Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-06-16, n. 202003869

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza 2020-06-16, n. 202003869
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202003869
Data del deposito : 16 giugno 2020
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 16/06/2020

N. 03869/2020REG.PROV.COLL.

N. 02277/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2277 del 2016, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati F C e M P, con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato F C in Roma, via Giuseppe Cerbara, n. 64;

contro

Il Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro tempore , rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

per la riforma

della sentenza del T.a.r. per l’Emilia Romagna, (Sezione I), n.-OMISSIS-, resa tra le parti.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore - nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2020 svoltasi in video conferenza ai sensi dell’art. 84, commi 5 e 6, d.l. n. 18 del 2020 - il consigliere Michele Conforti;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO e DIRITTO

1. È controversa nel presente processo la legittimità del provvedimento di destituzione dal servizio adottato dal Capo della Polizia di Stato nei confronti dell’odierno appellante, ai sensi dell’art. 7, comma 2, n. 1 e 2 del d.P.R. n. 737 del 1981.

1.1. In data 24 gennaio 2011, con il provvedimento suindicato, il Ministero determinava la cessazione del rapporto di impiego con l’odierno appellante, poiché quest’ultimo, come emerso nell’ambito delle indagini preliminari intraprese dalla competente Procura della Repubblica, aveva reiteratamente adoperato dei certificati medici falsi allo scopo di sottrarsi, illecitamente, all’attività lavorativa.

1.2. Il provvedimento di destituzione dal servizio veniva adottato con la seguente formula: “ il presente provvedimento dispiegherà gli effetti inflittivi, a decorrere dalla data di adozione, subordinatamente all’eventuale reviviscenza, per qualunque causa, del primitivo rapporto di pubblico impiego ”.

2. L’interessato ha impugnato il provvedimento dell’amministrazione, formulando le seguenti censure:

a) illegittimità del provvedimento a causa dell’intempestivo inizio del procedimento amministrativo: la contestazione degli addebiti sarebbe stata formulata soltanto in data 4 settembre 2010, quando oramai erano già spirati entrambi i termini contemplati dalla norma per dare inizio al procedimento, ossia quello di centoventi giorni oppure quello di quaranta giorni, previsti dall’art. 9, comma 6, del d.P.R. n. 737 del 1981, alternativamente, a decorrere dalla pubblicazione della sentenza o dalla sua notificazione;

b) illegittimità del provvedimento a causa dell’apposizione di una condizione sospensiva di efficacia: il provvedimento avente natura sanzionatoria non tollererebbe una simile clausola accidentale e ne rimarrebbe irrimediabilmente viziato una volta apposta;

c) difetto di motivazione, per non essere state sufficientemente chiarite le ragioni giustificatrici poste a base della sanzione irrogata;

d) difetto di istruttoria, per essersi basato il provvedimento su atti ed accertamenti compiuti esclusivamente dall’organo giurisdizionale inquirente e senza il necessario vaglio da parte dell’autorità giudiziaria, terza ed imparziale.

3. Il Ministero dell’Interno si è costituito in giudizio e ha resistito al ricorso.

4. Il Tribunale amministrativo regionale ha respinto la domanda di annullamento.

4.1. Relativamente al primo motivo, ha evidenziato che il termine di centoventi giorni, cui si è fatto riferimento, inizia a decorrere non già dalla pubblicazione della sentenza che sancisce la colpevolezza dell’imputato-dipendente dell’amministrazione, bensì dalla sua trasmissione a quest’ultima, avvenuta, nel caso in esame, in data 3 luglio 2010. Pertanto, la formulazione degli addebiti, avvenuta in data 4 settembre 2010 è tempestiva.

Quanto al termine di quaranta giorni, esso è ancorato alla notificazione della pronuncia da parte del dipendente e non decorre, invece, in caso di sua mera comunicazione da parte della Cancelleria del giudice a quo .

4.2. Relativamente al secondo motivo, ha statuito la compatibilità dell’elemento accidentale imposto al provvedimento con la natura sanzionatoria del provvedimento medesimo.

