Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-07-14, n. 202306894

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Sul provvedimento

Citazione :
Consiglio di Stato, sez. VI, sentenza 2023-07-14, n. 202306894
Giurisdizione : Consiglio di Stato
Numero : 202306894
Data del deposito : 14 luglio 2023
Fonte ufficiale :

Testo completo

Pubblicato il 14/07/2023

N. 06894/2023REG.PROV.COLL.

N. 01861/2020 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 1861 del 2020, proposto da
Beneduce Filippo, Beneduce Francesca, Beneduce Giovanni, Beneduce Gaetana e Auriemma Carolina, rappresentati e difesi dall'avvocato L B A M, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Sant'Anastasia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato A C, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Terza) n. 3645/2019.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Sant'Anastasia;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza pubblica del giorno 27 giugno 2023 il Cons. Giovanni Gallone;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.


FATTO

1. Beneduce Filippo, Beneduce Francesca, Beneduce Giovanni, Beneduce Gaetana e Auriemma Carolina, proprietari (come da dichiarazione di successione presentata all’Ufficio del registro di Napoli n. 2477 volume 4200 del 3.04.2000) di un edificio situato nel Comune di Sant’Anastasia in Via Marra Masseria Marciana n. 15, riportato in Catasto al Foglio 9, particella 356, sub 3 e sub 4, hanno realizzato in sopraelevazione, sul lastrico solare di tale edificio, un manufatto in cemento armato, avente le dimensioni di circa mt. 18 x mt 6, privo di scala di accesso e di porta di ingresso, completo di tompagnature esterne, tramezzature interne, balcone con parapetto di cm. 80 di altezza, infissi esterni in ferro e impermeabilizzazione del lastrico solare completo di tegole perimetrali, il tutto allo stato grezzo.

1.1 Con ordinanza n. 172 del 10 agosto 2001, il Comune di Napoli ha ingiunto ai predetti la demolizione di tale manufatto in sopraelevazione.

1.2 Auriemma Carolina ha, quindi, presentato, in data 3 settembre 2001, domanda (prot. 14440) per l’accertamento postumo di conformità della sopraelevazione in questione.

Con verbale n. 45, relativo alla seduta del 5 settembre 2001, la Commissione Edilizia ha, tuttavia, espresso parere negativo in quanto: “le opere eseguite eccedono notevolmente la superficie e la volumetria realizzabile, prevista dal vigente P.R.G. nella zona “E” agricola, in cui rientra tale manufatto”.

1.3 Successivamente con domanda prot. n. 21069 del 18 novembre 2004, Auriemma Carolina - giovandosi delle previsioni di cui all’art. 32 D.L. 269/2003, convertito con modificazioni, nella L. n. 326/2003 – ha presentato domanda di sanatoria edilizia per il piano sopraelevato.

L’amministrazione comunale, con provvedimento prot. n. 10844 del 15 maggio 2014, ha rigettato la prefata domanda posto che la costruzione insiste, da un lato, in area sottoposta a vincolo paesaggistico e, dall’altro, al vincolo di cui all’art. 3 della legge regionale n. 21/2003 per le opere ad uso residenziale nella cd. zona rossa ad alto rischio vulcanico dei comuni vesuviani.

Avverso detto diniego di sanatoria, Beneduce Filippo, Beneduce Francesca, Beneduce Giovanni, Beneduce Gaetana e Auriemma Carolina hanno, quindi, proposto ricorso dinanzi al T.A.R. per la Campania – sede di Napoli, iscritto al numero di registro generale n. 3869 del 2014, definito con sentenza di rigetto n. 609 del 4 febbraio 2019.

1.4 In ultimo, con ordinanza n. 15 del 7 luglio 2014, il Responsabile del Settore Urbanistica del Comune di Sant’Anastasia ha ingiunto la demolizione della sopraelevazione realizzata in assenza di concessione edilizia ed il ripristino dello stato dei luoghi.

