Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2023-08-28, n. 202307988

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. II, sentenza 2023-08-28, n. 202307988
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202307988
Data del deposito : 28 agosto 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 28/08/2023

N. 07988/2023REG.PROV.COLL.

N. 06552/2021 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOE DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6552 del 2021, proposto dal signor -OISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato A V, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

il Ministero della difesa, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ope legis in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, n. -OISSIS- resa tra le parti.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della difesa;

visti tutti gli atti della causa;

relatore, nell’udienza pubblica del giorno 11 luglio 2023, il Pres. f.f. F F;

udito, per parte appellante, l’avvocato Flavia Vento per delega dell’avvocato A V e viste le conclusioni scritte dell’avvocato dello Stato Emanuele Feola per parte appellata;

ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. Il signor -OISSIS- già appuntato scelto dell’Arma dei carabinieri e oggi in congedo, propose il ricorso n. -OISSIS- dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, per l’annullamento della determina del Ministero della difesa, direzione generale per il personale militare, del 23 luglio 2019, notificatagli il 15 settembre 2019, con cui venne rigettata l’istanza di rimborso delle spese legali da egli sostenute nell’ambito di un processo penale conclusosi con la sua piena assoluzione, nonché per l’annullamento del preavviso di rigetto emanato dalla medesima amministrazione il 26 marzo 2019 e notificatogli l’8 aprile 2019.

1.1. Il Ministero della difesa si è costituito nel giudizio di primo grado, resistendo al ricorso.

2. Con l’impugnata sentenza n. -OISSIS- il T.a.r. per la Calabria, sezione staccata di Reggio Calabria, ha respinto il ricorso e ha compensato tra le parti le spese processuali.

2.1. In particolare, il collegio di primo grado ha puntualmente sintetizzato i fatti di causa come segue: « 1. Il ricorrente, già appuntato scelto dell’Arma dei Carabinieri (ora in congedo), chiede l’annullamento del provvedimento indicato in epigrafe con il quale l’amministrazione gli ha negato il rimborso delle spese legali sostenute per la difesa nel processo penale incardinato presso il Tribunale di-OISSIS-e conclusosi con sentenza di assoluzione della Corte d’Appello di Reggio Calabria perché il fatto non sussiste ai sensi dell’art. 530 co. 2 c.p.p.

2. Nel suddetto processo egli era stato imputato, assieme ad altro militare, del reato di concorso esterno in associazione mafiosa (art.110, 416 bis c.p.-61 n. 9 c.p) “
per avere avvertito ... la cosca -OISSIS- (ed in particolare -OISSIS- -OISSIS-) dell’esistenza di iniziative giudiziarie e/o di polizia a suo carico. Ricevendo da -OISSIS- quale corrispettivo per i servizi resi, svariati favori ”.

3. Il rimborso delle spese di difesa veniva negato sul presupposto che non ricorresse, nel caso di specie, il nesso di causalità tra il servizio svolto dal militare e la condotta contestatagli a titolo di reato. Stando alla motivazione addotta dal Ministero della Difesa, non emergerebbe alcun rapporto di immedesimazione intestato al militare “
in quanto nel porre in essere il comportamento per cui è stato sottoposto a giudizio, il medesimo non ha agito nello svolgimento dei propri doveri istituzionali e quindi con un’azione attribuibile direttamente all’Amministrazione di appartenenza in virtù del rapporto organico esistente ” (v. preavviso di rigetto del 26.03.2019 richiamato nell’atto impugnato doc. n. 4 di parte ricorrente).

4. Avverso tale diniego è insorto il ricorrente, deducendone l’illegittimità per violazione di legge (art. 10 bis della L. n. 241/1990 e art. 18 del D.L. n. 67 del 1997 conv. con L. n. 135 del 1997) e per eccesso di potere nelle sue figure sintomatiche. Secondo la prospettazione censoria, l’Amministrazione non avrebbe tenuto in alcuna considerazione le controdeduzioni difensive trasmesse dalla difesa dell’interessato dopo il preavviso di rigetto dell’istanza, incorrendo, per ciò solo, anche nel vizio di eccesso di potere per difetto di motivazione e di istruttoria (1^motivo). L’Amministrazione avrebbe, inoltre, irragionevolmente negato il beneficio richiesto, benché ne sussistessero le condizioni di legge ovvero: a) il fatto che la sentenza con cui era stato concluso il giudizio avesse riconosciuto l’estraneità dell’imputato ai fatti contestati seppure non con formula ampia;
b) la riconducibilità della condotta, oggetto di imputazione penale, a fatti di servizio, dal momento che il ricorrente era stato imputato per comportamenti posti in essere nell’esercizio della pubblica funzione di carabiniere.