4.3. Rispetto al terzo motivo, ha affermato che il provvedimento è stato adeguatamente e congruamente motivato, dando conto delle ragioni che hanno portato la P.A.-datrice di lavoro a ritenere minata la fiducia nel lavoratore e impossibile la prosecuzione del rapporto di impiego.

4.4. Circa il quarto motivo, ha, infine, rimarcato come l’amministrazione non debba necessariamente attendere gli esiti del giudizio penale e ben possa ritenere sufficientemente fondate le deduzioni e le prove offerte dall’organo inquirente.

5. Contro la sentenza del Tribunale amministrativo regionale, l’interessato ha proposto appello innanzi a questo Consiglio di Stato.

5.1. Con il primo motivo, egli contesta la sentenza di prime cure, poiché, a suo dire, essa non avrebbe tenuto adeguatamente conto della circostanza che la Questura di -OMISSIS- era stata notiziata dell’inizio di un procedimento penale a carico del suo dipendente e di tutti gli sviluppi successivi, cosicché essa non avrebbe dovuto attendere la trasmissione della sentenza contenente la declaratoria di proscioglimento per prescrizione, ma avrebbe dovuto attivarsi, spontaneamente, per conseguirne copia, non appena essa è stata pronunciata.

Nello specifico, quanto al termine di centoventi giorni, ritiene l’appellante che questo termine debba essere considerato perentorio ed ancorato – quanto all’inizio del suo decorso – o alla pronuncia della sentenza oppure al suo passaggio in giudicato.

Quanto al termine di quaranta giorni, si censura la sentenza perché l’appellante ritiene che la trasmissione della sentenza ad opera della Cancelleria sia equivalente alla sua notifica da parte del dipendente.

5.2. Con il secondo motivo di appello, si censura la sentenza per non aver accolto il secondo motivo di ricorso.

Secondo l’appellante l’apposizione della condizione sospensiva rende illegittimo l’intero provvedimento, richiamandosi, a tale proposito, la tesi esposta da un insigne autore, secondo cui importerebbero l’invalidità dell’intero provvedimento (e non soltanto della singola clausola) quegli elementi accidentali di contenuto restrittivo che incidono su tutti gli effetti o comunque sull’effetto tipico dell’atto.

Nel caso in esame, la condizione apposta finisce per minare la certezza sui tempi e sugli effetti del provvedimento disciplinare.

5.3. Con il terzo motivo, infine, si censura la sentenza gravata sia per aver disatteso la censura di difetto di motivazione, sia per aver disatteso la censura di difetto di istruttoria.

Relativamente alla censura di difetto di motivazione, si lamenta che il provvedimento gravato avrebbe posto a sostegno della gravissima misura adottata la perizia di parte che il P.M. aveva svolto durante le indagini preliminari, la quale non era mai stata verificata nell’ambito del dibattimento innanzi al giudice.

Inoltre, si censura il fatto che il provvedimento sia motivato con un riferimento alla relazione della Commissione provinciale di disciplina, la quale, però, è motivata, a sua volta, con un richiamo alla consulenza tecnica di parte del P.M., dando così vita ad una motivazione che l’interessato definisce “ ob relationem di secondo grado ”.

Quanto poi al difetto di istruttoria, si evidenzia che, erroneamente, il T.A.R. ha ritenuto accertati i presupposti di fatto posti a base del procedimento disciplinare, poiché, in realtà, essi sono rimasti a livello indiziario.

