in quanto, così come evidenziato nella sentenza impugnata, la finalità della norma è di costituire un più solido deterrente contro gli abusi (al fine di prevenirli) dei privati (verificatisi nel recente passato in dimensioni notevoli sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo), a tutela di beni costituzionalmente protetti» (si vedano, in termini di consonanza, T.A.R. Potenza, sez. I, 15 giugno 2020, n. 377;T.A.R. Lecce, sez. III, 1 marzo 2018, n. 340)».
Del pari infondata si ritiene la questione di legittimità costituzionale prospettata con riferimento all’art. 42 Cost., a tutela del diritto di proprietà.
«Non può ritenersi che l’irrigidimento del regime sanzionatorio operato con l’introduzione del Codice Urbani prima, e con il primo correttivo del 2006, dopo, comporti una restrizione “ulteriore” alla proprietà privata.
«Infatti, già nel sistema delineato dalla legge Bottai (art. 15, l. 29 giugno 1939, n. 1497), la demolizione dei manufatti realizzati sine titulo rappresentava il naturale epilogo dell’iter sanzionatorio, salva tuttavia la possibilità per l’Amministrazione di ordinare, in alternativa alla stessa, il pagamento di una indennità equivalente alla maggiore somma tra il danno arrecato al paesaggio e il profitto tratto dalla trasgressione, laddove il mantenimento dell’immobile fosse ritenuto opportuno «nell’interesse della protezione delle bellezze naturali e panoramiche».
«Pertanto, già nel previgente sistema - trasfuso senza mutamenti nel d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, art. 163 - la sanatoria ex post dell’opera abusiva (per mezzo del pagamento dell’indennità) non rappresentava una conseguenza “automatica” dell’accertamento dell’infrazione bensì una mera eventualità, comunque dipendente dall’apprezzamento discrezionale dell’Amministrazione in ordine all’entità del danno cagionato ai valori paesaggistici, rimanendo la riduzione in pristino l’alternativa principale (e preferibile).
«La sistematizzazione operata nel 2006, finalizzata a delimitare le ipotesi suscettibili di sanatoria e a evitare un uso distorto del potere discrezionale da parte dell’Amministrazione a valle del procedimento repressivo, non appare dunque integrare alcuna restrizione “ulteriore” delle facoltà proprietarie, ipotesi che si sarebbe verificata laddove il legislatore, ad esempio, avesse subordinato l’iniziativa privata ad ulteriori limiti e controlli ex ante».
Parimenti infondata è la questione di legittimità costituzionale sollevata rispetto all’art. 24 Cost., atteso che il legislatore non ha introdotto condizioni ostative all’esercizio del diritto di difesa. Invero, ferma la possibilità per chiunque di agire a tutela delle proprie ragioni, il soddisfacimento di queste ultime passa attraverso il sistema sopra delineato, frutto di un bilanciamento tra beni costituzionalmente protetti, senza che tale scelta legislativa sia affetta da irrazionalità o violi il canone di proporzionalità, così come evocato dai ricorrenti.
Conclusivamente, il ricorso si appalesa infondato e, come tale, va respinto.
Le spese del giudizio, stante la questione interpretativa posta, possono essere integralmente compensate.