2. Con ricorso notificato il 17 settembre 2014 e depositato il successivo 8 ottobre, Beneduce Filippo, Beneduce Francesca, Beneduce Giovanni, Beneduce Gaetana e Auriemma Carolina hanno impugnato dinanzi al T.A.R. per la Campania – sede di Napoli anche la menzionata ordinanza n. 15/2014 chiedendone l’annullamento.

2.1 A sostegno del ricorso hanno dedotto le censure così rubricate:

1) Violazione dell’art. 7 L. n. 241/1990, per assenza della preventiva comunicazione di avvio del procedimento ;

2) Violazione degli artt. 31 e 34 d.p.r. 380/2001;
eccesso di potere per carenza assoluta dei presupposti di fatto e di diritto
;

3) Violazione della legge regionale n. 10/1982, art. 1 e allegato;
violazione dell’art. 82 d.p.r. 616/1977;
violazione del giusto procedimento di legge;
eccesso di potere per incompetenza
.

3. Ad esito del relativo giudizio il T.A.R. per la Campania – sede di Napoli, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto il suddetto ricorso.

4. Con ricorso notificato il 3 febbraio 2020 e depositato il 27 febbraio 2020 Beneduce Filippo, Beneduce Francesca, Beneduce Giovanni, Beneduce Gaetana e Auriemma Carolina hanno proposto appello avverso tale sentenza chiedendone la riforma.

4.1 A sostegno dell’impugnazione hanno dedotto il motivo così rubricato:

1) error in iudicando in relazione all’omessa applicazione alla fattispecie dell’art. 21 septies l. n. 241/90. travisamento degli atti. error in iudicando in relazione alla dedotta violazione delle “garanzie partecipative” .

5. In data 3 giugno 2020 si è costituito in giudizio per resistere avverso l’appello il Comune di Sant’Anastasia chiedendo la reiezione dello stesso.

6. All’udienza pubblica 27 giugno 2023 la causa è stata introitata per la decisione.

DIRITTO

1. L’appello è infondato e va respinto.

2. Con l’unico motivo di appello si censura la sentenza impugnata sotto plurimi profili.

Anzitutto, essa sarebbe erronea in quanto il giudice di prime cure avrebbe omesso di considerare che l’ordinanza di demolizione sarebbe viziata da nullità ed in ogni caso inefficace in quanto, come documentalmente dimostrato, le opere sanzionate sarebbero state sottoposte a sequestro preventivo ex art. 321 c.p.p. con verbale (n. 15) redatto dalla Polizia Locale il 7 agosto 2001, in seguito convalidato dal G.I.P. presso il Tribunale di Nola il 10 agosto 2001.

Parte appellante evoca, sul punto, un precedente di questa Sezione (sentenza n. 2337 del 17 maggio 2017) che ha affermato che l'ordine di demolizione di un immobile colpito da un sequestro penale deve essere ritenuto affetto dal vizio di nullità ai sensi dell’art. 21-septies della legge n. 241 del 1990 e, quindi, inefficace per mancanza di un elemento essenziale dell'atto costituito dalla possibilità giuridica dell'oggetto del comando.

In particolare, le opere sanzionate sarebbero state sottratte alla disponibilità dei destinatari del comando a causa del sequestro operato di iniziativa dalla P.L., sicché sarebbe difettata, nel caso di specie, una condizione costitutiva dell’esercizio del potere, ovvero l'imposizione di un dovere eseguibile.

