Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-04-12, n. 201802205

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2018-04-12, n. 201802205
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 201802205
Data del deposito : 12 aprile 2018
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 12/04/2018

N. 02205/2018REG.PROV.COLL.

N. 10112/2015 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

Sul ricorso numero di registro generale 10112 del 2015, proposto dai signori G C e L C, dalla D C Antonia e Todeschi Giovanni, dalla Ditta Michielotto Massimiliano, dai signori G O, U O e M G, tutti rappresentati e difesi dagli avvocati P C e R S, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato R S in Roma, viale G. Mazzini, 88;

contro

Regione Lombardia, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall'avvocato M L T, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato S D in Roma, via Principessa Clotilde, 2;
Ente Parco Regionale del Mincio, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avvocato Stefano Vinti, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via Emilia, 88;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Brescia, Sezione I, n. 517 del 15 aprile 2015, resa tra le parti, concernente apposizione di vincoli di inutilizzabilità e risarcimento del danno.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio della Regione Lombardia e dell’Ente Parco Regionale del Mincio;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 febbraio 2018 il consigliere Daniela Di Carlo e uditi per le parti gli avvocati P C, R S, Angelo Buongiorno (su delega dell’avocato Stefano Vinti) e M L T;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. La controversia riguarda l’azione proposta da alcuni proprietari di fondi, ricompresi nel territorio del Parco naturale del Mincio, nei confronti della Regione Lombardia e dell’Ente Parco regionale del Mincio:

a) per il risarcimento del danno derivante dall’imposizione di vincoli di inutilizzabilità fondiaria o edilizia, senza indennizzo;

b) per la condanna, delle medesime amministrazioni, ove permanga l’interesse pubblico, all’adozione del provvedimento di espropriazione dei fondi, con determinazione della relativa indennità.

1.1. A sostegno delle proprie pretese, i ricorrenti in primo grado (Ditta Ascari Luigi, Ditta Baldini Arturo, G C, L C, D C Antonia e Todeschini Giovanni, M M, G O, U O e M G):

a) assumevano di essere del tutto impossibilitati ad imprimere ai fondi medesimi, per effetto dei vincoli imposti, una qualsiasi utilizzazione produttiva, nemmeno di tipo agricolo, e che per tale ragione le amministrazioni intimate avrebbero dovuto procedere all’espropriazione dei fondi, facendo applicazione del disposto di cui all’art. 39 del Piano territoriale di coordinamento del Parco, approvato con deliberazione della giunta della Regione Lombardia del 28 giugno 2000, n. VII/193, con corresponsione della relativa indennità;

b) insistevano, inoltre, in ipotesi di mancato esproprio dei fondi medesimi, per il risarcimento del danno patito a cagione dei vincoli (sostanzialmente espropriativi) imposti, stimando il relativo imposto in una somma pari alla differenza fra il valore agricolo medio dei terreni siti nella stessa zona e non soggetti a vincoli e il valore residuo dei loro fondi dopo l’imposizione dei suddetti vincoli;

c) determinavano, infine, le relative somme in euro 89.376 per il signor L A;
euro 242.168 per la signora A C;
euro 476.460 per i coniugi O;
euro 319.400 per la signora M G;
euro 101.136 per il signor G C;
euro 157.480 per il signor A B;
euro 157.000 per il signor M M.

2. Il T.a.r. per la Lombardia, Brescia, Sezione I, con la sentenza n. 517 del 15 aprile 2015, ha:

a) accantonato le eccezioni preliminari sollevate dalla parti intimate, in base al principio di economicità dei mezzi processuali, ritenendo il ricorso - prima facie - del tutto infondato nel merito;

b) respinto il ricorso, non ravvisando sussistere, nel caso all’esame, un vincolo (indennizzabile) di natura sostanzialmente espropriativa;

c) compensato integralmente tra le parti le spese di lite.