6. Si è costituito in giudizio il Ministero dell’interno, il quale ha evidenziato:

a) che il computo dei termini operato dal primo Giudice è corretto e conforme alla consolidata giurisprudenza del Giudice amministrativo;

b) che la condizione è stata apposta perché, nel momento in cui si è dovuto chiudere il procedimento disciplinare, l’agente di Polizia risultava già destituito dal servizio a causa di un altro provvedimento. Per dare comunque conclusione all’intrapreso procedimento disciplinare, in coerenza con la situazione di fatto e di diritto sussistente in quel momento, il Ministero ha dunque inteso apporre una condizione quale quella contenuta nel provvedimento;

c) che l’amministrazione ha compiuto un’autonoma ed attenta valutazione delle circostanze poste a base del procedimento disciplinare, motivando adeguatamente sulle ragioni che deponevano per il venire meno del rapporto di fiducia con il suo dipendente.

7. Con memoria del 4 aprile 2020, l’interessato, oltre a ripercorrere argomenti già ampiamente illustrati con l’appello, ha ulteriormente evidenziato:

a) che sarebbe errato pretendere che la “notificazione”, presupposta dalla norma de qua , per l’abbreviazione del termine di avvio del procedimento disciplinare, debba avvenire ad opera del solo soggetto interessato e non anche di terzi (nel caso di specie, la Cancelleria);

b) che comunque ciò che conta è l’oggettiva ricezione da parte dell’amministrazione della sentenza, poiché, una volta ricevuta, il termine per intraprendere il procedimento dovrebbe essere quello di quaranta giorni e non quello di centoventi giorni;

c) che il termine di centoventi giorni viene ancorato dalla lettera della Legge alla “pubblicazione” della sentenza e non alla sua “conoscenza” da parte dell’amministrazione: opinare altrimenti violerebbe il disposto dell’art. 12 delle Preleggi e la regola della prevalenza dell’interpretazione letterale delle disposizioni;

d) che l’interpretazione accolta, circa il decorso dei due termini, infligge un vulnus al principio di affidamento dell’interessato;

e) che la Questura era a conoscenza della pronuncia della sentenza anche prima della sua acquisizione formale, poiché ne ha domandata copia alla Cancelleria;

f) che l’istruttoria sarebbe stata tutt’altro che completa, in quanto l’amministrazione non avrebbe né valutato una serie di elementi di rilievo della vicenda, come: 1) la circostanza che la titolare del libretto dal quale sarebbero stati tolti i certificati non si è sottoposta a perizia calligrafica;
2) le sue dichiarazioni sono state rese alla Polizia giudiziaria senza preavviso da parte di quest’ultima;
3) l’interessato si è sottoposto spontaneamente alla perizia disposta dal P.M.;
4) dei quattro certificati medici contestati, “tre sono risultati riferibili a persone diverse…” dall’odierno appellante;
5) la titolare del libretto e l’agente di Polizia erano stati legati da un rapporto sentimentale poi conclusosi in modo non sereno.

8. Alla memoria dell’appellante, ha replicato il Ministero, soffermandosi, segnatamente, sul significato da attribuire al lemma “notificazione”, dall’espletamento della quale scaturisce il decorso del termine breve di quaranta giorni.

9. All’udienza del 28 maggio 2020, la causa è stata trattenuta in decisione.

10. Può procedersi all’esame dei motivi di appello, seguendo il loro ordine di formulazione.

10.1. Va respinto il primo motivo di appello.

Con esso l’appellante lamenta la violazione del termine di decadenza individuato dall’art. 9, comma 6, d.P.R. n. 737 del 1981, sia con riferimento al decorso del termine di centoventi giorni, che viene ancorato alla pubblicazione della sentenza e non alla sua comunicazione alla P.A., sia con riferimento al decorso del termine di quaranta giorni, per il quale si ritiene sufficiente anche la mera comunicazione della sentenza da parte della Cancelleria.

Secondo quanto previsto dalla norma invocata, “ Quando da un procedimento penale, comunque definito, emergono fatti e circostanze che rendano l'appartenente ai ruoli dell'Amministrazione della pubblica sicurezza passibile di sanzioni disciplinari, questi deve essere sottoposto a procedimento disciplinare entro il termine di giorni 120 dalla data di pubblicazione della sentenza, oppure entro 40 giorni dalla data di notificazione della sentenza stessa all'Amministrazione. ”.