5. Con atto di mera forma del 19.12.2019 si è costituito il Ministero della Difesa, insistendo per la reiezione del gravame.

6. In vista della discussione di merito, le parti scambiavano memorie difensive conclusive e di replica, argomentando diffusamente le proprie posizioni
».

Tale ricostruzione in fatto non risulta specificamente contestata dalle parti costituite, sicché, in ossequio al principio di non contestazione recato all’art. 64, comma 2, del codice del processo amministrativo, deve considerarsi idonea alla prova dei fatti oggetto di giudizio.

2.2. Il T.a.r. ha poi così motivato la propria statuizione: « Va innanzitutto confutata la violazione dell’art. 10 bis della L. n. 241/90, in adesione alla giurisprudenza più recente (cfr. Cons. Stato sez. II, 26 marzo 2021 n. 2566) secondo cui “ L’obbligo del preavviso di rigetto non impone, ai fini della legittimità del provvedimento adottato, la confutazione analitica delle deduzioni dell’interessato, essendo sufficiente la motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno del provvedimento finale” . Nel caso si specie, la motivazione del provvedimento finale rinvia per relationem agli stessi elementi enucleati nel preavviso di rigetto, senza che le argomentazioni spese dall’interessato in fase procedimentale possano rilevare ai fini della legittimità sostanziale del diniego impugnato (cfr. Cons. Stato sez. III, 19 febbraio 2019, n.1156). Il primo motivo è, quindi, infondato.

9. Passando al secondo ordine di censure, l’art. 18 del DL. 25 marzo 1997, n. 67, convertito nella legge 23 maggio 1997, n. 135, subordina il rimborso delle spese legali a favore di dipendenti di amministrazioni statali coinvolti in giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, non solo all’esclusione della loro responsabilità ma, altresì, alla circostanza che i predetti giudizi siano promossi in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali. E’ stato, infatti, precisato che tra i fatti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio deve esistere una connessione che si sostanzia nel fatto che il dipendente deve aver agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse della Amministrazione e cioè quando per la condotta oggetto del giudizio sia ravvisabile il “nesso di immedesimazione organica” (Cons. Stato sez. IV, 11 novembre 2020 n. 6928;
id. sez. VI, 30 dicembre 2020 n. 8534). In tale contesto, il rimborso delle spese legali costituisce un meccanismo volto ad imputare al titolare dell’interesse sostanziale le conseguenze dell’operato di chi abbia agito per suo conto, per cui siffatto meccanismo di imputazione può operare solo in quanto sia ravvisabile quel rapporto di stretta dipendenza, nonché quel nesso di strumentalità tra l’adempimento del doveri istituzionali e il compimento dell’atto, non potendo il dipendente assolvere ai propri compiti, se non tenendo quella determinata condotta (cfr.,
ex multis : Cons. Stato, sez. IV, 11 gennaio 2020, n. 281). 10. Nella vicenda in esame, il giudicato assolutorio formatosi nei confronti del dipendente, ancorché con la formula dell’art.530, comma 2 c.p.p. (v. Cons. Stato sez. III, 29 dicembre 2017 n. 6194), integra soltanto uno dei presupposti richiesti dalla norma di cui si tratta, e cioè l’esclusione della responsabilità del dipendente in ordine ai fatti di rilevanza penale, ma non l’ulteriore requisito della connessione oggettiva della condotta contestata con l’espletamento di doveri d’ufficio. Quest’ultima, per quanto immune da sanzione penale, si è sviluppata all’interno di un contesto controindicato per un appartenente delle forze dell’ordine, esorbitando materialmente e giuridicamente da qualsiasi funzione istituzionale. Nella sentenza assolutoria della Corte d’Appello di Reggio Calabria si sottolinea lo “ spregiudicato modo di interpretare il proprio ruolo da parte dei due militari ” e ancora, nell’ordinanza della Corte d’Appello n. 106/2018 dell’11.02.2021 (v. all. n. 1 nota documenti del 12.04.2021 di parte resistente), i pericolosi rapporti intrattenuti dal ricorrente con altro imputato della cosca -OISSIS-, a fronte di una contestazione (concorso esterno in associazione mafiosa) che non ha nulla a che fare con le finalità istituzionali dell’amministrazione di appartenenza, essendo tutt’al più ravvisabile soltanto un rapporto di “occasionalità necessaria” tra il comportamento del militare e i doveri di servizio. L’obiezione, sollevata a più riprese dalla difesa, secondo cui il ricorrente sarebbe stato sottoposto a procedimento penale solo ed esclusivamente in quanto carabiniere in servizio presso la -OISSIS- non persuade perché ricerca la connessione tra atti e/o fatti compiuti e la ragione di servizio, onde stabilire la sussistenza del diritto al rimborso, non già nella realtà fattuale per come emergente dalla ricostruzione operata dalla sentenza di assoluzione, bensì per come essa è stata rappresentata e posta a fondamento dell’esercizio dell’azione penale. Una siffatta conclusione condurrebbe a riconoscere la spettanza del beneficio in ogni ipotesi di reato “proprio”, anche laddove il fatto addebitato esuli dai doveri istituzionali, senza che possa ravvisarsi un collegamento, diretto e di tipo oggettivo, con l’interesse dell’Amministrazione (cfr., ex multis , Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2020, n. 239;
Cons. Stato, Sez. IV, 5 aprile 2017, n. 1568);
il che non può essere consentito, posto che lo scopo evidente della norma è quello di sollevare da un onere economico il dipendente che ne sia stato gravato in dipendenza dell’adempimento di doveri del proprio ufficio
».