3. Tra gli originari ricorrenti in primo grado, solo G C, L C, D C Antonia e Todeschini Giovanni, M M, G O, U O e M G hanno appellato la sentenza, insistendo:

a) sull’infondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso collettivo, per il caso in cui il Collegio adito decidesse di pronunciarsi in via preliminare sulla medesima, ove riproposta;

b) sull’erroneità e l’ingiustizia della decisione, nella parte in cui ha ritenuto che:

b.1) la naturale conformazione dei fondi, che rappresentano delle proprietà vallive localizzate in zone lacustri, esclude - di per sé - utilizzi di particolare rilievo economico;

b.2) l’anti-economicità dello svolgimento di talune tradizionali attività, anche di origine molto risalente nel tempo (quali, ad esempio, la coltivazione della canna e della carice, l’itticoltura estensiva e le coltivazioni di pioppi e salici), non è motivo sufficiente per ravvisare l’esistenza di un vincolo ablatorio indennizzabile, essendo - invece - ravvisabile un mero vincolo di conservazione.

c) sulla misura della quantificazione del danno, come domandata nel primo grado del giudizio;

d) sull’opportunità di espletare una consulenza tecnica d’ufficio per chiarire esattamente il regime giuridico e vincolistico impresso ai fondi.

4. Si è costituita la Regione Lombardia, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza, nel merito, dell’avverso appello.

5. Si è costituito, altresì, l’Ente Parco regionale del Mincio, eccependo in via preliminare l’inammissibilità dell’appello a motivo: 1) della mancata proposizione di censure autonome avverso la sentenza, limitandosi, lo stesso, sostanzialmente, a riproporre le medesime argomentazioni difensive espletate nel primo grado del giudizio;
2) della proposizione – invece – di conclusioni nuove e diverse rispetto a quelle rassegnate nel primo grado del giudizio.

Nel merito, invece, ha insistito per il rigetto dell’avversa istanza istruttoria (sia perché esplorativa, sia perché tardivamente avanzata nel primo grado del giudizio, soltanto in sede di deposito di comparsa conclusionale) e dell’atto di appello, siccome infondato in fatto e in diritto.

6. Le parti hanno insistito sulle rispettive tesi difensive mediante il deposito di memorie integrative (gli appellanti in data 22 gennaio 2018;
il Parco regionale del Mincio in data 18 gennaio 2018) e di replica (gli appellanti in data 31 gennaio 2018;
il Parco regionale del Mincio in data 1 febbraio 2018).

7. All’udienza pubblica del 22 febbraio 2018 la causa è stata discussa e trattenuta dal Collegio in decisione.

8. Il Collegio ritiene di prescindere dallo scrutinio delle eccezioni preliminari di inammissibilità del ricorso (formulate da entrambe le parti costituite) e dell’atto di appello (formulata dal solo Ente Parco), ravvisandosi – prima facie – l’assoluta infondatezza della domanda nel merito.

8.1. I ricorrenti hanno domandato il risarcimento dei danni patiti, in dipendenza dell’apposizione di vincoli comportanti – a loro dire – l’assoluta inutilizzabilità dei fondi di rispettiva proprietà, per effetto dell’approvazione del piano territoriale di coordinamento del parco, ad opera della deliberazione di giunta regionale lombarda n. VII/193 del 28 giugno 2000.

8.2. L’azione esercitata si basa, sul piano logico-giuridico, sul previo accertamento, da parte di questo giudice, della sussistenza dell’eventuale illegittima apposizione di un vincolo sostanzialmente ablatorio (come tale, indennizzabile), nonché dell’obbligo (inevaso da parte delle amministrazioni intimate) di adottare il provvedimento di esproprio delle aree, con corresponsione della relativa indennità.

8.3. La domanda, così formulata, non può trovare accoglimento, giacché, per un verso, la deliberazione di giunta regionale lombarda n. VII/193 del 28 giugno 2000, recante approvazione del piano territoriale di coordinamento del parco, ritenuta - dai ricorrenti - fonte dell’ingiusta apposizione dei vincoli di inutilizzabilità assoluta, non risulta essere stata tempestivamente impugnata, entro il prescritto termine di decadenza.