10.2. In proposito, per rigettare la prima censura contenuta nel gravame in esame è opportuno ribadire il consolidato orientamento di questo Consiglio.

In un caso perfettamente sovrapponibile a quello odierno, poiché riguardante un agente di Polizia di Stato, questo Consiglio (Sez. IV, 2 marzo 2020, n. 1499) ha avuto modo di statuire a proposito della corretta esegesi della normativa richiamata che:

f) a tal ultimo riguardo, questa Sezione ha di recente avuto modo di precisare (Cons. Stato, Sez. IV, 15 luglio 2019, n. 4940) che "la regola... è quella per cui il termine "pubblicazione" contenuto nella lettera del citato articolo debba farsi coincidere con quello di "conoscenza qualificata": si è affermato infatti in proposito che (Consiglio di Stato, sez. IV, 25 marzo 2014, n. 1458, Cons. Stato Sez. IV, n. 2942 del 2011) "in riferimento alla decorrenza del termine, tale norma deve necessariamente essere interpretata in modo tale da garantire che l'azione amministrativa si svolga secondo i canoni del giusto procedimento e del buon andamento, che suggeriscono di individuare il dies a quo del termine in questione dalla data di conoscenza della pronunzia penale. Diversamente opinando, si perverrebbe alla conclusione, illogica e contraddittoria, di sottoporre l'esercizio del potere disciplinare al termine decadenziale in questione senza che l'Amministrazione competente abbia alcuna conoscenza degli elementi fattuali emersi in sede penale e suscettibili di legittimare il procedimento sanzionatorio";

g) del resto, detti approdi appaiono coerenti con le affermazioni contenute nella decisione della Corte Costituzionale n. 186 del 2004, che ha ritenuto "irragionevole e contraria al buon andamento" la disposizione transitoria dell'art. 10, comma 3, L. 27 marzo 2001, n. 97, nella parte in cui fa decorrere il termine per l'instaurazione del procedimento disciplinare dal momento della conclusione del giudizio penale, anziché dalla comunicazione della relativa sentenza all'amministrazione;
pertanto il dies a quo per il computo dei termini che decorrono dalla sentenza penale, da qualunque norma siano previsti, non può che coincidere con la comunicazione della stessa alla amministrazione, essendo una diversa interpretazione del tutto irragionevole e contraria al buon andamento (sentenza 29 dicembre 2017, n. 6171;
e vedi anche, nell'ambito del parallelo ordinamento militare, con riguardo ad appartenenti al Corpo della Guardia di finanza o all'Arma dei carabinieri, sez. IV, 19 agosto 2016, n. 3652;
sez. IV, 7 luglio 2018, n. 4349;
sez. IV, 26 febbraio 2019, n. 1344);

h) deve pertanto ritenersi ormai superato l'opposto orientamento secondo cui il termine di cui all'art. 9, c. 6 D.P.R. n. 737 del 1981 citato decorre dalla "pubblicazione della sentenza" intesa come deposito della motivazione in cancelleria (Cons. Stato, Sez. III, 12 maggio 2016, n. 1893;
Sez. I, 7 marzo 2014, n. 3278;
Sez. VI, 29 marzo 2011, n. 1894);
”.

Non v’è ragione di discostarsi dall’orientamento richiamato alla luce delle doglianze articolate nel primo motivo di appello che, in buona sostanza, sono quelle più volte confutate in analoghi casi da questo Consiglio.

10.3. Del resto, va soggiunto che l’interpretazione più volte ribadita non è un’interpretazione “abrogatrice”, come pure sostenuto dall’appellante, ma, come sottolineato nel precedente richiamato, un’esegesi costituzionalmente orientata della norma, perché la diversa tesi sostenuta dall’appellante renderebbe quest’ultima incostituzionale, in quanto costringerebbe la P.A. a compulsare, in continuazione, le varie Cancellerie dei diversi Tribunali, per ogni procedimento penale collegato ad un procedimento disciplinare, con palese e manifesta inefficienza sia delle P.A. richiedenti l’informazione che delle Cancellerie costrette a rispondere (e correlata violazione dell’art. 97 Cost.).