3. Con ricorso ritualmente notificato e depositato – rispettivamente in data 13 luglio 2021 e in data 14 luglio 2021 – il signor -OISSIS-ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza, articolando due motivi.

4. Il Ministero della difesa si è costituito in giudizio, chiedendo il rigetto del gravame.

5. La causa è stata trattenuta in decisione all’udienza pubblica dell’11 luglio 2023.

6. L’appello è infondato e deve essere respinto alla stregua delle seguenti considerazioni in fatto e in diritto.

7. Tramite il primo motivo d’impugnazione l’appellante ha lamentato: «Error in iudicando : erroneità della sentenza per intrinseca illogicità della motivazione. Violazione e falsa applicazione dell’art. 10 bis L. 241/1990 », deducendo, in sintesi, che: « Con una motivazione illogica il TAR di Reggio Calabria ha rigettato il primo motivo di ricorso con il quale il ricorrente aveva eccepito il difetto assoluto di motivazione e di istruttoria per non avere, l’amministrazione convenuta, rispettato l’obbligo di motivare - nel provvedimento finale - le ragioni dell’eventuale mancato accoglimento delle osservazioni depositate ai sensi dell’art. 10 bis L. 241/1990 (…) Tale obbligo, contrariamente a quanto sostenuto dal Tar nella sentenza impugnata, non è stato minimamente rispettato dall’amministrazione resistente, tant’è che – nel provvedimento oggetto di impugnazione – la 3^ Divisione della Direzione Generale per il Personale Militare si è limitata a ritenere ininfluenti le memorie presentate dal graduato in argomento, senz’altro argomentare in proposito. Ed allora è evidente come il Tar di Reggio Calabria abbia errato nel ritenere soddisfatto l’obbligo di motivazione previsto dalla norma che oggi si ritiene violata (…) Nel caso di specie, l’aver semplicemente considerato come ininfluenti quelle osservazioni, non soddisfa l’obbligo di motivazione imposto dalla norma in oggetto. Così facendo, infatti, il Ministero ha vanificato le finalità proprie della disposizione in commento di fatto relegando l’obbligo imposto dall’art. 10- bis ad una sterile formalità ».