A tale ricostruzione non potrebbe obiettarsi, secondo la difesa di parte appellante, che il responsabile dell'abuso dovrebbe collaborare chiedendo il dissequestro e la conseguente esecuzione dell'ingiunzione. Ciò in quanto:

- l'impossibilità dell'oggetto attiene al momento genetico dell'ordine e lo vizia insanabilmente all'atto della sua adozione mentre l'ipotesi confutata si riferisce ad un'eventualità futura, astratta e indipendente dalla volontà dell'interessato;

- si impone ad un privato una condotta che non trova fondamento giuridico positivo;

- l'istanza di dissequestro potrebbe contraddire le strategie difensive opzionali dell'indagato (o dell'imputato) nel processo penale interferendo pertanto con l’esercizio del diritto di difesa costituzionalmente garantito;

- non si potrebbe esigere che il cittadino impieghi tempo e risorse economiche per ottenere la restituzione di un bene di sua proprietà, ai soli fini della sua distruzione, anche e soprattutto in mancanza di un'espressa previsione di legge in tal senso, stante anche il divieto di prestazioni imposte se non per legge ex art. 23 Cost..

2.1 Sotto un secondo profilo si censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di prime ha escluso l’applicabilità, nel caso di specie, del disposto dell’art. 34 del D.P.R. n. 380/2001 affermando che detta norma “si riferisce ad interventi ed opere realizzati in parziale difformità dal permesso di costruire” nel mentre “Nella fattispecie in esame, l’abuso dei ricorrenti, consistente nella sopraelevazione, è totalmente privo di titolo edilizio”.

Osserva parte appellante che il T.A.R., avrebbe pretermesso qualsiasi valutazione circa l'entità della difformità delle parti del manufatto da demolire, dell'incidenza delle stesse sulle parti non abusive e, conseguentemente, della possibilità della sostituzione della demolizione con la sanzione pecuniaria meno afflittiva.

2.2 Sotto altro profilo, secondo parte appellante il T.A.R. avrebbe errato nel sostenere che “non è necessario una motivazione ulteriore rispetto all’indicazione dei presupposti di fatto” in quanto l’ordinanza di demolizione è un atto dovuto e vincolato. Tale principio, in generale condivisibile, andrebbe calato pur sempre nella fattispecie reale e, nel caso in esame, peraltro, il giudice di prime cure avrebbe anche omesso di considerare che le opere sanzionate non erano di recente realizzazione con la conseguenza che il provvedimento impugnato era intempestivo e, proprio per questo, necessitava di congrua motivazione.

2.3 In ultimo, ad avviso di parte appellante, il T.A.R. avrebbe errato nel ritenere la non necessità, nel caso in esame, della comunicazione di avvio del procedimento sanzionatorio. Si segnala, in particolare, che la peculiarità del caso concreto avrebbe imposto una istruttoria compiuta, la sola capace di realizzare il valore del giusto procedimento.

3. Le censure in parola non colgono nel segno.

Quanto al primo profilo di doglianza preme, in limine, evidenziare che l’asserita nullità dell’ordine di demolizione è vizio del provvedimento dedotto dall’odierna parte appellante per la prima volta in questo grado di giudizio.

Ciò integra la violazione del divieto di cd. nova in appello ex art. 104 c.p.a. con conseguente inammissibilità della censura.

A nulla vale, peraltro, replicare, come fa parte appellante, che la questione della nullità del provvedimento sarebbe rilevabile ex officio e ricadrebbe, come tale, nella deroga al divieto di nova contemplata dallo stesso art. 104, comma 1, prima parte c.p.a.. Quest’ultima disposizione stabilisce, infatti, che “Nel giudizio di appello non possono essere proposte nuove domande, fermo quanto previsto dall'articolo 34, comma 3, né nuove eccezioni non rilevabili d'ufficio”.

È, quindi, di tutta evidenza, sulla scorta del dato letterale della previsione in parola, che il divieto in parola possa essere superato, rispetto al rilievo della questione di nullità, solo ove quest’ultima si atteggi, sul piano processuale, ad “eccezione”, ovvero a fatto estintivo, impeditivo o modificativo dell’altrui pretesa, e non anche ove la stessa sia posta a fondamento di una “domanda”. Del resto, v’è una netta differenza, in punto di riflessi processuali, tra “domanda” ed “eccezione” posto che solo la prima determina un reale ampliamento del thema decidendum e, quindi, una discrasia in termini di oggetti tra i processi di primo e secondo grado.