10.4. Inoltre, a presidio della certezza e della speditezza dei tempi del relativo procedimento disciplinare è consentito all’interessato, che è necessariamente a conoscenza degli esiti del processo penale che lo riguardano, la possibilità di notificarne la sentenza conclusiva.

10.5. L’orientamento giurisprudenziale richiamato è coerente, sul piano sistematico, con la disciplina dettata in via generale dal D.P.R. 10/01/1957, n. 3, costituente il Testo unico delle disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato.

Come rilevato di recente in un altro precedente di questo Consiglio, con riferimento alla disciplina contenuta negli artt. 97 comma 3 e 120 del suddetto T.U., “ In base alla prevalente giurisprudenza relativa a tale assetto normativo (ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 15 marzo 2012, n. 1452;
n. 5013 del 2002), in caso di proscioglimento in sede penale (cui è funzionalmente equiparabile, ai fini de quibus, il decreto di archiviazione), ove l'Amministrazione aveva intenzione di applicare la sanzione espulsiva, il termine di inizio del procedimento era pari a 180 giorni decorrenti dalla conoscenza integrale ed ufficiale (a mezzo, in primis, di acquisizione di copia conforme) del provvedimento giurisdizionale irrevocabile
” (Sez. IV, n. 1887 del 2020;
n. 1233 del 2020, n. 7093 del 2018).

10.6. Circa la seconda censura, relativa al decorso del termine di quaranta giorni, va evidenziato che è fondata la difesa opposta, in proposito, dal Ministero.

Il termine di quaranta giorni costituisce, infatti, un’accelerazione dei tempi del procedimento, correlata, in modo evidente, alla volontà del dipendente che, per ottenerla, è onerato di un preciso incombente: la notificazione della sentenza conclusiva all’amministrazione.

Se quella appena enunciata è la ratio della disciplina e della previsione di un doppio termine (cui ancorare l’attivazione del procedimento disciplinare) individuato dalla norma, è evidente che il lemma “notificazione” deve essere interpretato in senso tecnico, escludendo che in esso possano ricomprendersi anche quegli invii della sentenza conclusiva del processo penale posti in essere dalla Cancelleria del competente ufficio giudiziario o da soggetti diversi dall’interessato.

Del resto la provenienza di un atto dalla Cancelleria viene comunemente denominata nel lessico giuridico “ comunicazione ”, proprio al fine di distinguerla da quel diverso atto – che porta a conoscenza degli altri litisconsorti la pronuncia conclusiva o gli altri atti salienti del giudizio, su istanza di una delle parti del processo - denominato, per l’appunto, notificazione.

10.7. Il primo motivo di appello è dunque infondato.

11. Può procedersi all’esame del secondo motivo.

11.1. Va osservato che l’apposizione di elementi accidentali al provvedimento amministrativo è, in linea generale, consentita, purché essa non determini una violazione del principio di legalità (e dei suoi corollari) e non distorca la finalità per la quale il potere è stato attribuito all’amministrazione.

11.2. Seppure in ambiti diversi, ma con una motivazione di carattere generale, questo Consiglio ha avuto modo di affermare che:

a) “ È jus receptum (cfr. Cons. St., V, 29 novembre 2004, n. 7762;
id., IV, 25 novembre 2011, n. 6260;
id., 25 giugno 2013, n. 3447;
id., VI, 10 dicembre 2015, n. 5615) che da tempo è ammesso l'istituto del provvedimento (di solito, abilitativo) condizionato, con ciò superando le perplessità che furono in passato manifestate in dottrina, che costruiva l'atto amministrativo all'interno della teoria generale degli atti giuridici, a sua volta modellata, com'è noto, su quella positiva del negozio giuridico di diritto tedesco e che, quindi, non credeva possibile l'apposizione di elementi accidentali nel provvedimento amministrativo
” (Cons. Stato, Sez. VI, 6 novembre 2018, n. 6265);

b) “… costituisce inutile aggravio procedurale (perché non bilanciato da una sufficiente ragione di interesse pubblico) l'arresto di un procedimento, che può invece proseguire sotto la condizione sospensiva del perfezionamento di altra procedura presupposta ( Cons. Stato, Sez. VI, 10 dicembre 2015, n. 5615;
sez. IV, 25 giugno 2013, n. 3447
)”. (Cons. Stato, Sez. IV, 19 aprile 2018, n. 2366);