7.1. Siffatta censura è infondata.

In proposito si osserva inoltre che l’art. 10- bis della legge n. 241/1990 ha la funzione di assicurare un’effettiva partecipazione dell’istante all’esercizio del potere amministrativo, sollecitando un contraddittorio procedimentale in funzione collaborativa e difensiva. In tal modo, da un lato, si garantisce un apporto collaborativo del privato mediante l’introduzione di elementi istruttori o deduttivi suscettibile di apprezzamento da parte dell’organo procedente, dall’altro, si consente l’anticipata acquisizione in sede procedimentale di contestazioni (di natura difensiva) suscettibili di evidenziare eventuali profili di illegittimità delle ragioni ostative preannunciate dall’amministrazione. L’applicazione della norma de qua consente, dunque, all’organo procedente di esaminare anticipatamente le deduzioni svolte dall’istante, al fine di pervenire ad una motivata decisione idonea a statuire su tutti i profili controversi influenti sulla regolazione del rapporto amministrativo (cfr. Consiglio di Stato, sezione VI, sentenza 10 febbraio 2020, n. 1001).

Cionondimeno, la mancata comunicazione del preavviso di rigetto non comporta l’automatica illegittimità del provvedimento finale in quanto la previsione di cui all’art. 10- bis della legge n. 241/1990 deve essere coordinata con il principio di dequotazione dei vizi formali recato dall’art. 21- octies , comma 2, della medesima legge (nella sua versione vigente ratione temporis anteriore alla riforma recata dal decreto legge n. 76/2020 convertito in legge 120/2020 e decorrente dal 17 luglio 2020, ovverosia successivamente all’emanazione dei provvedimenti per cui è causa, risalenti al 2019), che, nell’imporre al giudice di valutare il contenuto sostanziale del provvedimento e di non annullare l’atto nel caso in cui le violazioni formali non abbiano inciso sulla legittimità sostanziale del medesimo, rende irrilevante la violazione delle disposizioni sul procedimento o sulla forma dell’atto qualora il contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato (cfr., ex aliis , Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 13 febbraio 2020, n. 1144, 11 gennaio 2019, n. 256, e 27 settembre 2018, n. 5562;
Consiglio di Stato, sezione III, sentenza 28 settembre 2015, n. 4532).

Pertanto l’omissione del preavviso di rigetto è di per sé inidoneo a giustificare l’annullamento del provvedimento amministrativo nei casi in cui il suo contenuto non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato, sia in quanto vincolato, sia in quanto, sebbene discrezionale, sia raggiunta la prova della sua concreta e sostanziale non modificabilità.

Inoltre il citato art. 10- bis vigente ratione temporis di per sé non impone all’amministrazione di introdurre nel provvedimento conclusivo del procedimento la puntuale e analitica confutazione delle singole argomentazioni svolte dalla parte privata, essendo sufficiente ai fini della sua giustificazione una motivazione complessivamente e logicamente resa a sostegno dell’atto (cfr. Consiglio di Stato, sezione II, sentenza 20 febbraio 2020, n. 1306;
Consiglio di Stato, sez. V, sentenza 25 luglio 2018, n. 4523).

Delineato il predetto quadro ordinamentale e giurisprudenziale, nel caso di specie nel provvedimento di rigetto dell’istanza di rimborso il Ministero della difesa ha espressamente considerato « ininfluenti le memorie presentate dal graduato in argomento, poiché non portavano nuovi elementi tali da modificare l’orientamento già assunto », il che è pienamente sufficiente ad assolvere l’obbligo motivazionale sulle controdeduzioni del militare, in quanto questi nelle proprie osservazioni nulla aveva aggiunto al quadro fattuale e giuridico già valutato dall’amministrazione, limitandosi a prospettare una diversa interpretazione della fattispecie e, in particolare, a fronte della rappresentazione, da parte dell’amministrazione, della non coincidenza tra la condotta oggetto del processo penale e le finalità istituzionali dell’Arma dei carabinieri, aveva dedotto che il capo di imputazione a suo carico concerneva il compimento di fatti servizio e che l’irrevocabilità della sentenza pienamente assolutoria integrava perfettamente e sufficientemente i requisiti per il rimborso, per tal via non adducendo norme e fatti non previamente considerati dal Ministero.