Né può obiettarsi che il rilievo officioso della nullità sia sempre doveroso integrando lo stesso una parentesi di diritto oggettivo del giudizio amministrativo (per il resto di impronta soggettiva, come chiarito da, tra tutti, da Cons. Stato, Ad. Plen., 13 aprile 2015, n. 4).

E, infatti, secondo l’interpretazione preferibile del dettato codicistico, il potere-dovere del giudice amministrativo di rilevare la nullità di un atto amministrativo va necessariamente coordinato con i principi del processo di parti e, tra tutti, con quello della domanda ex art. 99 c.p.c..

In questo senso è stato condivisibilmente osservato che “La declaratoria di ufficio della nullità di un atto amministrativo da parte del giudice deve essere correlata al rispetto del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, ex artt. 112 c.p.c. e 39 c.p.a., in modo non dissimile da quanto già elaborato dalla giurisprudenza con riferimento alla possibilità ed ai limiti della declaratoria di ufficio della nullità del contratto, ex art. 1421 c.c.;
ne consegue che il giudice amministrativo può, di ufficio, procedere a dichiarare la nullità di atti amministrativi — ovviamente in un giudizio diverso da quello ex art. 31 comma 4 cp.a. — solo se tale declaratoria risulta funzionale alla pronuncia sulla domanda introdotta in giudizio e, quindi, nel giudizio impugnatorio, alla declaratoria di illegittimità dell'atto impugnato e al suo conseguente annullamento, ovvero, al contrario, al rigetto della domanda di annullamento” (così Cons. Stato sez. IV, 28/12/2017, n.6120).

Deve, quindi, parlarsi, nel processo amministrativo, sulla scorta del disposto dell’art. 31 comma 4, secondo periodo, c.p.a., fuori del caso in cui il rilievo della nullità sia funzionale all’accoglimento di una domanda di annullamento ritualmente e tempestivamente proposta (come nell’ipotesi dell’impugnazione di un provvedimento di esclusione da una procedura di affidamento illegittimo in quanto adottato sulla base di una clausola del bando atipica e quindi nulla ex art. 83 comma 8 del d.lgs. n. 50 del 2016 – fattispecie espressamente esaminata da Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria 16 ottobre 2020, n. 22), di un potere-dovere di rilevazione della nullità sostanzialmente “unidirezionale”, esercitabile cioè in favore della sola parte resistente ed in chiave reiettiva di altra domanda (non solo di annullamento ma anche, ad esempio, di condanna) proposta a mezzo di ricorso principale ovvero incidentale.

Militano in tal senso una pluralità di considerazioni.

Anzitutto, a differenza di quanto accade nel sistema del diritto civile (art. 1421 e ss. c.c.) ove l’azione di nullità ha natura di accertamento ed è imprescrittibile, nel processo amministrativo essa risulta assoggettata, al pari di quella di annullamento, ad un termine decadenziale (stabilito in centottanta giorni ex art. 31, comma 4, primo periodo, c.p.a.). Ciò spinge, da un lato, a ritenere che il provvedimento amministrativo affetto da nullità ex art. 21-septies della l. n. 241 del 1990 produca un qualche effetto giuridico interinale e sia destinato, decorso il termine di impugnazione, a divenire inopponibile e a vedere consolidati i propri effetti (secondo lo schema degli atti ad efficacia eliminabile ed in maniera non dissimile da quanto accade per quello annullabile ex art. 21-octies della l-. n. 241 del 1990). Dall’altro, la previsione del termine decadenziale per la proposizione della relativa azione si traduce in uno specifico onere processuale a carico della parte interessata sicché non può ammettersi, rispetto ad esso, un intervento in supplenza del giudice che avrebbe come conseguenza quella di alterare irrimediabilmente la parità delle parti ex art. 111, comma 2, Cost..