11.3. In virtù di quanto appena osservato, l’apposizione della condizione, come correttamente rilevato dalla difesa del Ministero, è stata necessaria per tenere conto, in motivazione e nel dispositivo, della circostanza che l’agente era stato già destituito dal servizio da un precedente provvedimento amministrativo, ma che quest’ultimo era sub iudice , nel momento in cui l’ulteriore procedimento disciplinare concludeva il suo corso nei termini di legge, perché impugnato innanzi agli organi di giustizia amministrativa.

Proprio per poter concludere il procedimento disciplinare nei tempi di legge, tenendo però conto della peculiarità della situazione venutasi a creare per l’adozione di un precedente provvedimento, il Ministero ha apposto nel provvedimento la puntualizzazione che l’interessato ha censurato con il divisato motivo di appello.

11.4. L’elemento condizionante apposto, in ragione di quanto appena osservato, va dunque dichiarato legittimo.

11.5. Con riferimento al provvedimento in esame, va statuito, inoltre, che tale condizione non rende né incerti gli effetti tipici del provvedimento né li distorce in modo incompatibile alla finalità per la quale il potere è stato attribuito all’amministrazione, sicché essa appare pienamente compatibile con le coordinate generali poste in apertura dell’esame del presente motivo di censura.

11.6. Va pure considerato, inoltre, che, contrariamente a quanto asserito dall’appellante, anche a voler ragionare in maniera del tutto antitetica rispetto a come sin qui fatto, dovrebbe, al più, ritenersi viziata la sola clausola condizionante, poiché il vizio che controparte adduce essere dell’intero provvedimento sarebbe, in realtà, a tutto voler concedere, solo dell’elemento accidentale.

La riprova di questa circostanza è data dal fatto che, ove annullato il provvedimento, l’amministrazione, avendo come visto rispettato i termine di legge per intraprendere il procedimento disciplinare, ben potrebbe reiterarlo ed adottare il medesimo provvedimento, emendato dall’elemento asseritamente viziante, sicché è evidente che, a tutto voler concedere, il presunto elemento vitiatur sed non vitiat .

11.7. Il secondo motivo di appello va pertanto respinto.

12. Circa il terzo ed ultimo motivo di appello, si osserva poi quanto segue.

12.1. In linea generale, come più volte ribadito, in ambito disciplinare l’amministrazione ha ampia discrezionalità in merito all’individuazione della sanzione da applicare con la conseguenza che la sua decisione è sindacabile in sede giurisdizionale solo ab externo nei casi di manifesta irrazionalità, insostenibile illogicità, palese arbitrarietà ed evidente travisamento del fatto cui la stessa è correlata ( ex multis , di recente, Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2020, n. 1887).

12.2. Inoltre, i fatti che hanno dato luogo ad un procedimento penale possono (e per certi versi debbono) formare oggetto di autonoma considerazione in sede disciplinare e la relativa sanzione deve essere irrogata sulla base di un separato giudizio di responsabilità (disciplinare) senza che i rilievi di tipo penale possano assurgere a presupposto unico per l'applicazione della sanzione disciplinare (Cons. Stato Sez. IV, 11 giugno 2015, n. 2851).