Per altro verso, invece, la pretesa, dei ricorrenti medesimi, di sentire condannare le amministrazioni intimate, all’adozione del provvedimento espropriativo (appunto, sul presupposto dell’accertamento della natura di vincolo sostanzialmente ablatorio), incontra il limite imposto dall’art. 34, co. 1, lett. b) c.p.a., il quale prevede l’azione di condanna al rilascio di un provvedimento richiesto, ma solo “ contestualmente all’azione di annullamento del provvedimento di diniego o all’azione avverso il silenzio” e sempre che – come previsto dall’art. 31, co. 3, C.p.a. – si tratti di “attività vincolata o quando risulta che non residuano margini di esercizio della discrezionalità e non sono necessari adempimenti istruttori che debbono essere compiuti dall’amministrazione ” (Cons. Stato, Ad. Plen., 23 marzo 2011 n. 3 e 29 luglio 2011 n. 15, secondo la quale “ la domanda tesa ad una pronuncia che imponga l’adozione del provvedimento satisfattorio non è ammissibile se non accompagnata dalla rituale e contestuale proposizione della domanda di annullamento del provvedimento negativo o del rimedio avverso il silenzio ex art. 31 ”;
successivamente, sempre nel senso della inammissibilità delle domande di rilascio di provvedimenti amministrativi proposte al di fuori dei tassativi casi previsti dalla legge, Cons. Stato, Sezione IV, sentenza 2 febbraio 2017, n. 444;
n. 293 del 2017).

8.4. Nel caso all’esame, non sono rinvenibili i presupposti ai quali il citato art. 34 àncora la possibilità di condanna dell’amministrazione al rilascio di un provvedimento, sia in quanto il giudizio instaurato non è quello avverso il silenzio serbato dall’amministrazione su una istanza dell’interessato, ovvero avverso il diniego di accoglimento di detta istanza, sia in quanto, nel caso di specie, non è riscontrabile attività vincolata dell’amministrazione.

8.5. In ogni caso, e a tacer d’altro, ad una pronuncia in tal senso osterebbe finanche il disposto di cui all’art. 34, comma 2, del c.p.a., a mente del quale “ In nessun caso il giudice può pronunciare con riferimento a poteri amministrativi non ancora esercitati. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall’articolo 30, comma 3, il giudice non può conoscere della legittimità degli atti che il ricorrente avrebbe dovuto impugnare con l’azione di annullamento di cui all’articolo 29 ”.

7. Ad ogni modo, nel merito, la pretesa sarebbe - anche - infondata.

7.1. E’ utile, a tal riguardo, ripercorrere – sia pure brevemente - a confutazione della tesi, oggi riproposta dagli appellanti, della totale inutilizzabilità dei fondi, il ragionamento seguito dal giudice di prime cure, assolutamente da condividere, anche da parte di questo Collegio.

E segnatamente:

a) il Parco naturale del Mincio è stato istituito in base alla l.r. Lombardia 30 novembre 1983 n°86, il cui art. 5 comma 1, per quanto qui interessa, dispone: “ I piani dei parchi e delle riserve prevedono l’acquisizione in proprietà pubblica delle aree per le quali i piani medesimi prevedano un uso pubblico, nonché delle aree per le quali i limiti alle attività antropiche comportino la totale inutilizzazione ”;

b) l’art. 39 (rubricato “ Acquisizione di aree ”) della deliberazione di giunta regionale lombarda n. VII/193 del 28 giugno 2000, al comma 1, recita: “ Ai sensi dell’art. 5 della l.r. 86/1983 è prevista l’acquisizione in proprietà pubblica delle aree per le quali il presente piano territoriale ovvero i relativi strumenti attuativi prevedano un uso pubblico ovvero limiti alle attività economiche antropiche comportanti la totale inutilizzazione ”;

c) il concetto di “ limiti comportanti la totale inutilizzazione ” va enucleato in base alla insuperata giurisprudenza costituzionale, in materia di cd . espropriazione di valore (sentenze 20 gennaio 1966 n. 6 e 29 maggio 1968 n. 55), che indica il criterio per discernere le ipotesi in cui l’amministrazione esercita sui beni di proprietà privata un potere conformativo (come tale, non indennizzabile), da quelle in cui – viceversa – esercita un potere sostanzialmente ablatorio (come tale, indennizzabile, nello stesso senso Cons. Stato, Sez. V, n. 3234 del 2013;
Sez. IV, n. 9372 del 2010 cui si rinvia a mente dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.);

d) l’iscrizione, per tradizionale e indiscusso insegnamento, dei vincoli a verde pubblico (ma anche privato), giustificati da ragioni di tutela ambientale, nell’ambito dei vincoli conformativi, senza titolo ad indennizzo alcuno (Cons. Stato, Sez. V, n. 3234 del 2013;
Sez. IV, n. 9372 del 2010 cit.);