Un intervento del giudice amministrativo è, invece, ammesso (ed invero doveroso) ove la quaestio nullitatis non sia stata dedotta (o sarebbe stata deducibile) in via di azione ma in via di eccezione. Questa lettura, oltre ad apparire più in linea anche con la lettera della disposizione che parla di “rilevazione” e non anche di “declaratoria” della nullità (sulla distinzione tra i due concetti si veda, ancorché nel campo del diritto civile la nota Cass. Sez. Un. civ., 12 dicembre 2014, n. 26242), si spiega con la ratio di evitare che, accogliendo la domanda proposta da una delle parti, il giudice amministrativo giunga ad immutare la realtà giuridica disegnando un assetto di interessi che è, tuttavia, in contrasto, con una norma di azione dalla valenza piuttosto qualificata e la cui inosservanza dà luogo a nullità (patologia dal carattere eccezionale che, per la stessa disciplina tracciata dal legislatore processuale amministrativo, ha connotati di maggiore gravità rispetto a quella ordinaria della illegittimità-annullabilità).

3.1 In disparte da quanto testè osservato in rito in ordine all’inammissibilità della censura, la stessa appare, in ogni caso, infondata nel merito atteso che appare preferibile la tesi, seguita anche dalla giurisprudenza più recente, secondo cui “Il sequestro di un immobile abusivo da parte dell'Autorità giudiziaria penale non determina l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione che lo attinge, ma soltanto l'eventuale differimento del termine fissato per la rimessa in pristino, decorrente dalla data del dissequestro, che sarà onere dell'interessato richiedere tempestivamente. Conseguentemente, la circostanza che il fabbricato è oggetto di un sequestro penale deve essere tenuta in conto dall'Amministrazione procedente soltanto ai fini delle valutazioni di competenza circa l'eseguibilità materiale del provvedimento repressivo. L'obbligato quindi ha l'onere di chiedere all'autorità giudiziaria penale il dissequestro, secondo la procedura prevista dall' art. 85 disp. att. c.p.p. , allo scopo di ottenere l'autorizzazione a provvedere direttamente alla demolizione e al ripristino dei luoghi;
sicché, in tal caso, soltanto il rigetto dell'istanza giustificherebbe il factum principis tale da inibire l'ordine di demolizione e/o l'avvio del procedimento di acquisizione al patrimonio comunale” (T.A.R. per la Sicilia, Palermo , sez. I , 18/05/2022 , n. 1629).

A sostegno di questa ricostruzione non può, del resto, obliterarsi che la nullità rappresenta, nel sistema di invalidità del provvedimento amministrativo, una patologia a carattere eccezionale (rispetto a quella generale dell’annullabilità ex art. 21-octies della l.n. 241 del 1990 – così ex multis, da ultimo, Cons. Stato, sez. V, 03/05/2018 , n. 2641) le cui ipotesi vanno lette in chiave necessariamente restrittiva.

Ed è in questa ottica che va, in particolare, disegnata la categoria della nullità c.d. “strutturale” per mancanza degli “elementi essenziali” ex art. 21-septies della legge generale sul procedimento. Pur nella difficoltà di delinearne con certezza i confini (anche in ragione dell’assenza, nel sistema amministrativo, di una previsione analoga a quella dell’art. 1325 c.c.), sembra che al suo interno vada ricompresa, sulla scorta della teoria generale dell’atto giuridico, anche la mancanza di un “oggetto” del provvedimento che sia dotato dei crismi della certezza, possibilità e determinatezza (ovvero determinabilità) ai sensi dell’art. 1346 c.c..

In particolare, per “oggetto” deve intendersi non tanto la res in sé che costituisce il termine passivo della volizione amministrativa (che, come tale, stando fuori della fattispecie attizia non potrebbe assurgere a suo elemento essenziale), quanto piuttosto la rappresentazione che della stessa è data nell’adozione del provvedimento e che consente di individuare la materia a cui si riferisce il precetto in esso contenuto.