12.3. In particolare, poi, con sempre maggiore attinenza al caso in esame, va osservato che, qualora il procedimento penale si sia concluso con una sentenza di proscioglimento per prescrizione, i fatti oggetto dell’imputazione possono essere legittimamente assunti a presupposto di un'azione disciplinare, salva la possibilità del dipendente di addurre elementi e argomenti che, qualora dotati di oggettivo spessore e valenza, devono essere adeguatamente ponderati (Cons. Stato, Sez. IV, 2 novembre 2017, n. 5053).

12.4. Applicando i suesposti principi al caso in esame, va osservato che non emergono particolari profili di manifesta irrazionalità, insostenibile illogicità, palese arbitrarietà ed evidente travisamento del fatto, imputabili all’amministrazione, essendo stato appurato che:

a) una perizia di parte dell’ufficio inquirente ha accertato la falsità delle firme apposte in calce ai certificati medici utilizzati per giustificare le assenze dal servizio;

b) in sede penale, l’interessato si è avvalso della prescrizione, rinunciando ad un pieno accertamento dei fatti in quella sede;

c) né in sede penale né in altra sede l’interessato ha adoperato una controperizia per smentire le risultanze di quella dell’ufficio del Pubblico ministero;

d) non sono stati fornite delle giustificazioni plausibili circa le ragioni per le quali una terza persona (il medico dal cui blocchetto provenivano i certificati e con la quale l’interessato asserisce di aver interrotto, in modo “burrascoso”, una relazione sentimentale) avrebbe dovuto calunniarlo, disconoscendo la firma apposta ai suddetti certificati adoperati per giustificare le assenze dal servizio, se non delle suggestioni estremamente generiche e, soprattutto, prive di adeguati riscontri probatori.

12.5. Neppure, infine, può accogliersi la censura relativa al difetto di motivazione del provvedimento, considerato che esso dà ampiamente conto dei presupposti e delle ragioni in base ai quali è stato emanato e considerato, altresì, che l’interessato era pienamente consapevole e a conoscenza dei fatti imputatigli, sicché il contenuto dispositivo e lesivo dell’atto era a lui pienamente comprensibile e noto. Per giudicare la completezza e la congruità della motivazione del provvedimento offerta dall’amministrazione non può infatti prescindersi dal grado di intellegibilità che il provvedimento presenta per il suo destinatario, in ragione della maggiore o minore conoscenza che questi ha dei fatti che ne costituiscono i presupposti.

La censura formulata si profila dunque del tutto strumentale e priva di fondamento.

12.6. Anche il terzo motivo di appello non può pertanto trovare accoglimento.

13. In definitiva, l’appello va respinto.

14. Le spese del presente grado di giudizio, regolamentate secondo l’ordinario criterio della soccombenza, sono liquidate in dispositivo tenuto conto dei parametri stabiliti dal regolamento 10 marzo 2014, n. 55 e dell’art. 26, comma 1, c.p.a., ricorrendone i presupposti applicativi, anche in relazione ai profili di sinteticità e chiarezza, secondo l’interpretazione che ne è stata data dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sostanzialmente recepita, sul punto in esame, dalla novella recata dal decreto-legge n. 90 del 2014 all’art. 26 c.p.a. [cfr. sez. IV, n. 5008 del 2018;
sez. V, 9 luglio 2015, n. 3462;
sez. V, 21 novembre 2014, n. 5757;
sez. V, 11 giugno 2013, n. 3210;
sez. V, 26 marzo 2012, n. 1733;
sez. V, 31 maggio 2011, n. 3252, cui si rinvia ai sensi degli artt. 74 e 88, co. 2, lett. d), c.p.a. anche in ordine alle modalità applicative ed alla determinazione della misura indennitaria conformemente, peraltro, ai principi elaborati dalla Corte di cassazione (cfr. da ultimo Sez. VI, n. 11939 del 2017;
n. 22150 del 2016)].

La condanna dell’appellante, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a. rileva, infine, anche agli effetti di cui all’art. 2, comma 2-quinquies, lettere a) e d), della legge 24 marzo 2001, nr. 89, come da ultimo modificato dalla legge 28 dicembre 2015, n. 208.

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