e) la pacifica riconducibilità, nell’ambito di tale genus , dei vincoli per i quali è lite, giacché, sul piano strettamente naturalistico, i terreni in questione costituiscono delle cd. proprietà vallive, ovvero localizzate in zone palustri, le quali già di per sé, in ragione della tipica conformazione naturale, consentono limitate facoltà di sfruttamento economico, sicuramente restandone esclusi utilizzi come l’agricoltura intensiva o l’edificazione a scopo residenziale o commerciale. Fermi, invece, gli altri usi (più che altro, quelli riconducibili ad attività molto semplici e tradizionali, più risalenti nel tempo), come la coltivazione della canna e della carice, i giochi di caccia e le peschiere, l’itticoltura estensiva, le coltivazioni arboree, in particolare i pioppeti e i saliceti;

f) la circostanza, meramente estemporanea e dipendente dall’esclusiva volontà dei ricorrenti, di non adibire i detti terreni a tali usi, reputando le suddette attività non convenienti sul piano strettamente economico, nulla ha a che vedere con la qualificazione dei vincoli naturalistici imposti in termini di meri vincoli conformativi, non potendosi riconoscere interferenza alcuna tra la scelta (legittima, è indiscusso) di non svolgere attività d’impresa se le previsioni non soddisfano le aspettative di guadagno, e la conformazione della proprietà privata, assecondandone la naturale caratterizzazione.

8. Per quanto tutto esposto, l’appello va respinto.

9. La regolazione delle spese di lite del presente grado, liquidate come in dispositivo secondo i parametri di cui al regolamento n. 55 del 2014, segue il principio della soccombenza.

10. Il Collegio rileva, inoltre, che l’infondatezza del ricorso in appello si fonda su ragioni manifeste in modo da integrare i presupposti applicativi dell’art. 26, comma 2, c.p.a. secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio (cfr. da ultimo Cons. Stato, Sez. IV, n. 2879 del 2017;
5497 del 2016, cui si rinvia ai sensi dell’art. 88, comma 2, lettera d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della sanzione), conformemente ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. da ultimo Sez. VI, n. 11939 del 2017;
n. 22150 del 2016).

A tanto consegue il pagamento della sanzione nella misura minima di legge di € 2.000 per ciascun ricorrente, pari a complessivi € 14.000,00 (cfr. sul punto, fra le tante, Cons. Stato, Sez. IV, n. 2116 del 2018;
n. 364 del 2017;
cui si rinvia a mente dell’art. 88, comma 2, lett. d), c.p.a.);
siffatta condanna è computata nel quantum separatamente per ogni ricorrente: in caso di ricorso collettivo, infatti, i rapporti processuali restano distinti e per così dire “paralleli”, di talché la misura della sanzione prevista dal più volte menzionato art. 26, co. 2, c.p.a. (“non inferiore al doppio e non superiore al quintuplo del contributo unificato dovuto per il ricorso introduttivo del giudizio”, nella specie pari ad € 975,00) non può che riferirsi a ciascuna “parte soccombente”.

Del resto, trattandosi di una sanzione pecuniaria, trova applicazione il principio generale sancito dall’art. 5, l. n. 689 del 1981 secondo cui, quando più persone concorrono nella medesima violazione, ciascuna di esse soggiace alla sanzione per questa prevista, non potendosi configurare una situazione di solidarietà salvo che una norma di legge non disponga diversamente;
circostanza questa che non si verifica nella specie, nulla disponendo al riguardo nè l’art. 26 c.p.a. nè l’art. 96, co.3, c.p.c. (sull’applicazione dei principi di cui alla l. n. 689 del 1981 alla sanzione pecuniaria sancita dall’art. 26 c.p.a., cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 2116 del 2018;
n. 364 del 2017;
Sez. V, n. 1733 del 2012 e n. 3252 del 2011;
sulla natura sanzionatoria di tale misura si argomenta anche da Corte cost., n. 152 del 2016 che ha esplicitamente ravvisato tale indole nella misura pecuniaria sancita dal menzionato art. 96, co.3, c.p.c.);
dal punto di vista sistematico, infine, tale soluzione appare coerente con quanto stabilito dall’art. 97 c.p.c., nella parte in cui prevede la solidarietà passiva solo in relazione al pagamento delle spese di lite e del risarcimento dei danni cagionati dal processo.

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