Così inteso l’“oggetto” del provvedimento amministrativo, è evidente che il vaglio circa la sua possibilità va condotto, in linea con le soprarichiamate esigenze di tassatività, con particolare cautela e rigore circoscrivendo i casi in cui detto crisma può dirsi mancante alle sole ipotesi-limite di assoluta impossibilità (giuridica ovvero materiale) dello stesso.

Ne discende che, applicando le suddette coordinate al caso in esame, la sottoposizione a sequestro penale della res interessata dall’ordinanza di demolizione non determina la nullità strutturale del provvedimento amministrativo poiché l’oggetto resta, almeno in astratto, possibile (così Cons. Stato, sez. VI , 07/07/2020 , n. 4354), ben potendo la parte interessata ottenere dall’A.G.O. il dissequestro del manufatto al fine di rimuovere spontaneamente l’abuso (e non incorrere in ulteriori conseguenze amministrative e civili).

A nulla vale osservare che tale iniziativa può importare un sacrificio per l’istante/proprietario perché detta circostanza non vale di certo a rendere radicalmente impossibile la demolizione.

V’è, piuttosto, da ritenere che la sottoposizione a vincolo reale del manufatto incida, al più, sul piano, ontologicamente diverso da quello dell’invalidità del provvedimento, della sua concreta eseguibilità ex art. 21-quater della l. n. 241 del 1990, ostando, fintanto che perdura, all’attuazione del precetto in esso contenuto (con tutti i riflessi in punto di exordium del termine fissato per la rimessa in pristino, da posticipare al momento dell’eventuale venir meno del vincolo reale sulla res anche in accoglimento dell’istanza di dissequestro – in termini Cons. Stato, sez. VI , 23/03/2022 , n. 2122;
Cons. Stato, sez. VI , 20/07/2018 , n. 4418).

3.1 Quanto al secondo profilo di doglianza, in aggiunta a quanto correttamente osservato dal giudice di prime cure in ordine al campo di applicazione dell’istituto ex art. 34 del D.P.R. n. 380 del 2001 (invero espressamente limitato ai soli casi di “parziale difformità” e non di mancanza tout court del titolo) va osservato che la consolidata giurisprudenza anche di questa Sezione ha da tempo chiarito che la c.d. “fiscalizzazione” dell’abuso non condiziona la legittimità della ordinanza di demolizione, trattandosi di sub-procedimento che assume rilievo nella successiva fase di esecuzione della stessa.

In particolare, si è condivisibilmente affermato che “L'applicabilità della sanzione pecuniaria può essere decisa dall'Amministrazione solo nella fase esecutiva dell'ordine di demolizione e non prima, sulla base di un motivato accertamento tecnico. La valutazione, cioè, circa la possibilità di dare corso alla applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria costituisce una mera eventualità della fase esecutiva, successiva alla ingiunzione a demolire. Con la conseguenza che la mancata valutazione della possibile applicazione della sanzione pecuniaria sostitutiva non può costituire un vizio dell'ordine di demolizione ma, al più, della successiva fase riguardante l'accertamento delle conseguenze derivanti dall'omesso adempimento al predetto ordine di demolizione e della verifica dell'incidenza della demolizione sulle opere non abusive” (così ex multis Cons. Stato, sez. VI , 10/12/2021 , n. 8240;
in termini anche Cons. Stato sez. II, 8 ottobre 2020, n. 5985 e Cons. Stato, sez. VI, n. 4855 del 2016).

3.2 Quanto al terzo profilo di doglianza è, invece, sufficiente osservare che, secondo insegnamento consolidato di questo Consiglio, l'ordinanza di demolizione di un immobile abusivo ha natura di atto dovuto e rigorosamente vincolato, con la conseguenza che essa è dotata di un'adeguata e sufficiente motivazione se contiene la descrizione delle opere abusive e le ragioni della loro abusività (ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 07/06/2021, n.4319).