8. Mediante la seconda doglianza la parte privata ha lamentato: «Error in iudicando : erroneità della sentenza per intrinseca illogicità della motivazione. Violazione e falsa applicazione dell’art. 18 D.L. 67/1997 convertito con L. 135/1997 », sostenendo, in sintesi, che: « il TAR è incorso in una evidente violazione dell’art. 18 D.L. 67/1997, e dei principi giurisprudenziali che su tale norma si sono oramai consolidati. Secondo quanto statuito dal Consiglio di Stato infatti, deve essere riconosciuto il diritto al rimborso delle spese legali sostenute dal Pubblico dipendente ogni qualvolta sussiste la diretta correlazione causale tra la fattispecie di reato e lo svolgimento del servizio o l’assolvimento di obblighi istituzionali (cfr. Cons. di Stato, Sez. IV, 07.06.2018, n. 3427). Ora, nel caso di specie il -OISSIS- è stato tratto a giudizio per avere – nella qualità di Pubblico Ufficiale appartenente all’Arma dei Carabinieri – concorso nel reato ex art. 416 bis c.p., favorendo la cosca -OISSIS- attraverso la rilevazione di iniziative giudiziarie e/o di polizia. Dunque, le condotte attraverso le quali sarebbe stato integrato il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa potevano essere attribuite al ricorrente solo in ragione della funzione pubblica da lui ricoperta. Ed infatti, tanto la rivelazione di notizie segrete, quanto la presunta falsificazione del verbale di contestazione amministrativa in favore di Costin Camelia, presupponevano una diretta correlazione causale con la funzione svolta dal militare -OISSIS-. Sicché, contrariamente a quanto sostenuto dal Tribunale di primo grado, nel caso di specie sussistevano tutti i requisiti affinché al -OISSIS- venisse riconosciuto il diritto al rimborso delle spese legali sostenute nel procedimento penale che lo ha visto – ingiustamente – imputato, ivi compreso il requisito della connessione oggettiva della condotta contestata con l’espletamento dei doveri d’ufficio. A tal proposito, con la memoria depositata in data 9.4.2021, la difesa aveva - altresì - osservato come il coinvolgimento del -OISSIS- nel procedimento penale sopra richiamato era derivato esclusivamente dalle dichiarazioni di -OISSIS-. Quest’ultimo infatti, nell’intercettazione ambientale captata presso la Casa Circondariale di -OISSIS- aveva riferito al suo interlocutore che – a parer suo – se questo qua di-OISSIS-fosse stato in servizio al momento del suo arresto lo avrebbe avvisato dell’operazione in corso. Il soggetto a cui il -OISSIS- avrebbe fatto riferimento, secondo gli inquirenti, doveva identificarsi in -OISSIS- in quanto unico militare di-OISSIS-in servizio presso la tenenza di -OISSIS-;
circostanza poi rivelatosi del tutto infondata! Dunque, il -OISSIS- si è trovato costretto a difendersi – seppur innocente – esclusivamente in ragione del suo
status e non per aver posto in essere specifici atti;
il che avrebbe dovuto – a maggior ragione – indurre il Tribunale Amministrativo a ritenere illegittimo il provvedimento di diniego impugnato
(…) Ora, nel caso di specie, la convinzione manifestata da -OISSIS- non era supportata da alcun ulteriore elemento indiziante a carico del -OISSIS-;
sicché quanto da lui riferito doveva essere considerato alla stregua di una millanteria
(…) Si tratta di argomenti che non sono stati minimamente esaminati dal Tribunale Amministrativo (…) non possono sussistere dubbi sulla sussistenza di tutti i presupposti richiesti dall’art. 18 D.L. 67/1997 (…) non potendosi in alcun modo sostenere che la condotta oggetto della contestazione sia stata posta in essere “in occasione dell’attività lavorativa”. A ciò si aggiunga l’ulteriore circostanza, anche questa completamente ignorata dal Tribunale di Reggio Calabria, secondo cui il -OISSIS- – non solo non è stato sottoposto ad alcun procedimento disciplinare, ma è stato altresì reintegrato in servizio;
il che dimostra – a maggior ragione – che la condotta del -OISSIS- è sempre stata fedele ai doveri e alle funzioni derivanti dalla funzione pubblica esercitata
».

8.1. Tale motivo è infondato.

Al riguardo si rileva che l’art. 18 del decreto legge n. 67/1997 convertito in legge n. 135/1997 richiede, per l’ottenimento del rimborso, che le spese legali siano relative a « giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti o atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali ».

Secondo la consolidata giurisprudenza il su citato art. 18 è norma di stretta interpretazione e due sono i presupposti indefettibili per la sua applicazione: a) la pronuncia di una sentenza o di un provvedimento del giudice, che abbia escluso definitivamente la responsabilità del dipendente;
b) la sussistenza di una connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali (cfr., ex aliis , Consiglio di Stato, sezione II, sentenza 5 aprile 2023, n. 3515;
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 28 novembre 2019, numeri 8137 e 8140), cosicché il diritto al rimborso sussiste solo qualora il processo subito dal dipendente e conclusosi con l’esclusione nel merito della sua responsabilità abbia ad oggetto fatti e comportamenti posti in essere al fine di adempiere ad un obbligo di servizio e quindi teleologicamente preordinati all’esclusivo fine pubblico, che solo giustifica l’aggravio patrimoniale a carico della pubblica amministrazione.

L’espressione normativa « atti e fatti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali » include tra le condotte rilevanti non soltanto quelle che costituiscono in senso stretto una modalità di concreto espletamento di servizi e obblighi istituzionali attraverso azioni tipiche, ma estenda tale rilevanza anche ad attività con queste ultime connesse, sebbene non meramente occasionate.

La finalità della norma di cui al citato art. 18 risiede nell’esigenza di sollevare i funzionari pubblici dal timore di eventuali conseguenze giudiziarie connesse all’espletamento del servizio e tenere indenni i soggetti che abbiano agito in nome e per conto, oltre che nell’interesse, dell’amministrazione, delle spese legali affrontate per i procedimenti giudiziari strettamente connessi all’espletamento dei loro compiti istituzionali, con la conseguenza che il requisito essenziale in questione può considerarsi sussistente solo quando risulti possibile imputare gli effetti dell’agire del pubblico dipendente direttamente all’amministrazione di appartenenza.

Se la funzione della predetta norma è quella di ripristinare la situazione di esposizione economica in cui viene a trovarsi il dipendente di un’amministrazione a causa di giudizi in cui lo stesso sia stato ingiustamente coinvolto per fatti o atti connessi con l’espletamento del servizio e nell’ambito dell’assolvimento di obblighi istituzionali, competendo pertanto tale rimborso solo quando sussista un nesso strumentale fra le condotte incriminate e il perseguimento degli obiettivi propri del servizio, non può sottacersi come il rimborso delle spese sia previsto anche nell’interesse dell’amministrazione per evitare che il timore del dipendente per i rischi connessi all’espletamento dei compiti inerenti al proprio incarico si traduca in un freno al relativo svolgimento e, quindi, in una minore efficacia dell’azione amministrativa.

Va inoltre precisato che rientra nel perimetro applicativo della suddetta norma anche l’ipotesi in cui il procedimento a carico del dipendente statale sia sorto in esclusiva conseguenza di condotte illecite di terzi, di natura diffamatoria o calunniosa, oppure qualificabili come un millantato credito, seppur in assenza di una specifica condotta del lavoratore, il quale sia stato coinvolto in procedimento giudiziario siccome sostanzialmente vittima di illecite condotte altrui connesse al suo status (cfr. le già citate sentenze del Consiglio di Stato numeri 8137/2019 e 8140/2019).