Ne consegue che non è necessario che l’amministrazione individui un interesse pubblico – diverso dalle mere esigenze di rispristino della legalità violata – idoneo a giustificare l’ordine di demolizione (cfr. Consiglio di Stato sez. VI, 17/10/2022, n.8808: “L'ordine di demolizione di manufatti abusivi non richiede una specifica motivazione sulla ricorrenza del concreto interesse pubblico alla loro rimozione, essendo la relativa ponderazione tra l'interesse pubblico e quello privato già compiuta, a monte, dal legislatore.”;
Consiglio di Stato, sez. II, 11/01/2023, n.360: “L'ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione”).

Tali principi valgono anche nel caso in cui l’ordine di demolizione venga adottato a notevole distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, atteso che, a fronte della realizzazione di un immobile abusivo, non è configurabile alcun affidamento del privato meritevole di tutela. L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha, infatti, chiarito che “Il provvedimento con cui viene ingiunta, sia pure tardivamente, la demolizione di un immobile abusivo e giammai assistito da alcun titolo, per la sua natura vincolata e rigidamente ancorata al ricorrere dei relativi presupposti in fatto e in diritto, non richiede motivazione in ordine alle ragioni di pubblico interesse (diverse da quelle inerenti al ripristino della legittimità violata) che impongono la rimozione dell'abuso neanche nell'ipotesi in cui l'ingiunzione di demolizione intervenga a distanza di tempo dalla realizzazione dell'abuso, il titolare attuale non sia responsabile dell'abuso e il trasferimento non denoti intenti elusivi dell'onere di ripristino” (Consiglio di Stato, Ad. plen., 17/10/2017, n.9).

Tali principi sono stati da ultimo ribaditi dal Consiglio di Stato, sez. II, 11/01/2023, n.360, che ha affermato che “l'ordine di demolizione è atto vincolato e non richiede una specifica valutazione delle ragioni di interesse pubblico, né una comparazione di questo con gli interessi privati coinvolti e sacrificati, né una motivazione sulla sussistenza di un interesse pubblico concreto ed attuale alla demolizione;
né vi è un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva che il mero decorso del tempo non sana, e l'interessato non può dolersi del fatto che l'amministrazione non abbia emanato in data antecedente i dovuti atti repressivi”.

3.3 È privo di giuridico pregio, infine, anche l’ultimo profilo di doglianza relativo all’omessa comunicazione di avvio del procedimento.

Come già osservato, l’ordinanza di demolizione costituisce, infatti, espressione di un potere tout court vincolato e doveroso in presenza dei requisiti richiesti dalla legge, rispetto al quale non è richiesto alcun apporto partecipativo del privato (cfr. ex multis Consiglio di Stato, sez. VI, 11/05/2022, n.3707 “L'attività di repressione degli abusi edilizi, mediante l'ordinanza di demolizione, avendo natura vincolata, non necessita della previa comunicazione di avvio del procedimento ai soggetti interessati, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, considerando che la partecipazione del privato al procedimento comunque non potrebbe determinare alcun esito diverso”;
Consiglio di Stato sez. II, 01/09/2021, n.6181: “Al sussistere di opere abusive la pubblica amministrazione ha il dovere di adottare l'ordine di demolizione;
per questo motivo, avendo tale provvedimento natura vincolata, non è neanche necessario che venga preceduto da comunicazione di avvio del procedimento.”). In ogni caso, trattandosi di procedimento vincolato, troverebbe applicazione l’art. 21-octies, comma 2, l. n. 241 del 1990, posto che il provvedimento non avrebbe potuto avere un contenuto diverso da quello in concreto adottato. Del resto, l’appellante non ha fornito alcun elemento concreto volto a dimostrare che, ove fosse stata coinvolta in fase endoprocedimentale, il provvedimento finale avrebbe avuto un contenuto diverso da quello adottato.

4. Per le ragioni sopra succintamente esposte l’appello è infondato e va respinto.

5. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex art. 91 c.p.c. e 26 c.p.a. la soccombenza e sono da porre integralmente a carico di parte appellante.

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