A parte il caso del coinvolgimento del dipendente estraneo ai fatti, ma vittima di un’illecita azione altrui, quanto alla connessione tra i fatti e gli atti oggetto del giudizio e l’espletamento del servizio e l’assolvimento degli obblighi istituzionali, la giurisprudenza ha ripetutamente chiarito che si deve trattare di condotte (estrinsecatesi in atti o comportamenti) che di per sé siano riferibili all’amministrazione di appartenenza e che, di conseguenza, comportino a questa l’imputazione dei relativi effetti (cfr., ex aliis , Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 5 aprile 2017, n. 1568 e 26 febbraio 2013, n. 1190). Ne deriva che l’obbligo dell’amministrazione di sopportare gli oneri delle spese di difesa del dipendente va riconosciuto soltanto nei casi in cui l’imputazione riguardi un’attività svolta in diretta connessione con i fini dell’ente e, come tale, ad esso imputabile, con la conseguenza che il requisito della inerenza dei fatti all’assolvimento degli obblighi istituzionali può sussistere solo laddove risulti possibile imputare gli effetti dell’agire del pubblico dipendente direttamente all’amministrazione di appartenenza;
detto interesse deve, invece, escludersi qualora vi sia conflitto di interessi tra dipendente ed amministrazione, emergendo estremi di natura disciplinare ed amministrativa, per mancanze attinenti al compimento dei doveri d’ufficio, oppure qualora sia stata posta in essere un’attività non già nell’interesse dell’amministrazione di appartenenza ed in connessione con i fini istituzionali, bensì nell’interesse proprio del dipendente ed in relazione a suoi fini personali.

Come puntualmente evidenziato dalla difesa dello Stato, ai fini del diritto al rimborso è rilevante il rapporto causale che intercorre tra la prestazione di lavoro e l’evento che determina l’insorgere dell’ipotizzata responsabilità, in guisa che l’evento determinante deve costituire una parte o una modalità della prestazione lavorativa ed essersi concretizzato non soltanto durante e in occasione della prestazione del rapporto di servizio, ma altresì a causa di esso, ovverosia deve essere finalizzato alla corretta prestazione lavorativa.

In sostanza, il beneficio di cui al citato art. 18 va riconosciuto soltanto laddove quando il dipendente statale sia stato coinvolto in un procedimento giudiziario per aver svolto il proprio lavoro nell’ambito dello svolgimento dei suoi obblighi istituzionali e vi sia un nesso di strumentalità tra l’adempimento del dovere ed il compimento dell’atto o del comportamento (e, quindi, quando l’assolvimento diligente dei compiti specificamente lo richiedeva) e non anche quando la condotta oggetto della contestazione sia stata posta in essere meramente in occasione dell’attività lavorativa (cfr., ex aliis , Consiglio di Stato, sezione VII, sentenza 10 febbraio 2022, n. 986;
Consiglio di Stato, sezione IV, sentenze 4 gennaio 2022, n. 25 e 13 marzo 2017, n. 1154;
Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 8 novembre 2018, n. 28597).

Occorre dunque che la condotta oggetto della contestazione sia espressione della volontà dell’amministrazione di appartenenza e diretta all’adempimento dei suoi scopi istituzionali, dovendo i poteri concretamente esercitati inerire a un fine pubblico imputabile all’amministrazione.

Tanto premesso, nel caso di specie la condotta oggetto di processo penale conclusione con sentenza di assoluzione è legata all’espletamento del servizio di impiego soltanto da un nesso di occasionalità necessaria, mentre non risulta essere stata effettuata sulla base di un dovere d’ufficio ovvero nell’interesse dell’amministrazione.

Sul punto va evidenziato che la Corte d’appello di Reggio Calabria, pur avendo assolto con sentenza passata in giudicato il signor -OISSIS-nel merito e in riforma della sentenza di condanna di primo grado – dall’imputazione di cosiddetto concorso esterno in associazione di stampo mafioso, ha fatto riferimento allo « spregiudicato modo di interpretare il proprio ruolo da parte dei due militari », tra cui l’odierno ricorrente, il quale, pertanto, ha oltrepassato i limiti connessi all’esercizio dell’attività istituzionale.

Specificamente la Corte d’appello, con la sentenza di assoluzione, ha reputato non sufficientemente provato l’addebito, in capo al signor -OISSIS-di avere avvertito il signor -OISSIS-, detto “-OISSIS-”, dell’esistenza di iniziative giudiziarie e/o di polizia a suo carico, ritenendo cionondimeno sussistente, in capo al militare, un modus operandi non legittimo, siccome, per quanto emerso dalle intercettazioni, aveva intrattenuto rapporti non istituzionali con il signor -OISSIS- (titolare di un distributore di benzina utilizzato dai carabinieri di -OISSIS-), con scambio di favori reciproci, e si era rivolto a malavitosi per vendicarsi di torti subiti.

La Corte d’appello ha altresì precisato che « i rapporti frequenti e confidenziali dei militari (due, tra cui il signor -OISSIS-) con -OISSIS- e la reciproca disponibilità fra questi a scambiarsi favori erano fatti reali », riscontrando la « disponibilità da parte dei due carabinieri a rendere favori a -OISSIS-. Simile disponibilità è, in effetti, emersa a piene mani dall’istruttoria svolta » e che « -OISSIS-non aveva disdegnato di contattare ambienti malavitosi per vendicarsi delle lesioni patite da un pregiudicato », nonché evidenziando che « si è in presenza, dunque, di uno spregiudicato modo di interpretare il proprio ruolo da parte dei due militari che però, di fatto, si è esplicato in condotte di vario tipo assunte in via generalizzata e che non è necessariamente ricollegabile ad un accordo scellerato con l’organizzazione mafiosa ».

Inoltre la Corte d’appello di Reggio Calabria, con ordinanza dell’11 febbraio 2021, depositata il 12 aprile 2021 (versata in atti in primo grado dal Ministero della difesa), emessa su istanza di riparazione per ingiusta detenzione presentata dal signor -OISSIS- nel respingere detta domanda, ha puntualmente rilevato la presenza di « una condotta dell’istante certamente non improntata ad un agire legittimo, tenuto conto della funzione esercitata dal ricorrente, posto che il -OISSIS- si è rapportato con un soggetto (-OISSIS-) che la medesima sentenza d’appello definisce in “ una posizione di diretta vicinanza all'imputato -OISSIS- ”, oltre a rivolgersi, in modo tutt’altro che istituzionale, ad ambienti malavitosi, per una vicenda attinente un soggetto pregiudicato. Di tutta evidenza quindi come una tale condotta assuma una incontestabile valenza in questa sede, apparendo del tutto contraria ai principi solidaristici che presiedono all’istituto invocato, delineando un contegno connotato da estremi di colpa grave, che ha dato causa all’emissione dell'ordinanza cautelare ai danni dell’istante ed alla protrazione del suo stato detentivo ».

Ad ogni modo, i fatti per i quali il dipendente è stato sottoposto a procedimento penale, a prescindere dalla loro sussistenza nelle forme e nei modi contestati dalla pubblica accusa, non sono astrattamente riconducibili a finalità inerenti al perseguimento dell’interesse pubblico, bensì soltanto occasionate dal tipo di mansioni svolte.

Alteris verbis , l’interessato, ancorché assolto, non ha agito per il conseguimento di finalità istituzionali, sicché il rapporto di servizio ha rappresentato soltanto l’occasione di una serie di azioni che si sono poste al di fuori dell’espletamento dei obblighi lavorativi. L’espletamento del servizio o l’assolvimento di obblighi istituzionali va inteso, invero, nel senso che tali atti e fatti siano riconducibili all’attività funzionale del dipendente, in un rapporto di stretta dipendenza con l’adempimento dei propri obblighi, dovendosi trattare di attività che necessariamente si ricollegano all’esercizio diligente della pubblica funzione, in circostanze in cui è possibile imputare gli effetti dell’agire del pubblico dipendente direttamente all’amministrazione di appartenenza, il che non è ravvisabile nella fattispecie in esame.

Del tutto ininfluente è, infine, la circostanza, dedotta dal ricorrente, per cui non gli sia stata irrogata alcuna sanzione disciplinare – e nemmeno avviato alcun procedimento disciplinare – per i fatti oggetto del processo penale, giacché, ai fini del diniego di rimborso non viene in rilievo la rimproverabilità della condotta, bensì il mancato specifico perseguimento dell’interesse pubblico.

9. In conclusione l’appello va respinto.

10. In applicazione del principio della soccombenza, al rigetto dell’appello segue la condanna dell’appellante al pagamento, in favore dell’appellato, dei diritti, degli onorari e degli gli esborsi di lite del presente grado di giudizio, che, tenuto conto dei parametri stabiliti dal d.m. 10 marzo 2014, n. 55 e dall’art. 26, comma 1, del codice del processo amministrativo, si liquidano in complessivi euro 3.000 (tremila), oltre al 15% per spese generali e, ove dovuti, agli accessori di legge.

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